Pino Blasone - ALICE CIBERNETICA - Romanzo


DUE

 

- E' accaduto tanto tempo fa - disse l'anziano parroco e pittore, davanti al ritratto abbozzato di una ragazza. Bionda, esile, diafana. Non più di sedici anni. Una strana coroncina di candele accese le cingeva il capo. L'immagine poteva rammentare quella convenzionale di santa Lucìa (più spesso, nella iconografia religiosa, costei era raffigurata con un altro particolare surreale: due occhi spalancati e poggiati su un piattino d'oro, che lei stessa regge con una piccola mano). L'ambientazione era notturna. Alle spalle della sconosciuta, era riconoscibile una via del borgo. Sullo sfondo, la piazza della chiesa e il castello rinascimentale.

Mi voltai verso un abbaino dell'angusta soffitta, adattata a studio. Guardai attraverso la finestrella. Era evidente che quella era la vista del quadro. Solo, che adesso era pieno giorno. Il sole a picco illuminava i luoghi e gli edifici tardo-medievali, senza ombre.

- Siete sicuro di averla vista proprio così? - domandai, sorridendo.

- Almeno, così ho creduto di vederla - rispose il mio interlocutore, sorridente a sua volta. Poi, riprese la storia che doveva stargli a cuore:

- Patì il martirio insieme a un piccolo gruppo dei primi cristiani di Ostia. Nei secoli successivi, se ne perse ogni traccia e documentazione, tranne la dedica della chiesa. Tanto, da far dubitare che la giovane fosse mai esistita.

Questo, fino a qualche anno fa. Nel corso di scavi nel vecchio cimitero attiguo, è venuta alla luce una lapide frammentaria. Sulla lastra ricomposta, ancora visibili una croce e una scritta in caratteri greci: Chryse. Non c'è voluto molto a capire che la defunta e Aurea dovevano essere la stessa persona. Infatti, il secondo nome è l'esatta traduzione latina del primo. Allora come oggi, in quello che era il porto di Roma, erano molti gli immigrati dall'oriente mediterraneo. La lingua più diffusa nell'area era, notoriamente, il greco. Ecco spiegato il motivo, per cui della santa si era smarrito il ricordo preciso. La chiesa del borgo posteriore ne aveva assunto il nome latino. Invece, le antiche cronache menzionavano una vergine Chryse, fra le vittime delle persecuzioni pagane.

* * *

- Nella sua umiltà, - era tornato sull'argomento il parroco-pittore, durante la cena frugale in comune - non nego che Aurea sia una santa minore. Ma solo perché poco nota. A differenza che per le consorelle più famose, le sue virtù e gli attributi specifici sono incerti. Si sa come gli stessi siano importanti, nella devozione popolare e nella pittura sacra. Sarà stato per la suggestione luminosa esercitata dal nome di lei. Fatto sta che, fra le prime vergini e martiri oggetto di culto, mi è sempre venuto spontaneo associarla a Lucìa. In effetti, la radice del nome della santa siciliana evoca la luce della rivelazione, della fede, della grazia divina...

Il sacerdote si interruppe, per bere un sorso residuo di vino rosso dal suo bicchiere. Interpretando il mio silenzio come sincero interesse, proseguì più infervorato di prima:

- Confesso, però, di essere stato tentato da un altro accostamento. Esso è suggerito piuttosto dall'anonimato e dal lungo oblìo, in cui la nostra Chryse è caduta o magari, chissà, si è eclissata, per ragioni a noi imperscrutabili. Per così dire all'opposto di Lucìa, sempre nella tradizione, si colloca la coetanea Cecilia. In questo caso, l'etimologìa del nome rimanda al significato originario del termine "caecus". Già per i latini pagani, quest'ultimo non alludeva soltanto alla cecità, quanto all'invisibilità del sacro. Ora, sia pure da laico, consentirai che invisibilità e svelamento sono due aspetti complementari del sacro. Anzi, sono tra loro inseparabili. Non solo per noi cristiani...

Da parte mia, sorvolai per cortesia su quel "noi cristiani", sotto cui mi riusciva difficile etichettarmi. Elusivamente, credo che commentai con un riferimento alle fasi lunari culminanti: come in natura esse presentassero una curiosa analogìa con gli ultimi concetti espressi dal mio commensale. I primi cristiani erano stati influenzati da precedenti simbologìe magico-astrologiche? Mi guardai bene dal porre un quesito del genere. Sebbene non proprio convincente, l'intero discorso non era comunque privo di una sua logica intrigante.

* * *

Nonostante le due finestre opposte aperte, nella soffitta della canonica faceva caldo. Senza contare il fastidio delle zanzare. E poi, nella pineta sottostante, il frastuono della festa patronale, che si protraeva fino a tardi. La ragione per cui io ero lì, era molto particolare: collaborare alla complessa fase preparatoria, dell'edizione annuale dei Convegni Cibernautici Internazionali. Stanco per il viaggio, adesso mi rigiravo sulla branda senza riuscire a prendere sonno.

Certo, il mio gentile ospite non aveva potuto offrirmi di meglio. Ma gli scoppi dei fuochi d'artificio, proprio sopra il tetto, colmarono la misura. Mi alzai nel buio, violato a tratti da bagliori colorati, e accesi una sigaretta. Mi avvicinai alla finestrella, che dava sulla pineta. Di sotto, le giostre di un Luna-park improvvisato giravano senza posa, con il loro caleidoscopio di lampadine, con una ridda di voci e di suoni amplificati da rauchi altoparlanti. Il bravo parroco non poteva che compiacersi della riuscita della sua festa.

Dal canto mio, egoisticamente, pregai il cielo nuvoloso e corrusco che si spalancasse, riversando su quella gazzarra un provvidenziale diluvio. Non avevo finito di pensarlo e di pentirmene, che, non senza infantile meraviglia e rimorso, fui esaudito. L'acquazzone estivo affogò in breve ogni animazione e ogni luce, in mezzo a un fuggi-fuggi generale. La violenza improvvisa del vento spense la mia sigaretta. Mi affrettai a chiudere le imposte alle finestre, facendomi largo a stento e inciampando fra tele e cavalletti.

I fulgori elettrici dei lampi si sostituirono a quelli dei fuochi di poco prima, evidenziando a più riprese, fra tutti, il dipinto che conoscevo ormai bene. Quello della misconosciuta Chryse: alias l'infelice Aurea, la cui vita era stata assurdamente stroncata tanto tempo addietro in quegli stessi luoghi. Non era del resto lei, che quella gente appena dispersa dalle intemperie si ostinava a celebrare distrattamente, dopo circa duemila anni di dimenticanza?

Chi era veramente quella ragazzina sprovveduta, probabilmente forestiera, per meritare quell'anacronistico riconoscimento? Che cosa aveva spinto il vecchio prete a darsi tanto da fare, per una così tardiva identificazione? La semplicità arcaica della fede, o l'ispirazione lungimirante dell'artista? Cercando una risposta, che non sapesse troppo di sacrestia, mi ricordai di un antico mito mediterraneo. Ne avevo letto di recente, in un libro di Carol Kerényi. Vi si trattava di Arianna, l'eroina del Labirinto.

Nella leggenda originaria, quest'ultimo sarebbe stato un dedalo sotterraneo, immagine speculare dell'aldilà. La semidea - detta in greco anche Aridele, la "ben visibile" - non soccorreva però l'eroe guidandolo con il filo di un gomitolo, come nella versione più nota e successiva. Bensì rischiarava il cammino oscuro con una corona luminosa, ovvero la imponeva sul capo di lui. Assai più tardi, i cristiani ne avrebbero attendibilmente recuperato e assorbito la figura in quella di Lucìa: protettrice della vista, e della visione.

* * *

Assillato da tali riflessioni oziose, mi ritrovai, intirizzito e in piedi, dietro la finestrella che affacciava all'interno del borgo. Dopo la sfuriata del primo rovescio, la pioggia cadeva fitta ma regolare, scrosciando sui tetti e sul selciato del vicolo deserto. Sopra la tozza torre merlata del castello, già le nubi cominciavano a diradarsi, mostrando a tratti la circonferenza luminosa della luna piena. Una musica indiana fluiva piano nelle mie orecchie, dagli auricolari della mia cuffia da walkman, con il volume dell'audio regolato al minimo. Un vecchio "raga" di Ravi Shankar, da lui eseguito e registrato vari anni prima sul palco del mitico festival di Woodstock.

Attraverso i vetri appannati, in quell'istante mi sembrò di scorgere tra la pioggia, nel gioco dei riflessi dei lampioni accesi, l'apparizione cui aveva accennato l'amico sacerdote. Lo spettro avanzava lentamente, senza toccare terra con i delicati piedi nudi, sporgenti dall'orlo della veste candida. Né l'acqua riusciva a spegnere il diadema luminoso, poggiato sui lunghi capelli biondi e asciutti. Giunta sotto la finestra, lei levò il viso verso l'alto, prima di sorridere debolmente e di svanire. Così come nel quadro incompiuto, i suoi occhi erano bianchi. La piccola dea della visione era, prevedibilmente, cieca.

Mentre stavo per addormentarmi, tranquillo infine e disteso, affiorarono dalla mia memoria questi pochi allusivi versi di un noto poeta moderno irlandese, William Butler Yeats:

Benché vedessi con l'occhio della mente,
nulla finché vivrò sarà per me più concreto:
tutto ciò io lo vidi al chiarore della luna
giunta ormai alla sua quindicesima notte.

Il giorno dopo, prima di ripartire, feci inoltre qualcosa di abbastanza strano, ma che risultò bene accetto all'autore del dipinto. Gli chiesi di donarmi uno schizzo di primo piano del ritratto, da riprodurre e da inserire nella memoria del mio computer portatile: un piccolo gioiello, all'epoca, della tecnica più avanzata.

Da quel momento in poi, ogni volta che lo accendevo - prima ancora che comparisse il quadro dei comandi - la presunta fisionomia di Aurea sarebbe tornata a sorridermi nel monitor, con la sua espressione incoraggiante e insieme inquietante. Né mancai perfino di escogitare un bizzarro appellativo, la cui eco familiare mi avrebbe accompagnato a lungo, nel corso delle mie "navigazioni" telematiche: Nostra Signora del computer.