Pino Blasone - ALICE CIBERNETICA - Romanzo


UNO

 

Dieci anni. Dieci lunghi anni. Avevo notato Kundalini durante le prime fasi del processo, attraverso le sbarre, nell'aula-bunker del tribunale. Sedeva su una panca di legno in fondo alla sala, illuminata dalla luce bianca e fredda delle lampade al neon. Il mio sguardo e la mia attenzione si concentrarono subito su lei, più ancora che sulle interminabili procedure che avrebbero dovuto riguardarmi in prima persona, ma con esito scontato e senza possibili colpi di scena. Quando per qualche motivo il dibattito si animava, erano gli altri imputati a toccarmi insistentemente con il gomito, perché fossi presente a me stesso e a ciò che accadeva fuori o dentro la gabbia. Probabilmente, pensavano che fossi caduto in uno stato di profonda depressione. In parte, non avevano torto.

"Abbiamo sbagliato e abbiamo perso. Entro tale logica, era previsto ed è giusto che paghiamo. Tutto il resto mi lascia indifferente: comunque vadano ormai le cose. Tanto, non c'è via di scampo...": era ciò che mi ripetevo mentalmente. A tutt'oggi, forse non la penserei molto diversamente. Ma i miei compagni di allora non potevano ancora capirlo o condividerlo, né sapevano bene come interpretare la mia apatìa e il mio silenzio. Altri, nel pubblico, avranno scambiato il mio atteggiamento per una ostentazione di cinismo. Neanche questo mi interessava: meno che mai. L'unica mia preoccupazione era ciò che pensasse Kundalini, come se lei rappresentasse un metro unico e decisivo di giudizio, e non i giudici o la giurìa. Oggi so che era un modo di distrarmi e di astrarmi dal contesto, di un fallimento esistenziale angoscioso e pressoché totale. Avrei avuto tanto tempo per rifletterci, davanti a me.

Kundalini non era il suo vero nome. Era un soprannome che le avevamo dato scherzosamente, non senza una punta di dissenso polemico, al tempo della sua partenza per un tanto desiderato viaggio in India. Ma lei lo aveva presto fatto proprio, quasi lusingata o sentendosi predestinata a portarlo. In effetti, Kundalini era diversa da noi altri, forse anche per una educazione più raffinata e a causa di una estrazione benestante. Alla militanza politica e all'impegno sociale collettivi, ella preferiva una ricerca personale artistica e religiosa: certo non tradizionale, ma sull'onda della moda delle filosofie orientali. Scelta che noi consideravamo un po' una evasione e una fuga dal confronto e dallo scontro con la realtà, se non addirittura un tradimento.

In particolare, io e Kundalini eravamo colleghi di studi. Frequentavamo la stessa facoltà universitaria, anche se io lavoravo nello stesso tempo, sia pure saltuariamente, per potermi meglio mantenere. Il mio primo sentimento nei suoi confronti era stato una sorta di ammirata invidia, mista a curiosità e seguita da una immediata attrazione. Come capita in questi casi, me ne innamorai presto, e questo secondo sentimento fu per un certo tempo reciproco. Si trattò del periodo più felice della mia gioventù, sebbene non mancassero fra noi divergenze, discussioni e anche litigi. Mi resi peraltro conto che Kundalini era una amante deliziosa, istintiva e appassionata. Il che nulla sottraeva al desiderio della sua compagnia; anzi, accresceva molto il suo fascino.

* * *

Passarono altri anni. Le lettere di Kundalini si diradarono, con mio dispiacere e realistica rassegnazione. Lei era di nuovo partita, questa volta per il Nord-America, con una borsa di studio per il perfezionamento e per la ricerca. Cominciai a ricevere qualche cartolina ogni tanto dalla California, dove in seguito ella aveva trovato lavoro in una industria di elaboratori elettronici e programmi informatici. Poche righe di notizie a carattere personale, sempre più vaghe. Qualche riferimento estemporaneo alla sua attività, con particolare riguardo all'Intelligenza Artificiale. Quasi che io non avessi potuto più capire i suoi nuovi interessi, nonostante gli studi in comune, così tagliato fuori dal mondo e rimasto indietro nel congegno a tempo del progresso: non quello sociale e civile, che aveva impietosamente illuso la mia generazione, bensì quello scientifico e tecnologico, che trionfava ormai su tutto l'orizzonte, non senza sinistri riverberi nel chiuso della mia cella interiore. Né potei fare a meno di notare, in calce a tale metamorfosi, che la già "mia" Kundalini era tornata a firmarsi con il suo vero nome: quasi a prendere le distanze dalle esperienze giovanili, per conseguire una sua piena identità.

A maggior ragione fui sorpreso, quando ricevetti - dopo un lungo silenzio - una sua missiva dall'Europa, puntualmente al corrente degli scarsi eccezionali eventi della mia esistenza. "Mio caro," comunicava laconica la lettera, con la sua inconfondibile calligrafia fortemente obliqua, "sono tornata di recente, per cercare di impiantare qui da noi una attività di lavoro produttiva. Ho saputo, da comuni amici, di una tua prossima 'licenza per buona condotta'. Vengo a prenderti all'uscita del carcere, nel giorno e all'ora previsti. Tua, Alice".

La mia prima reazione fu, a ripensarci, comprensibilmente ingenua. Deposi il biglietto dopo averlo riletto più volte. Mi alzai dalla mia branda e mi portai verso la piccola finestra schermata da una grata, attraverso la quale era possibile scorgere una esigua sezione di cielo e l'ala opposta incombente del penitenziario. Tornai all'interno, mentre il mio battito cardiaco aumentava sensibilmente d'intensità, e aprii l'unico armadietto metallico, sul retro del cui sportello era fissato uno specchietto. Controllai minuziosamente l'immagine riflessa del mio viso, porzione per porzione, finché non si appannò il mio sguardo. Qualche precoce capello bianco. Due stempiature accentuate sui lati. Alcune piccole grinze della pelle intorno agli occhi...

Nel giorno e all'ora prestabiliti, Alice-Kundalini era lì, fuori della cancellata e del portone. Non più una ragazza ma una donna, non più in jeans e maglietta, ma con una tuta di pelle scura aderente e stivaletti di cuoio. Una cascata di capelli biondi e spettinati sulle spalle, intorno al viso sorridente e dall'espressione matura. Un casco da motociclista sotto il braccio. Dopo un saluto disinvolto e un abbraccio, lei mi accompagnò a una moto di grossa cilindrata, posteggiata dalla parte opposta della strada. Sistemò sul retro la mia sacca da viaggio - tutti i miei averi personali - e mi invitò a sedere sul sellino posteriore, dopo essersi messa alla guida. Sfrecciammo così verso pochi giorni fra i più intensi della mia esistenza: anche se non ci voleva poi molto, data la mia precedente condizione. Ma Alice fu una vera fata. Ospite a casa sua, in un residence di lusso al centro della città, non ebbi altro pensiero che godere il più possibile della sua presenza e della sua disponibilità, tanto più che per l'occasione lei aveva rinviato ogni impegno di lavoro. La nostra vacanza fu breve ma difficilmente dimenticabile. Oltre a fare l'amore e a gustare insieme gli altri piaceri della vita, ella non trascurò di raccontarmi finalmente un po' di sé e dei suoi progetti: in essi erano ritagliati uno spazio e un ruolo imprevedibili per la mia persona.

* * *

Con una motivazione e uno scopo ormai davanti, i pochi anni che mi rimanevano da scontare trascorsero più in fretta - si fa per dire - dei precedenti: il cui vuoto feci del resto di tutto, per rimuovere dalla mia memoria. Il verde degli occhi di Alice, unito alle vibrazioni della sua voce, attraverso il cristallo di sicurezza nel parlatorio, era l'unica vera musica che potesse giungermi dal mondo esterno. Con l'aiuto di lei, ottenni dalla direzione carceraria il permesso di installare un personal computer nella mia cella. Con tutto l'agio a disposizione e tramite una concentrazione febbrile, riuscii in breve ad aggiornare la mia preparazione, recuperando il tempo perso da quando avevo interrotto gli studi di ingegneria teorica, per dedicarmi esclusivamente all'utopìa rivoluzionaria. Mi spinsi in effetti ben oltre, per merito ancora delle indicazioni e dei suggerimenti preziosi di Alice. Lei intanto aveva avviato con successo una piccola azienda di servizi e di programmazione informatica altamente qualificata, la cui curiosa denominazione - a un orecchio appena iniziato - manteneva un vago sapore orientale e emblematico: la Samadhi Software Company.

Allo scadere dei dieci anni - tanti, grazie a un condono di pena -, io mi ritrovai accecato da una specie di frenesìa, più che sinceramente ravveduto o "redento". Convinto di aver saldato il mio "debito con la società" e di aver così cancellato gli errori del passato, avevo sospeso ogni contatto compromettente con gli ex compagni, ancora detenuti o in libertà. In virtù del mio amore per Alice, ero insomma pronto al lieto fine che il "sistema" tanto deprecato sembrava aver riservato, per quella che era stata solo una brutta favola, o un incubo grottesco. Mi illudevo, nello stesso tempo, di potermi reinserire in quel medesimo sistema, a un livello che in qualche modo mi competeva.

Ricordo la trepidante emozione del mio nuovo incontro con Kundalini - mentalmente, continuavo a chiamarla così -, dopo la mia definitiva scarcerazione. Questa volta ci eravamo dati appuntamento nella piazza principale della città, dove lei mi avrebbe raggiunto, appena uscita dal suo ufficio, per andare a cena fuori insieme. Sceso dalla metropolitana e risalito in superficie lungo la scala mobile, mi trovai all'improvviso di fronte la piazza nella sua vastità. Bagnata da una pioggia sottile, essa accoglieva in sé i riflessi di tutte le luci, a cominciare dalle insegne pubblicitarie multicolori, con un effetto di surreale profondità. Quando provai ad attraversarla per raggiungere il luogo convenuto per l'appuntamento, fui colto per la prima volta da una senso di vertigine. Dieci anni della mia giovinezza - mi resi meglio conto - erano effettivamente sfumati, e non li avrei mai più recuperati sul serio. Ma, soprattutto, quel mondo che mi si riapriva davanti in tutta la sua realtà - non più mediato dalla televisione, dalla radio, dai giornali - era profondamente mutato nel frattempo; io ero diventato, in proporzione, un estraneo. Né avrebbe potuto essere altrimenti, neanche se la corsa del "progresso storico" si fosse arrestata. Pretendere di rimontarci su al volo, dopo esserne sceso a suo tempo per mia intima scelta, mi parve ora un assurdo.

Mi morsi le labbra a sangue. Sarei tornato forse sui miei passi, se non avessi scorto Alice sullo sfondo, arrivata in anticipo, e non mi fossi fermato a metterne a fuoco e a considerarne la figura. Indossava un tailleur grigio, di taglio elegante e alquanto "manageriale", ma, al contrario dei radi passanti, era senza ombrello. Noncurante della pioggia, i suoi bei capelli pendevano bagnati ai lati del viso. L'espressione era insolitamente seria, con qualcosa per me di familiare e allo stesso tempo di vagamente infantile nello sguardo. Riconobbi in lei la ragazza apparentemente fragile, che avevo conosciuto e amato vari anni prima. La compagna entusiasta nei cortei per la pace, nonostante tutte le sue riserve per il nostro avventurismo impulsivo, che mostrava già allora - a dire il vero - ben poco di pacifico. Al di là dell'ancora di salvezza, quale adesso a me si presentava, chi era veramente Kundalini? Quale sentimento la spingeva nei miei confronti? Possibile che si trattasse solo di un misto di affettuosa pietà, e di interessata stima? Certo, l'essere sfuggente a ogni definizione faceva parte della sua personalità e del suo fascino. Né io sarei riuscito a trovare una risposta a tali interrogativi, cullandomi nell'incertezza. O vi sarei riuscito troppo tardi.

* * *

L'arredo della nuova abitazione di Alice era un po' uno specchio frammentario del suo vissuto. Vi erano raccolti tutti gli oggetti souvenir dei suoi viaggi, ma specialmente di quelli in Oriente. Mi colpì, in particolare, al centro del salotto, un Buddha di cristallo opalescente, seduto in posizione yoga e con l'espressione del viso benevola, o forse ironica. Il grasso ventre prominente era illuminato dall'interno, e diffondeva una luce soft per tutta la stanza, con un effetto rilassante. Esso contrastava stranamente con un grande quadro di seta dipinta, su una parete laterale e opposta alla finestra. Vi era raffigurata inequivocabilmente l'antica dea indiana Kalì, scura e terribile d'aspetto: con una collana di piccoli teschi intorno al collo, le molteplici braccia armate di enigmatici simboli, e la lingua rossa di sangue penzolante dalla bocca, secondo l'iconografia popolare. In più, il suo corpo nudo e flessuoso era atteggiato in un passo convenzionale di danza: leggermente inclinato su un fianco, con una gamba sollevata e incrociata con l'altra all'altezza del ginocchio, e con due mani unite fra loro al di sopra del capo. La compagna di Shiva, il distruttore, accennava così alla prossima fine di un ciclo cosmico.

- Se non hai alternative migliori, puoi fermarti ad abitare qui, finché ne avrai voglia - disse Kundalini, sorridendo invitante, e accompagnandomi verso una camera per gli ospiti - Basteranno poche modifiche di tuo gradimento.

"Sai benissimo che non ho alternative, e, anche se ne avessi, acconsentirei lo stesso", replicai fra me e me. Per esplicita risposta, le passai un braccio intorno al fianco baciandola tra le labbra morbide, e la sospinsi dolcemente verso il letto intatto. Un vero letto, come non avevo più assaporato da anni. Quanto a sensualità e a erotismo, il suo corpo non aveva nulla da invidiare a quello di Kalì o di qualunque altra dea. Almeno, così mi sembrò. Accettai in tal modo, di buon grado, la transizione da una detenzione reale a una prigione dorata, con finestre senza grate e con le porte spalancate sul mondo, senza gli urti e le scosse che un ritorno brusco potesse provocarmi, dopo una assenza forzata e tanto prolungata.

"Del resto," pensai quasi a mia giustificazione, affacciandomi sulla strada sottostante, la mattina dopo, "in questi dieci anni di riflusso delle coscienze e di sfrenato consumismo, i miei concittadini non hanno fatto altro che costruirsi una prigione dorata, magari in convulso movimento. Perché tornare a sacrificarsi: per una minoranza di disadattati, o per una maggioranza sofferente ma remota? E con quali ragionevoli risultati e prospettive: di rischiare di peggiorare la situazione, come era già accaduto? In tal senso, io avevo fatto abbastanza, anche troppo".

- La scienza e la tecnica, se usate in maniera mirata: non c'è altra via d'uscita, credimi. Sia la mia mistica, sia la tua politica, hanno fallito. O, meglio, dal mio punto di vista, è la tecnologìa l'unica magìa del presente. Dominarla e controllarla è un rischio necessario: piuttosto che esserne dominati, o che altri la trasformino in una forza malefica e annichilente... -. Così, in effetti, si era confidata Alice, in una pausa di riflessione, con lo sguardo rivolto al soffitto e un braccio reclinato sul cuscino al di sopra del capo; le dita della mano erano intrecciate intorno a una sbarra metallica della testata.

- Tu credi davvero di potercela fare? - avevo domandato, tradendo una certa perplessità, se non apprensione o scetticismo.

- Sì. Senz'altro. Se tu mi darai una mano -, aveva risposto lei, con l'aria di scherzare, o di sdrammatizzare, come se avesse inteso soprattutto fantasticare. Non senza un sospiro ignaro di sollievo, dal canto mio.

* * *

Anche nella sede della Samadhi Software Company, scoprii che Alice aveva allestito per me un modesto ufficio. Faceva parte dell'esistenza rispettabile e indolore, che lei pareva aver scrupolosamente programmato. Vi erano i terminali di elaboratori assai più complessi, di quelli con i quali avevo mai avuto a che fare. Ci vollero in effetti altro tempo e ulteriore preparazione prima che potessi impratichirmi, sia pure con l'entusiasmo che lei era capace di infondermi e sotto la sua solerte guida. Ma, alla fine, acquistai sufficienti competenza e sicurezza, da essere in grado di esercitare un controllo sull'intera struttura produttiva, e sostituire sempre più spesso Kundalini nell'adempimento dei suoi compiti dirigenziali. Mi divenne allora chiaro quale era, o era sempre stato, il suo intento e la sua ambizione nei miei confronti. Delegare a una persona esperta e di sua totale fiducia la gestione tecnica dell'azienda, per poter tornare a occuparsi maggiormente o interamente del settore della sperimentazione e della ricerca. Era questa la sua vera passione, alla quale destinava notevoli investimenti fra i profitti realizzati, e sui cui risultati appariva a dir poco riservata, perfino gelosa.

Di pari passo che si perfezionavano i nostri rapporti di lavoro, paradossalmente cominciarono tuttavia a deteriorarsi e a incrinarsi quelli personali. Mi sembrava che lei dedicasse sempre più tempo, energìe e spazio mentale, alla sua attività, al di là di limiti ragionevoli. Per giunta, che io fossi uno strumento utile a tale manìa o aberrazione. Invano cercai di scacciare una oscura inquietudine e presentimento dal mio animo, attribuendoli a deprecabile, ingrata ansia di possesso. Quelli venivano alimentati da piccoli anomali indizi nell'atteggiamento e nel comportamento, di colei che mi sforzavo di considerare non una benefattrice ma finalmente la mia compagna, dopo averla tanto a lungo desiderata. Essi sfuggivano dolorosamente alla mia comprensione. Quel che è peggio, la sentivo allontanarsi inesorabilmente da me, quasi distratta e riassorbita da un suo mondo di morbosa astrazione, di fronte al quale mi sentivo impotente più che dinanzi a qualunque rivale.

Desiderai intensamente avere un figlio da Alice, in quanto unica rassicurante soluzione: più che egoistico espediente per legarla definitivamente a me, come naturale sbocco al nostro antico controverso amore, estremo mezzo per richiamarla a se stessa e a una vita infine "normale". Ma tutte queste buone intenzioni, che avrebbero forse convinto un'altra donna, non funzionarono con Kundalini, sempre elusiva su tale argomento.

- Non si può avere tutto. E, poi, sono sicura che non saprei essere una buona madre -, si limitò a tagliare corto, messa alle strette, non senza un'ombra di dissimulata malinconia.

Al di là dello spirito indipendente e della sua indubitabile intelligenza, doveva esserci qualcosa di inconfessabile, di urgente e assoluto, che la tratteneva dalla maternità, sebbene questa la tentasse intimamente. Ora, presumo di saperlo. Ma, allora, ero troppo deluso e amareggiato. Pur rispettando le sue scelte e continuando il mio lavoro, decisi di riacquistare la mia autonomia e di allontanarmi temporaneamente da lei, rinunciando per il momento a capire le sue motivazioni e in attesa di una verifica della nostra relazione. Si è trattato probabilmente di un ennesimo, irreparabile errore.

* * *

Dalla nostra separazione in poi le cose hanno iniziato a precipitare, verso un esito forse prevedibile e contenibile, se non evitabile. Di tale dubbio non so darmi pace, nella mia attuale disperazione. Dopo un certo periodo, mi fu recapitato un plico non molto voluminoso e accuratamente isolato, di quelli che ricevevo frequentemente, predisposti per contenere supporti informatici. Ne estrassi numerosi dischi di materiale sofisticato e ad altissima densità di dati, di un tipo non in circolazione sul mercato. Benché sibillina e sintetica, dal tono apparentemente innocuo e distaccato, la lettera di accompagno mi lasciò senza fiato, a mano a mano che ne valutavo la portata del significato:

"Mio caro, ho depositato copie del contenuto di questo plico presso varie banche e istituti internazionali specializzati, di cui accludo e ti affido un elenco particolareggiato. Si tratta del risultato di una lunga sperimentazione a rischio e a responsabilità personale, di cui tu sei il primo che metto al corrente. La mia intera personalità, quale si è andata sviluppando fino ad oggi, è trasfusa nella memoria informatica, in grado di essere riattivata e reinserita a tempo opportuno e a luogo imprecisato. Superfluo aggiungere che il materiale in oggetto va maneggiato il meno possibile e custodito con estrema cautela. Abbi cura di esso come se si tratti del mio ricordo, o di una seconda me stessa. Seguono i dati tecnici e le prime procedure di accesso. Un abbraccio e un addio. Abbi cura anche di te e del tuo karma, e cerca - se mi ami a tal punto - di comprendermi e di perdonarmi. Se non lo facessi, a mia volta non potrei mai perdonarmelo. Ripeto, 'mai'. Kundalini".

Dopo un attimo angoscioso di disorientamento, non ebbi più perplessità. Si trattava di lucida follìa, se non di peggio. Mi precipitai al telefono e chiamai Alice più volte, con lo stesso risultato. La voce meccanica di una segreteria elettronica informava che la padrona di casa era partita per un viaggio di lunga durata, e che da ora in poi ogni comunicazione concernente la Samadhi Software Company andava indirizzata al neo-direttore della ditta. Vale a dire al sottoscritto. Mi recai a casa sua. La porta d'ingresso era aperta, e i locali vuoti di ogni presenza. Nei cassetti degli armadi mancavano pochi indumenti e oggetti personali. Non mi restava che avvisare la polizia. Ma per un numero interminabile di giorni ogni ricerca fu vana. Il sogno della nostra amicizia e della nostra convivenza era stato troppo bello, per durare a lungo. Sembrava che lei fosse svanita nel nulla, cancellando ogni traccia alle sue spalle, salvo che nella mia memoria e in quella in codice di una Intelligenza Artificiale.

Tentai allora di penetrare in quest'ultima, nella speranza di ricevere ulteriori lumi utili, più che per una indiscreta curiosità. Inutile: inseriti i dischi nel computer più perfezionato, ogni procedura si bloccava in assenza dell'ultima chiave d'accesso, governata da un incredibile e inviolabile congegno a tempo. Secondo le istruzioni decifrabili, questo sarebbe stato in qualche modo connesso e dipendente da una determinata congiuntura astrale, la quale si sarebbe verificata in una età assai remota, presumibilmente più evoluta e progredita della nostra. La stessa, in cui Kundalini aveva calcolato e stabilito di "reincarnarsi", o, più esattamente, di risvegliarsi alla coscienza. Ogni volta, un singolare disegno animato, ispirato alla mitologìa e alla religiosità indiane, chiudeva la comunicazione, comparendo nello schermo come in un video-gioco. Riconobbi la danza della Trimurti, in cui Shiva "il distruttore" si trasforma in Brahma, la divinità creatrice, e poi nel benevolo Visnù, "il conservatore", per tornare daccapo il diabolico Shiva.

* * *

Una mattina, di buon'ora, ho ricevuto una telefonata dal nostro personale consolare in Svizzera. Kundalini era viva. Era stata finalmente ritrovata, in stato confusionale palese - mi è stato riferito -, e ricoverata in una clinica locale per affezioni mentali: in base, peraltro, a indicazioni annotate su foglietti sparsi nelle sue tasche. Gli stessi appunti avevano consentito di risalire a me. Al più presto possibile, ho raggiunto il sito della casa di cura, oltre confine. Prima di poterla rivedere, sono stato ricevuto dal medico al quale è affidata la paziente. Rispondendo alle sue cortesi e precise domande, ho raccontato tutto quanto ho esposto qui sopra, evitando soltanto i commenti soggettivi. Lo psichiatra mi ha inquadrato e scrutato professionalmente per tutta la durata del colloquio, attraverso le lenti da vista spesse. Non trovando fondato motivo per dubitare delle mie parole, si è rivolto a me con espressione severa.

- I sintomi che lei ha descritto - egli ha aggiunto - sono tipici di una sindrome maniacale grave, ad andamento regressivo e schizoide. Se aveste riferito prima, a me o a chi altri di dovere, si sarebbe forse potuto tentare un recupero con successo, salvo ricadute periodiche, ma controllabili. Purtroppo, lo stadio catatonico, al quale la signorina è pervenuta, è estremo e generalmente irreversibile, nel decorso del male. La sua personalità è irrimediabilmente dissociata; l'identità compromessa e recisa senza ritorno, come da un colpo di rasoio, o da una decisione interiore irrevocabile. E' come se ella abbia volutamente staccato i contatti con la realtà esterna, né sarebbe più in grado di ripristinarli, neanche se in questo momento o in seguito volesse farlo...

Non valeva la pena, dunque, di prolungare la sofferenza ascoltando una spiegazione, che in parte ormai già conoscevo, al di là dei termini specialistici impiegati. Era evidente che ci sarebbe stato molto tempo, per aggiornarsi sui particolari. Mi sono alzato impaziente dalla sedia, e ho pregato il dottore di accompagnarmi da lei. Alice era di spalle, seduta su una poltroncina al centro della stanzetta, di fronte alla finestra. Essa ricordava stranamente la mia cella carceraria, se non fosse stato per la luce fluente al tramonto, e per il fatto che la finestra, protetta da una grata, affacciava sul panorama limpido di un lago azzurro, simile al "terzo occhio" del Buddha.

"Maledizione. Una generazione fregata in pieno: in un modo o nell'altro, senza via di scampo!", ho gridato fra me, mordendomi con rabbia le labbra. Vista di profilo, Kundalini mi è apparsa tuttavia più bella che mai. Lo sguardo perso nel vuoto ma sereno, sottolineato da un sorriso di tacita intesa, o suggellato da una espressione di ermetica consapevolezza. Pure, mi è sembrato che volesse replicare: "Una generazione che ha tentato l'assalto al cielo, non dimenticarlo. Ma non prendertela, mio caro, più del sensato. Sarà per la prossima volta. Prima o poi torneremo, come è sempre successo. Questa volta, magari, staremo attenti a commettere meno errori che in passato: a essere più umani e tolleranti verso gli altri, meno intransigenti con noi stessi. Te lo prometto...".

Ho avuto l'impressione improvvisa che lei ce l'avesse davvero fatta. Che Alice fosse tornata ad attraversare lo specchio. Nessuno psichiatra, prete o guardiano, l'avrebbe più raggiunta e trascinata indietro. Il cigno selvatico aveva reciso i legami e si era librato in volo, verso un lontano orizzonte. Così, come recita una antichissima Upanishad indiana.