Pino Blasone - ALICE CIBERNETICA - Romanzo


TRE

 

Ritengo di essere uno dei pochi a poter ricordare, di persona e nei particolari, un altro antecedente di questa strana storia. Il Primo Convegno Cibernautico Internazionale. Correggetemi se sbaglio, mi pare che fosse il lontano 1993. Eppure, sembra appena ieri. In quella occasione, gli americani presentarono uno dei primi software tridimensionali. Una ricostruzione virtuale della famosa abbazia medievale di Cluny - andata distrutta a seguito della Rivoluzione Francese -, sulla scorta delle numerose descrizioni d'epoca.

Rammento l'emozione di indossare, per la prima volta, l'apposito casco e di impugnare il joystick, quasi che avessi a che fare con un banale videogioco. Per quanto non strettamente necessari, guanti e tute sensoriali veramente efficaci sarebbero stati approntati e si sarebbero diffusi in seguito. Pochi allora - salvo, forse, alcuni narratori cyberpunk - avrebbero saputo prevedere fino in fondo gli sviluppi futuri.

Il massiccio portale si spalancò davanti ai miei occhi, mostrando la prospettiva dell'interno. L'effetto fu molto diverso da quello provato visionando la stessa sequenza di immagini, appiattite nello schermo di un computer. Questa volta, mi sentii inequivocabilmente dentro, interamente circondato dall'ambiente rappresentato. Almeno, tale il frutto della simulazione.

Manovrando il joystick con qualche incertezza, entrai vacillando e accusando un senso di vertigine. Acquistata sicurezza, potei ammirare con calma ogni particolare artistico accuratamente riprodotto: dall'architettura romanica alle sculture gotiche, dai dipinti barocchi alle vetrate istoriate delle finestre. Certo, oggi potrei rilevare che la luce era alquanto innaturale, che i colori risultavano troppo accesi; nell'insieme, un eccesso di arbitrio approssimativo. All'epoca, non ci feci caso. Le imperfezioni erano decisamente secondarie, rispetto al miracolo per i più inedito della "realtà artificiale".

Altro fu ciò che generò in me un vago senso di angoscia e, presto, il desiderio di tornare al mondo di tutti i giorni. Nonostante che il silenzio iniziale fosse riempito dal crescendo di una musica d'organo, e dall'armonia di sottofondo di un canto sacro, niente sembrava poter colmare il vuoto informatico delle ampie navate deserte. L'impossibilità palese di udire il suono dei miei passi finì per incutermi un sottile terrore. Una ingenuità, di cui per la verità nemmeno ora mi è facile sorridere.

* * *

Secondo il gergo dei "cibernauti" - analogìe suggestive con la navigazione sono state stabilite fin dagli esordi della telematica -, ci trovavamo ancora di fronte a uno spazio chiuso, oltre che circoscritto. Nelle versioni successive e perfezionate, l'accesso si sarebbe aperto a più utenti contemporaneamente: anche a distanza, tramite l'impiego di un semplice modem. In altri termini, un "ciberspazio" strutturato a tre dimensioni.

Gradualmente, esso andò assurgendo a nuova dimensione del reale, sia pure fittizia e precaria, almeno in un primo tempo riservata a pochi iniziati. E' non meno vero che esso divenne vulnerabile all'infiltrazione e all'aggressione di insidiosi "virus". Al riguardo, si rese necessario approntare più o meno efficaci sistemi di prevenzione e di difesa.

Visti dall'esterno, i luoghi del ciberspazio - spesso e volentieri, nella scia delle prime esperienze, siti archeologici restaurati - finirono per somigliare a munite cittadelle, collegate tra loro da una rete immateriale di sentieri informatici. Eccezionalmente, l'arcipelago - o, come sarebbe stato chiamato in seguito, la città - virtuale veniva attivato nel suo complesso. Ciò, di solito, avveniva appunto in occasione dei nostri convegni annuali.

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L'appuntamento di quell'anno era a Ostia Antica: una copia fedele dell'originale, restituita agli antichi fasti dalla solita équipe di esperti americani e giapponesi. Ulissidi navigatori del ciberspazio, "pirati del computer" a riposo e affini, erano confluiti - s'intende, virtualmente - da varie città e Paesi, per incontrarsi e conversare nelle vie, nelle terme, nel foro del vecchio porto romano. Faceva un effetto curioso vederli passeggiare sulla spiaggia di un mare da secoli non più esistente, o affollare le gradinate in marmo della cavea del teatro.

Insomma, una specie di festa, non priva di tentazioni celebrative e di spunti patetici o frivoli. Ma anche del fascino della nostalgìa, tipica dei pionieri e reduci da ogni impresa umana che si rispetti. Quanto all'entusiasmo e allo spirito ribelle di una volta, essi avevano cominciato già da tempo a diluirsi lungo il cammino, nel vasto e sfumato orizzonte dell'utopìa.

Ad esempio, si sarebbe potuto immaginare capelli ingrigiti, toraci asfittici e incarnati ingialliti alla luce scialba emanata dai monitor dei computer. Ebbene, niente di tutto ciò. Solo belle donne, invece, e giovani aitanti o giù di lì. Ovviamente, non erano altro che inconsistenti ologrammi, elaborati e animati dai rispettivi indossatori sulle tracce di foto-tessere personali di anni addietro; magari, con qualche ritocco migliorativo...

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Non diversamente dagli altri, prima della chiusura del convegno mi recai a salutare e a rendere omaggio al grande decano, al "profeta" del movimento. Lo trovai ai margini dell'abitato, fuori della Porta Marina, appartato e silenzioso fra i muri e le colonne dell'antica sinagoga (si dice che sia stata la prima in Occidente). Apparentemente, non più di quarant'anni. Il volto forzosamente impassibile e impenetrabile. Lo sguardo celato da un paio di lenti a specchio, simbolo di una generazione: proprio come usava in America, negli anni Ottanta del secolo ormai trascorso. Fra le mani semitrasparenti, il simulacro di un vecchia copia dell'Odissea di Omero.

A un tratto, poggiò il volume inconsistente su un sedile di pietra. Fece il gesto inatteso e surreale di afferrarmi la mano e di stringerla forte e a lungo, quasi per un addio. Se non occorre avvertire una stretta di mano dal vivo, allo stesso modo non c'è assoluto bisogno di espressioni del viso, per comunicare una emozione particolarmente intensa o per intuire una perplessità improvvisa. In determinati casi, basta il sesto senso conferito dall'abitudine.

- Il mio corpo, laggiù, è invecchiato e stanco, affetto da un male incurabile - spiegò lui, come per prevenire una mia prevedibile, indiscreta domanda - Anche per questo, ho deciso di non farvi più ritorno.

- Non tornare mai più? Ma come diavolo è possibile?!

Per un attimo, dubitai della lucidità di mente del mio interlocutore. La sua maschera spettrale accennò meccanicamente un sorriso. Come un prestigiatore, estrasse dalla larga manica un diagramma luminoso. Lo dispiegò e me lo mostrò. Per quel che me ne intendevo, si trattava dello schema labirintico di una interfaccia, di un tipo estremamente complesso.

Credetti allora di capire e di ricordare. Ne aveva infatti scritto lui stesso per primo, anni prima, su una rivista specializzata. Roba da fantascienza, almeno per quei tempi. Una interfaccia cervello-computer. Per mezzo di essa, sarebbe stato nientemeno possibile riversare integralmente la personalità di un essere umano nel software, e sopravvivere così nel ciberspazio. Presumibilmente per sempre, anche se in una esistenza "a scartamento ridotto".

* * *

- Del resto, qualcuno doveva pur compiere questo passo, prima o poi - bisbigliò il maestro con una strana vibrazione metallica nella voce, mentre usciva sulla riva, rivolto verso il mare perennemente calmo, scintillante e azzurro. Incredibilmente simile al mitico e arcaico Ulisse, trattenuto sull'isola della bella ninfa Calipso - lui, invano - con la promessa e la lusinga dell'immortalità.

Il ciberspazio - pensai io, sforzandomi di superare lo sconcerto iniziale - è fatto evidentemente così. Ormai, in confronto alla realtà "vera", non vi manca quasi nulla. Eccetto, magari, il suono dei propri passi o il fragore delle tempeste. Anzi, volendo, pure questi ultimi si riuscirebbe a fingere in maniera attendibile. Assai più difficilmente, il sapore acre delle lacrime.

Né, davvero, gli ologrammi sono generalmente programmati per piangere. Così come accadde nella leggenda a Ulisse, per la nostalgìa della sua terra, sulla spiaggia dell'isola dove era confinato. O, piuttosto - non si può mai sapere -, nel mondo incantato e insidioso della maga Circe. Quale più ancestrale antesignana della realtà virtuale, che questa fata Morgana dell'immaginario mediterraneo? A ben vedere, il nostro cibernauta rievoca però un altro Ulisse. Quello anziano e inquieto dell'"Inferno" dantesco. Lo stesso che incitava i suoi compagni di sventura a "seguire virtude e conoscenza", nell'oceano illimitato dell'ignoto.