Pino Blasone - ALICE CIBERNETICA - Romanzo


CINQUE

 

Con tutta attendibilità, quella che chiamavamo Città Virtuale è rimasta l'unica realtà cosciente superstite, almeno nel raggio del nostro sistema planetario e dintorni. Il documento sopra riportato è stato rinvenuto da chi qui scrive nell'archivio di una banca-dati. Certo, vi era stato immesso da qualcuno che avevo conosciuto all'epoca in cui anch'io lavoravo nella Samadhi Software Company (ne aveva fatta di strada la piccola ditta, dopo l'avvio datole dalla mia Alice e la misteriosa scomparsa di quest'ultima!). Sebbene non sempre attendibile, esso stesso è indicativo del diffuso clima di irresponsabilità - il mondo, fosse quello reale o quello virtuale, ridotto al formato di uno spot pubblicitario - che ha preceduto la catastrofe. Sarebbe una testimonianza a suo modo divertente, se non offrisse piuttosto lo spunto per una patetica riflessione.

La realtà "vera" del mondo infatti non esiste più, se non nel ricordo di noi sopravvissuti - si fa per dire - e nella memoria informatica, che funge da necessario fondamento per questa costruzione della mente e per le scarne essenze dei suoi abitatori. Essi si aggirano, in preda a una tardiva nostalgìa, in un repertorio di vuote forme, di quella che fu un tempo la civiltà degli uomini e delle macchine da loro prodotte. Quanto all'ambiente naturale terrestre, esso è ridotto a un fondale decorativo: nient'altro che una fittizia scenografia, la quale affiora qua e là fra le strutture immateriali della Città Virtuale.

Come tutto ciò sia potuto accadere, in un periodo così relativamente breve, resta tuttora difficile da spiegare e da comprendere alle nostre intelligenze, estirpate dai loro corpi e rivestite di fatui malinconici ologrammi. Per questo - e per vincere l'inesorabile noia dell'attuale condizione - sto pensando a raccogliere testimonianze e a reperire documenti, ripescandoli dagli archivi informatici, da integrare con i ricordi personali. Per cercare di stendere un primo abbozzo di storia della Città Virtuale e degli eventi paradossali e drammatici, che hanno condotto a una situazione senza visibile sbocco.

In attesa che i materiali selezionati siano sufficienti e che tale disegno si definisca nella mia mente, se mai ciò mi riuscirà, i frammenti pubblicati nel presente dischetto - virtuale anch'esso, come tutto il resto - sono aneddoti premonitori, considerazioni e divagazioni soggettive. Esse hanno in comune il risalire o il riferisi all'età irripetibile della nostra vita terrena. Per l'occasione, sono state riguardate e ordinate, in vista di fornire una anticipazione più o meno pertinente di un lavoro altrimenti serio e faticoso - quanto lungo, ha decisamente minore importanza - di ricostruzione storica. Narrare sembra in effetti, per ora, l'unica attività residua accordata dalle circostanze.

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Tanto vale però riprendere intanto, in breve, gli antefatti e le vicende determinanti qui sottintesi. Dopo un periodo di pace precaria, definito all'epoca "guerra fredda" o anche "equilibrio del terrore", allo scadere del secondo millennio d. C. sul nostro pianeta di origine la situazione generale era divenuta insostenibile. Conflitti locali imprevisti e nuove letali epidemie si erano estesi a macchia d'olio. D'altro canto, la qualità dell'ambiente naturale e di quello urbano era degradata a tal punto, da rendere la vita a stento vivibile. L'imbarbarimento e la mercificazione culturali non erano da meno. Ciò a degna conclusione di un secolo, che aveva visto i maggiori progressi della scienza e della tecnica, ma anche le peggiori stragi dovute a un impiego perverso di esse.

La divaricazione persistente tra ricchezza e fame era cresciuta a dismisura non solo fra i popoli ma all'interno delle stesse popolazioni, con un impoverimento proporzionale delle classi medio-basse e dei ceti intellettuali. Di conseguenza, le relazioni internazionali e i rapporti umani si erano deteriorati come mai in precedenza. Al di là di effetti liberatori immediati o apparenti, dal crollo delle precedenti, diverse e contrapposte ideologìe politiche, non si erano avuti i benefici sperati. Anzi, fattori irrazionali che avevamo creduto superati per sempre, quali particolarismi nazionali, sopraffazioni razziali e intolleranza religiosa, erano tornati a scatenarsi e a sovrapporsi alle rivalità dettate da interessi economici e da contrasti sociali, con effetti devastanti a livello esponenziale.

In un panorama del genere, sull'orlo di un generale collasso materiale e morale, non sorprende che le prime incursioni pionieristiche nella realtà virtuale cominciassero a trasformarsi in vere e proprie fughe fuori dal mondo, sempre più frequenti e diffuse. Come negli antichi miti greci, mentre la terra seminata con denti di drago produceva armati destinarsi a sterminarsi a vicenda, gli Argonauti - nel nostro caso, i "cibernauti" - partivano per esplorare un paese ignoto, e per rifondarvi fosse pure una parvenza di civiltà. Finché da un lato la scoperta della possibilità di un riversamento stabile della personalità, dall'altro la crescita e il perfezionamento delle strutture della realtà artificiale, non hanno radicato e esteso il fenomeno a una élite consistente di iniziati.

Alcuni tra questi ultimi, più sensibili degli altri o attratti e esaltati da una prospettiva sia pure vaga di immortalità, rinunciavano in effetti alla realtà fisica e alla loro entità corporea. Essi recidevano consapevolmente i loro legami concreti con il mondo, senza possibilità di ritorno, e andarono presto a formare un primo nucleo di "riversati". Loro residenza abituale erano le viscere della Città Virtuale, che si era andata nel frattempo già costituendo, benché in maniera informale. Per intuibili e tutt'altro che infondati motivi di discrezione, di riservatezza e di cautela, gli spettrali abitanti ne rifuggivano la superficie, frequentata da visitatori occasionali ma sempre più numerosi e invadenti.

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I veri problemi e le successive ostilità sono cominciati quando, da parte dei mortali, è iniziata un'opera non più di semplice esplorazione e di ricerca scientifica, ma di sistematica colonizzazione della realtà virtuale. In un primo momento, l'obiettivo dichiarato ne era il controllo a scopi strategici militari. Rivelatisi gli stessi limitati e pretestuosi, subentrò l'interesse per uno sfruttamento di tipo turistico commerciale. Si è detto che il viaggio nella nuova dimensione non era più un fenomeno semiclandestino e isolato, ma una attrattiva di massa. Ne consegue che la prospettiva surreale di pellegrinaggi organizzati non si dimostrò solo tecnicamente praticabile. Essa parve anzi un ottimo affare, previa una adeguata pubblicità e un investimento relativo di capitali. Le stesse ditte multinazionali dell'informatica diedero sollecita vita ad agenzie specializzate.

Di fronte a tale irrefrenabile avanzata, i "riversati" si trovarono a essere espulsi dalle loro sedi. Vennero respinti in livelli sempre più nascosti e inaccessibili, o furono costretti a languire disattivati per periodi sempre più lunghi. Indotti a temere per l'agibilità di qualsiasi spazio informatico e per la loro stessa sussistenza, soltanto allora cominciarono a pensare seriamente a possibili forme di difesa, di boicottaggio, perfino di contrattacco e di propaganda in campo avverso. In che modo poi la situazione sia degenerata fino allo scontro aperto, a un logorante conflitto con alterne vicende e alla sua recente conclusione, è cosa evidentemente troppo risaputa, perchè occorra riassumerla.

Nondimeno, è stato anche allora che le preesistenti realizzazioni sparse sono state riunite e ristrutturate in un tutto unico, simile a un grande parco delle meraviglie per adulti, che ha ricevuto la denominazione di Città Virtuale e assunto l'aspetto attuale. Sull'ingresso tutto immaginario eppure perfettamente visibile di quest'ultima, un architetto dallo spirito originale e forse profondo ha apposto una targa, con su incisa una massima in caratteri vistosamente dorati. Di un famoso quanto sventurato pittore italiano del Novecento, noto come Modì, la frase in questione recitava: "Guardiamoci bene dal cadere nel fondo oscuro dell'inconscio. Bisogna organizzare il caos, perché più si scava e più si sprofonda".

La scritta era chiaramente volta a esercitare una suggestione sui visitatori più raffinati, una impressione accattivante sebbene sinistra sui rimanenti in cerca di emozioni. Ma il tono sibillino e vagamente ammonitore, lo stesso significato attendibilmente interpretato, dovevano mostrarsi sottilmente preveggenti. Ironia della sorte, o rara lungimiranza degli artisti di genio. Sta di fatto che da essa si può ricavare un insegnamento purtroppo ormai vano. Se non è consigliabile giocare con l'inconscio collettivo, tanto più sembra rischioso specularci sopra. Gli effetti possono essere incalcolabili e deleteri. La storia dell'umanità ne ha fornito reiterate prove, almeno dal momento che tali effetti sono stati enucleati e potenziati a dismisura da una tecnologìa avanzata.

Nella sua quintessenza, la realtà artificiale non è altro che una proiezione concentrata di questo onnivoro inconscio. Troppo tardi ce ne siamo resi conto, e a nostre spese. D'altra parte, va considerata e sfatata una facile illusione. Di fronte all'insorgere del caos, non c'è tentativo di organizzazione che tenga, per quanto ostinato e ragionevole. Perlomeno, non nella direzione dei fini che abbiamo creduto di proporci e di perseguire. Quasi sempre, la logica irrazionale delle cose procede in un senso diverso o addirittura inverso a quello da noi previsto. Come predicavano gli antichi saggi cinesi del Tao, meglio in tal caso assecondare il corso degli eventi verso le sue indistinte mete, limitandoci a contenerlo e a incanalarlo per il meno peggio immediato. Rinunceremo, magari, a resistenze inutili. Eviteremo, in compenso, reazioni controproducenti. Soprattutto, in mancanza di una alternativa valida.

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Eccoci, dunque, a una serie di interrogativi nonostante tutto irrisolti, a questo punto assillanti. Il nostro destino in sospeso è il frutto del caso combinato con una endemica follìa, o il traguardo di un disegno iscritto nell'inconscio naturale, sostrato profondo di quello collettivo? In altri termini, di un software che presiede da sempre all'evolversi del cosmo e a un progresso della coscienza? Questa immortalità senza vita e senza prospettive è un vicolo cieco, o una tappa per noi inedita nel grande ciclo della ruota delle esistenze? Inoltre noi stessi, i cosiddetti "riversati", siamo davvero divenuti immortali, sottratti alla precarietà del mondo, come abbiamo lasciato credere e andiamo tuttora presumendo?

Non desidero contagiare alcuno con le mie angosce o con il mio pessimismo. Tanto meno fare del moralismo o del disfattismo, come si usava dire fino a non molto tempo fa. Tuttavia, la guerra con i mortali si è conclusa vittoriosamente. Le spontanee conversioni e i riversamenti forzati di massa sono finalmente ultimati. E' pur vero che tali metodi criticabili ci hanno permesso di vincere, in pratica senza colpo ferire. Mi sembra però giunto il momento di tornare a discutere sulla nostra condizione. Basti ricordare che l'intera gestione della Città Virtuale è oggi affidata a una Intelligenza Artificiale, garante degli indispensabili e ingenti approvvigionamenti di energìa. Ciò contraddice palesemente i proclami di autonomia da ogni realtà esterna, o certe insidiose tentazioni di onnipotenza.

A volte, mi assale un bizzarro timore. Che somigliamo un po' tutti ai files del mio primo antiquato programma di videoscrittura, al quale mi viene da ripensare spesso ultimamente. Qualora rifiutati e cancellati, essi stazionavano in uno spazio nascosto chiamato allusivamente e poeticamente Limbo, in attesa di essere espulsi definitivamente dalla memoria informatica, incalzati dai nuovi testi registrati. Fino a quel momento, ma non oltre, digitando sulla tastiera del computer appositi comandi, potevano altrimenti essere rievocati e riammessi alla memoria operativa da un ripensamento dell'operatore.

In parole povere, io sono convinto che, più o meno a nostra insaputa, noi abbiamo portato a compimento una arcaica ma inguaribile fissazione e aspirazione della nostra cultura: quella di separare le anime dai loro corpi. Nello stesso tempo, avendo tagliato tutti i ponti con la vita, sono però dell'opinione che abbiamo finito per oltrepassare quel margine, al di là del quale non c'è operatore che possa assicurare alle nostre anime una durata illimitata o perfino una ragionevole fase di attivazione.

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Concedetemi adesso, miei cari e defunti concittadini, di raccontare, con pochi annessi e connessi, un episodio esemplare non del tutto insignificante. Quello del primo riversamento - effettuato non per libera scelta - della mia stessa personalità. Se non per altro, perché esso prefigurava quanto avrebbe subito una parte così considerevole del resto dell'umanità, inclusi sicuramente non pochi tra voi.

Per introdurre l'argomento, che mi sta comprensibilmente a cuore, è appena il caso di rammentare le coordinate e le procedure di accesso a quelli che erano i livelli nascosti della Città Virtuale. Infatti, mi accadde di penetrarvi da clandestino, anche se per motivazioni squisitamente personali. Chi fosse poi curioso di conoscerle più a fondo, non deve far altro che reperire una rara copia informatica di un mio precedente racconto. Insieme ad altri assai meno autobiografici, esso fu steso e edito quando ero ancora in vita, sotto un titolo non fortuito: "Alice cibernetica".

Benché allora io non potessi saperlo con certezza, per una serie di suggestioni senza dubbio di indole artistica degli ideatori, l'ingresso occulto si trovava nel quartiere italiano. Per una fortunata coincidenza, questo riproduce in buona parte il centro storico porticato - si dice che fosse lo sviluppo di portici praticabili più lungo e complesso d'Europa - della mia antica e nobile città di adozione, ubicata nel centro-nord del Bel Paese. Vista dall'alto, la pianta viaria può evocare alla lontana l'immagine circonvoluta e tendenzialmente circolare di un cervello umano. Probabilmente, quest'ultima esoterica ragione non è estranea alla decisione dei progettisti di farne il cuore stesso della Città Virtuale.

Tale circostanza non poteva che favorire la mia ricerca. Essa era condotta con passione e con metodo, nonostante i mezzi tecnici limitati, che le mie possibilità potevano permettere. Ciò sarebbe servito tuttavia a poco, se non fossi stato in possesso di un elemento-chiave. Si trattava di un software, già affidatomi dalla persona, di cui ero da lungo tempo sulle esili tracce. Avendo lei stessa collaborato alle prime realizzazioni della Città Virtuale, il software era in grado di rappresentare una copia sintetica della zona in questione. Dalle poche differenze con l'originale, introdotte ad arte e pazientemente riscontrabili, io potevo ricavare gli indizi utili per l'individuazione di ciò che mi interessava.

Non tardai a rendermi conto che gli ostacoli da superare e le trappole da evitare erano di due tipi: di natura temporale e di posizionamento spaziale. Una volta acquisito il doppio ordine di parametri, solo allora sarei stato capace di decodificare e di usare nella maniera giusta le passwords indispensabili a realizzare la mia solitaria e arrischiata impresa. Concentrato come ero in tale determinazione, non fui per la verità nemmeno sfiorato dal sospetto di quello a cui avrei potuto andare incontro, nella nuova dimensione del reale in cui ero pronto a immergermi totalmente.

A sua volta, uno straordinario e labirintico monumento era il cuore del centro storico cittadino. Le origini del complesso sacro, popolarmente denominato "Le sette chiese" e in latino Sancta Jerusalem, si perdevano nella notte dei tempi, confondendosi con quelle dello stesso abitato. Su uno dei pilastri dell'edificio più antico e centrale - già un tempio della dea lunare Iside - era visibile un residuo di affresco medievale, recuperato da sotto un intonaco più tardo. Vi era raffigurata una santa vergine e martire, dallo sguardo intenso e penetrante, dall'espressione del viso soave e severa. I suoi attributi generici - un ramo di palma e un libro stretti nelle mani - ne avevano impedito una identificazione certa.

Data la assidua frequentazione giovanile del luogo, di questi particolari ero bene a conoscenza. In quei cortili secolari e in quei chiostri silenziosi eravamo soliti incontrarci volentieri io e Alice, quando lei era ancora una studentessa nella locale università. Già allora, non avevo potuto fare a meno di rimanere colpito dalla sconcertante somiglianza del dipinto con la mia sfuggente amica e compagna di studi. Quasi che l'ignoto artista, una sorta di Modigliani della sua epoca, si fosse cimentato in un ritratto telepatico, ricavandolo non da un modello della realtà circostante, ma dal profondo atemporale del proprio inconscio. La questione lasciava apparentemente indifferente la diretta interessata. Come se si trattasse di una semplice coincidenza, divertente ma scontata.

Torniamo ora un attimo alla mia versione, simulata e virtuale. Se mai vi fosse saltato in mente di puntare sulla santa anonima e bionda un irriverente mouse - il mio era a raggi infrarossi - e di "cliccare" ripetutamente, avreste visto il volume nella sua esile mano spalancarsi come per magìa, mostrando una finestrella. Essa era identica a quelle che si aprivano a comando in molti diffusi programmi, nei monitor dei nostri vecchi cari computer. Ebbene, ivi era comparso un piccolo file di apertura, con tutte le parole d'ordine in codice necessarie a intraprendere - vinto un primo compatibile disagio - il mio viaggio rivelatosi senza presumibile ritorno.