Pino Blasone - ALICE CIBERNETICA - Romanzo


SEI

 

Una volta sormontato il primo ostacolo - una variazione temporale indotta -, ciò che è apparso davanti ai miei occhi era inequivocabile. Una mappa topografica della nostra stessa città. Il codice di accesso principale doveva avere a che fare con essa. Come non averci pensato prima? Non di rado, accade che le soluzioni più semplici siano le più difficili da individuare. Era notte fonda, quando giunsi a digitare sulla tastiera del mio personal, non senza emozione, i nomi di alcune vie e piazze a me ben note nella vita di tutti i giorni. Il percorso era chiaramente suggerito da una sequenza alfanumerica, presente nelle istruzioni di avvio del software affidatomi a suo tempo da Alice. Fino ad allora, ne avevo sempre ignorato la funzione, per quante volte me la fossi chiesta e ne avessi indagato il senso. Sino a disperare di trovarlo, o perfino a dubitare che esistesse.

Al termine del percorso virtuale, nel visore del monitor, un programma multimediale a tre dimensioni si dispiegò in immagini a colori e ad alta definizione. Una certa esperienza acquisita nel settore ed esplicite indicazioni, apparse nella schermata, avvertivano di continuarne la fruizione con la strumentazione adatta. Per la verità, attraversai un momento di esitazione e di perplessità, prima di indossare l'apposito casco e di collegarlo, senza adottare eventuali e possibili precauzioni. Quasi un presentimento negativo. Ma poi, come logico e prevedibile, prevalse in me la curiosità. Soprattutto, si impose l'esigenza irrinunciabile di andare ormai in fondo alla mia ricerca. Costasse quello che costasse.

Mi trovai così ribaltato, all'istante, all'interno del programma. L'immagine grafica, che avevo scorto rappresentata e appiattita nello schermo, mi circondava adesso con tutta la sua profondità. La qualità e l'accuratezza della finzione era tale, da generare la piena illusione della realtà. Davanti a me, in una strada senza uscita, un portone monumentale in stile barocco, sormontato da un gruppo scultoreo aggettante. Secondo una iconografia religiosa convenzionale, vi erano raffigurati non so quali santi dalle espressioni estatiche. Due angeli laterali marmorei davano fiato a due lunghe trombe del Giudizio, dirette verso l'alto inattingibile dei cieli. Dalle trombe metalliche convergenti pendeva un nastro di pietra, con una iscrizione in latino: PORTAE INFERI NON PRAEVALEBUNT. Non era la prima volta che vedevo quell'ingresso, almeno nell'originale. Contrariamente ad ora, però, lo ricordavo perennemente chiuso. Né credo di aver mai notato in precedenza la scritta e di averne meditato il significato: "Le porte dell'Inferno non prevarranno". Come augurio, alquanto scontato, eppure dal suono sibillino e macabro.

Entrai e mi guardai lentamente intorno. L'ambiente era un cortile porticato, in stile qui rinascimentale, illuminato da una luce tremula e gialla. Mi resi conto che essa proveniva da lucerne accese, fissate a una certa altezza e disposte a intervalli regolari fra un arco e l'altro. Al di sopra, ben più in alto, era abilmente riprodotto un riquadro di cielo notturno stellato. Nel mezzo, una schiera di sedie allineate in maniera irregolare era rivolta verso il lato di fronte a quello dell'ingresso. In uno dei due angoli di fondo, c'era una pedana di legno, con altre sedie vuote e strumenti musicali abbandonati. Come se concertisti e pubblico - perché di uno luogo adibito a concerti doveva trattarsi - si fossero allontanati temporaneamente, per una pausa tra l'esecuzione di un pezzo e l'altro. E, tuttavia, una musica sommessa continuava ad aleggiare nello spazio circoscritto, quasi che provenisse da diffusori acustici nascosti.

Nell'angolo opposto, un piccolo chiosco provvisorio aveva tutto l'aspetto di una bouvette. Appoggiata con le braccia al bancone, unica presenza la figura di una giovane donna di spalle: dai lunghi capelli biondi e con un vestito bianco, da mezza sera. Sul ripiano davanti a lei, alcuni bicchieri semipieni o vuoti, e delle bottiglie piene a loro volta di liquidi colorati e cangianti. Trasalii leggermente. Anzi, fui lì lì per togliermi il casco o per sconnetterlo, interrompendo così l'esecuzione del programma. Infatti, mi ero voltato istintivamente indietro. Con la coda dell'occhio, mi ero accorto che, oltre il portone dai battenti spalancati, la visione della città era improvvisamente scomparsa. Al suo posto, si era creato un abbagliante vuoto informatico.

Allarmato e incuriosito nello stesso tempo, manovrai ansiosamente con il piccolo joystick, che tenevo ben stretto nella mia mano. Non ottenni altro risultato, se non quello di veder comparire una freccia lampeggiante e azzura, sospesa proprio al centro del campo tridimensionale. In maniera inequivocabilmente programmata e indipendente dalla mia volontà, essa puntò senza esitazioni sul chiosco della mescita. La musica sinfonica andò a sfumare, fino a spegnersi nel silenzio. Vibrando leggermente, il segnalatore si diresse verso la sottile sagoma femminile di spalle, flessuosa ed elegante, attivandola.

* * *

Ciò che avevo già intuito, tanto desiderato, in un certo senso e misura temuto, si avverò. L'immagine familiare si girò con calma su se stessa, come se qualcuno o qualcosa le avesse sfiorato un braccio. La mano curata reggeva un bicchiere alto e stretto, contenente un denso liquido verde. A un tratto, quella realtà circostante simulata e artefatta, dalle forme instabili e dai colori esasperati, riacquistò nella mia immaginazione tutte le sensazioni, i sapori e gli odori di cui era irrimediabilmente priva. Sollevando il capo, i capelli di lei si erano divaricati, mostrando il viso con un sorriso appena accennato sulle labbra. I suoi occhi e il suo sguardo brillarono di una luce incredibilmente viva.

Subito riconobbi la fisionomia per me inconfondibile di Alice, quale l'avevo conosciuta e amata. Il mio primo comprensibile impulso fu di abbracciarla e di baciarla. A stento mi trattenni, ben sapendo che non sarei riuscito a stringere nient'altro che un'ombra seducente e vana. O, forse, ero davvero in presenza di qualcosa di più che un semplice ologramma? Mi ricordai delle ricerche di Alice nel campo dell'informatica e delle sue presunte manìe, primi sintomi o origine della follìa che l'aveva colpita. E se non si fosse trattato di vera e propria pazzìa, come tutti - in fondo, me incluso - avevamo ritenuto? In che sorta mai di software affondava radici lo spettro che avevo davanti, e ne veniva generato? Era possibile credere che in esso fosse riversata una parte sia pure minima della personalità di lei: della mia vecchia, cara Alice? O, ancora, tutto questo era soltanto un trucco di pessimo gusto; io stesso mi trovavo a essere vittima di allucinazioni sensoriali indotte.

La copia fedele di Alice continuava a fissarmi con un sorriso enigmatico. Dalla sua espressione, mi parve che ella fosse realmente in grado di leggere o di indovinare le perplessità e i dubbi, che attraversavano velocemente la mia mente. Fatto sta che le sue labbra infine si mossero, con mia rinnovata meraviglia. Quella che ne uscì era sì una voce sintetizzata; eppure, quelli che la componevano erano indubbiamente i suoni originali della voce di lei. Le frasi del discorso si articolavano con una certa lentezza, ma senza impaccio. Le stesse espressioni, che adesso variavano e si succedevano sul suo volto, componevano una sequenza vagamente innaturale. Insomma, era un po' come se Alice parlasse all'interno di un monitor. O, anche, come se le sue parole passassero attraverso i canali audio di uno stereo.

Intanto, la musica di sottofondo riprese a farsi udire. Non si trattava questa volta di musica classica, bensì di un vecchio disco di leggera degli anni Settanta, che io e Alice conoscevamo bene e avevamo ascoltato spesso insieme, nei momenti più felici e intensi della nostra relazione. Lo riconobbi fin dalle prime note. Era "The dark side of the moon", del complesso inglese dei Pink Floyd. Tutto ciò avrebbe potuto in effetti apparire calcolato apposta per evocare una particolare atmosfera, e per suscitare emozioni difficili da controllare. Ma io ero ormai troppo affascinato dalla vista e dalla voce di Alice, dalla sua presenza fosse pure illusoria, per potermi porre un problema del genere. Mi sarebbe bastato semplicemente guardarla e ascoltarla, senza nemmeno riuscire a capire il senso di quello che avesse detto. Giusto da provarne un intimo piacere, e per lenire in tal modo la nostalgìa di lei, che mi portavo dentro da molto, da troppo tempo.

Solo allora mi resi conto che era proprio così. Io non comprendevo affatto le sue parole, benché ne percepissi il suono. Era come se lei parlasse un'altra lingua, a me sconosciuta. Qualcosa non doveva funzionare bene nel sistema di trasmissione. Oppure si trattava, più banalmente, di una registrazione difettosa. Provai di nuovo a manovrare con il joystick, che continuavo a stringere in una mano. La freccia luminosa e azzurra, che nel frattempo era scomparsa, ricomparve sospesa a mezz'aria. Tornata docile ai miei comandi, essa puntò sulle labbra in movimento di Alice. Premetti più volte il pulsante centrale: quasi che avessi voluto eseguire un programma monitorato nello schermo del mio computer, senza perdere tempo a digitare sulla tastiera. Alice, dal canto suo, si interruppe per un attimo, come se avesse capito l'inconveniente e avesse intuito lucidamente quanto stava accadendo.

Quando il suo discorso riprese, potei comprenderne senza ulteriori difficoltà il significato.

- Puoi intendermi chiaramente, ora? - chiese lei, con una sollecitudine che suonò abbastanza strana, date le circostanze tanto particolari. Non potei trattenere da parte mia un sorriso, mentre rispondevo con un cenno affermativo.

- Mi fa piacere rivederti qui, e saperti a tuo agio. Ti aspettavo da tempo. Non ho mai avuto dubbi che prima o poi ce l'avresti fatta, a trovare la chiave d'accesso. Benvenuto, nel cuore del ciberspazio. Vedrai che ti troverai bene, in questa dimensione segreta. All'inizio, non nego che può essere noioso. Ma, presto, ci si fa l'abitudine. Soprattutto, non manca quasi niente, contrariamente a quanto si può immaginare. Basta avere la fantasia e l'abilità di programmarlo. E, a noi, non difettano né l'una né l'altra.

- Tuttavia, - proseguì Alice, dopo una nuova interruzione, come per prevenire mie intuibili domande - programmatori esperti e capaci ci sono sempre utili. Quanto all'energìa e alla memoria necessarie, quelle ce le procuriamo in giro, collegandoci a qualche rete telematica attivata nel mondo esterno: "succhiandole" un po' qua e un po' là. Il tutto, coordinato ovviamente da una Intelligenza Artificiale. Non credo che, in questo, ci sia niente di male...

* * *

Se Alice avesse potuto vedere le espressioni del mio viso, cosa con probabilità da escludere, avrebbe potuto leggervi non solo una comprensibile sorpresa, ma una contrarietà e uno sconcerto angosciosi. Non era davvero quella l'accoglienza che mi aspettavo, dopo averla cercata così a lungo e averla rintracciata dopo tanti sforzi.

Più che insensato, il discorso che lei andava facendo - prima di ogni altro, che ci si potesse attendere fra due amanti, i quali si ritrovino dopo non essersi incontrati per molto tempo - mi sembrò ancora il frutto di un delirio morboso. Il tono freddo e distaccato poteva poi essere indice di un oscuro condizionamento, neppure esente da eventuali rischi per la mia persona. A che cosa alludeva innanzitutto Alice, con quell'uso reiterato e ambiguo del pronome di prima persona plurale? Prima che potesse seguitare, approfittai di una breve pausa per interromperla e per chiedere chiarimenti, ovvero per sfatare a mia volta possibili equivoci.

Per tutta risposta, lei tacque e finì di bere il liquido che aveva sorseggiato fino a quel punto dal suo bicchiere. Era palese - pensai ora, con diffidenza - come anche questa operazione apparentemente superflua non potesse che essere fittizia o diversiva. Essa serviva, al limite, a simulare un atteggiamento spontaneo e a mascherare un certo nervosismo o impaccio. Inaspettatamente, poggiato il bicchiere sul ripiano del bancone, Alice aprì e distese una mano, che fino ad allora aveva tenuto inspiegabilmente chiusa a pugno. Vi comparve la miniatura di un telecomando. Con la puntadell'indice dell'altra mano, premette una combinazione di tasti. La parete di fondo, oltre la sequenza di archi del cortile in cui ci trovavamo, scomparve all'istante. Essa fu rimpiazzata da una ampia superficie trasparente, attraverso la quale era visibile un giardino, coltivato e ordinato "all'italiana".

Alice mi fece cenno di accostarmi e di seguirla. Ci affacciammo insieme agli archi del cortile. La prossimità del suo simulacro non poté fare a meno di evocare, in me, quella desiderata e rimpianta del suo corpo. Lei tornò a spalancare la mano e agì sui comandi di un minuscolo mouse, evidentemente integrato nella piccola tastiera. La solita freccia segnaletica si riaccese, questa volta dentro o al di là dello schermo che avevamo davanti. Essa si spinse in avanti e in profondità, percorrendo vialetti alberati e affiancati da statue neoclassiche, mentre le immagini dell'intero giardino scorrevano velocemente innanzi ai nostri occhi, come in un complesso e sofisticato video-gioco.

Infine, il puntatore si arrestò in un vasto spazio aperto, illuminato a giorno. Era un bel parco degradante all'inglese, verde di prato e di acque incanalate, sotto un cielo incredibilmente azzurro. In mezzo all'erba di quella specie di Campi Elisi, una comitiva di uomini e di donne dall'aria distinta passeggiava in gruppi, conversando amabilmente, benché nessuna eco delle loro voci giungesse sino a noi. Dal fatto che nessuno di loro desse segno di accorgersi della nostra presenza, dedussi che essi probabilmente, al contrario di noi, non potevano scorgerci: protetti, come eravamo, dal grande schermo virtuale.

Rivolsi allora ad Alice uno sguardo disorientato e interrogativo. Dal canto suo, lei tornò a sorridere, in maniera rassicurante o, almeno, accattivante.

- Chi sono, o chi rappresentano, tutti quei fantasmi? - le domandai esplicitamente, in maniera involontariamente ironica.

- Non sono affatto dei fantasmi - protestò lei, leggermente risentita, ma confermando in sostanza l'ipotesi da me azzardata - Sono gli ologrammi di altri "riversati". Essi sono persone a tutti gli effetti, anche se i loro corpi sono defunti. Intendo che le loro immagini sono collegate e emanate dal software contenente le loro personalità: quali queste ultime sono state registrate all'atto, o nell'imminenza, della loro dipartita dalla vostra dimensione.

- Vuoi dire dal nostro mondo, e che essi sono praticamente morti, ma continuano a vivere "a regime ridotto"? E' questo che vuoi farmi credere?

Di fronte alla mia reazione un po' brusca, l'espressione di Alice divenne estremamente seria, quasi severa.

- Al contrario. Voglio dirti che hanno raggiunto una sorta di immortalità, dal momento che le loro "anime" continuano a vivere e a operare, per quanto possibile, in questa dimensione. E non è certo poco. Pensavi, forse, che fossi stata l'unica a essere riuscita ad attraversare lo specchio dello schermo di un computer, in maniera definitiva? Come puoi vedere, non é esattamente così. Semplicemente, esistono intuibili motivi di sicurezza e di riservatezza, che vietano per ora - e, attendibilmente, a lungo - che la cosa diventi di dominio pubblico...

Istintivamente e irrazionalmente, cercai di afferrare le sue mani e di stringerle fra le mie. Dovetti subito arrendermi di fronte alla loro inconsistenza. Il mio gesto dovette però interferire, in qualche modo e per caso, con il funzionamento del telecomando che avevo scorto raffigurato in una mano di lei. Il grande schermo-finestra ora alle nostre spalle si oscurò, con tutto ciò di straordinario che vi avevo intravisto. Io e Alice tornammo ad essere soli, a tu per tu, tagliati fuori dallo spettacolo di attori così eccezionali. Ma, soprattutto, lontani da presenze imbarazzanti e indiscrete, sebbene quasi sicuramente ignare dei nostri discorsi.

* * *

- Alice, - esordii a bassa voce, sforzandomi di essere il più possibile persuasivo, diplomatico e sincero allo stesso tempo - non sono sicuro di averti capito del tutto, né di condividere il tuo discorso. Ora, però, prova tu ad ascoltarmi. Io non so precisamente quale sia o sia stata la sorte dei personaggi che mi hai mostrato. Né mi interessa appurarlo in questo momento. Per quanto mi risulta, essi potrebbero essere prodotti della tua immaginazione e proiezioni della tua mente. So che la tua padronanza della tecnologìa consentirebbe di dare corpo, se così si può dire, a allucinazioni del genere. Permettimi, quindi, di dubitare. Su una cosa, invece, non c'è dubbio. A differenza di quanto sostieni dei tuoi compagni, tu sei viva. C'è un'altra Alice, che conosco bene e che vegeta da qualche parte, in uno stato cronico di catatonìa.

- Ebbene, - proseguii, in tono di preghiera - io mi sono convinto che lei non attende se non di riunirsi a te, per ridestarsi. E' la Alice che non ho mai smesso di amare. Per questo, sono venuto fin qui. Per ricondurti indietro. Non certo per restare, ammesso che ciò sia possibile. E' ora che tu ti convinci a tua volta, e che ti predisponi a concludere il tuo esperimento.

Mentre parlavo, un alternarsi di sentimenti - che io credetti di interpretare quali nostalgìa e opposta determinazione - trasparì effettivamente nello sguardo e sul volto di lei, o, meglio, sulla sua maschera. Nonostante le circostanze impellenti, non potei esimermi dal riflettere: dal rilevare mentalmente come l'aspetto di lei fosse rimasto esattamente quello che ricordavo, prima che la malattia e il tempo pure trascorso vi imprimessero i loro inevitabili segni.

Grazie alle tecniche più avanzate, Alice era attendibilmente riuscita a fermare l'orologio biologico, ovvero ad aggirare l'ostacolo. Ma solo in parte. Infatti, non aveva saputo decidersi a recidere il suo cordone ombelicale con la natura: a tagliare i ponti dietro di sé e a rinunciarvi del tutto. Fatto sta che ella continuava a vivere, sia pure presumibilmente priva di ogni traccia della propria personalità, in un altrove che era poi il nostro mondo: con i suoi inderogabili tempi e con le sue aborrite miserie, ma anche con qualche residua attrattiva. Questo paradosso avrebbe potuto rappresentare il mio punto di debolezza, ma anche di forza. Tuttavia, Alice era davvero libera delle sue scelte? Chi o che cosa poteva, invece, condizionarla?

Una volta di più, Alice sembrò in grado di leggere nel mio pensiero.

- Averti qui con me - disse, con una improvvisa, quasi supplichevole, ma equivoca e disperata dolcezza - mi aiuterebbe a decidere e a scegliere. Se non in altro, sono d'accordo con te in ciò: che questa mia condizione di ubiquità, questa dicotomìa e lacerazione, che mi porto ancora dietro, non può durare per sempre.

- Alice, - replicai, a questo punto, con voce ferma - spero che tu ti renda conto che quello che mi stai chiedendo non solo è troppo, per un normale essere umano quale io ritengo di essere. E' una pretesa, francamente, folle.

* * *

Una spia elettrica intermittente e rossa iniziò a lampeggiare in un angolo buio del cortile, in cui ancora ci trovavamo. Le fiammelle delle lucerne, appese a dei ganci infissi tutt'intorno nel muro, si ridussero e si attenuarono, fin quasi a spegnersi tremolando. Contemporaneamente, lo sguardo di Alice tornò a brillare di una strana luce fredda. Forse, si trattava solo del riflesso di una misteriosa, incoercibile paura.

- L'intervallo del concerto è quasi finito - disse lei, sottovoce - Stanno per ritornare. Mi dispiace, ma non c'è più tempo da perdere.

- Ritornare, chi? - domandai, non cercando di dissimulare, da parte mia, un rinnovato allarme.

In silenzio, Alice digitò un comando sul palmo della sua mano. La parete di fondo tornò a illuminarsi, trasformata in uno schermo trasparente, simile a un'ampia finestra con una vetrata di cristallo. I "riversati" che avevo scorto poc'anzi - così Alice li aveva designati - si incamminavano ora insieme lungo il pendìo che saliva verso il giardino, come attratti da un richiamo o in base a una convenzione. Anzi, alcuni di loro vestiti di scuro, in modo elegante ma uniforme, ne imboccavano il vialetto centrale, più largo degli altri. Questo, fiancheggiato da due siepi, procedeva diritto verso lo schermo: quindi - presunsi e temetti -, verso l'ambiente stesso in cui io e Alice eravamo. Già potevo intravedere a distanza i volti, per me anonimi, dei singolari personaggi che precedevano e avanzavano.

- Sono gli orchestrali - spiegò lei, con una inflessionegrave e con aria concitata nello stesso tempo. Fu l'ultima vera sua sollecitudine nei miei confronti. Successivamente, si affrettò a premere una combinazione di tasti, sul telecomando raffigurato nella sua mano. Un pannello, rotante lentamente su se stesso e coperto sui due lati da fitti circuiti elettroinici, comparve sospeso al centro dello spazio davanti a noi.

Ebbi l'impressione che fosse la rappresentazione di una interfaccia, di un tipo indubbiamente molto complesso. Ne riconobbi anzi lo schema, poiché un progetto del genere mi era stato mostrato molto tempo prima, dal nostro comune maestro, durante lo svolgimento di un Convegno Cibernautico Internazionale. Ricordavo pure, in quella occasione, di non aver attendibilmente valutato la cosa con la dovuta serietà e con opportuna lungimiranza.

- Hai indovinato - sussurrò Alice, con un tono ormai distaccato e senza che avessi fatto in tempo a interrogarla in merito - Si tratta proprio della riproduzione di una interfaccia. Una interfaccia cervello-computer. Benché virtuale, essa è funzionante a tutti gli effetti. Non ti farà alcun male. Ma è una norma inderogabile, e una precauzione necessaria: che chi riesca aa accedere a questo livello del ciberspazio non possa poi tornare indietro, magari a raccontarlo. Acconsentirai che non c'è troppo da fidarsi, degli abitanti della vostra dimensione. Almeno una volta, su questo la pensavamo nella stessa maniera...

Non ebbi l'agio di replicare che, per quanto io e lei avessimo condiviso molti punti di vista, nel nostro periodo di vita in comune, evidentemente non la pensavamo allo stesso modo fino in fondo. Il discorso sarebbe stato inadeguato, inutile e un po' noioso. Probabilmente, lo sarebbe anche adesso, oltre che di interesse limitato e privato, per chi leggesse la presente relazione. Soprattutto, mi accorsi con rammarico di essere stato semmai imprudente e un ingenuo, a fidarmi di quella imitazione perversa della Alice, che credevo di aver conosciuto come nessun altro. La situazione di emergenza, in cui mi ero venuto così a cacciare, mi si rivelò in tutta la sua serietà: senza sbocco e senza scampo apparenti.

Una serie di led si era accesa infatti in rapida successione, attorno al pannello della interfaccia: a formare una cornice rettangolare luminosa, e a indicarne l'attivazione e il funzionamento. Tentai immediatamente di togliermi il casco dal capo, per interrompere ogni contatto e uscire dal programma multimediale. Ma ogni sforzo in tal senso fu vano. Le mie braccia rimasero inerti, come se si fossero a un tratto paralizzate. Sentii che la mia mente era irresistibilmente attratta e, in un certo qual modo, risucchiata dal funzionamento della interfaccia.

Nello stesso tempo, avvertii un vuoto sensoriale. La mia vista si appannò. Fra le ultime immagini che percepii, furono quelle delle figure spettrali degli orchestrali. Essi entravano in fila da una stretta apertura prodottasi nella parete di fondo, che era tornata nel frattempo opaca. Con indifferenza per quanto doveva accadere ormai davanti ai loro occhi - quasi che la cosa non li riguardasse, se non marginalmente -, vennero a disporsi in ordine sulla apposita pedana, prendendo posto a fianco dei loro strumenti. Anzi, alcuni di loro li impugnarono e cominciarono ad accordarli, cavandone delle note acute e stridenti.

Come già la sua immagine familiare, la voce di Alice si allontanò gradualmente da me. Ella aveva seguitato, in quel mentre, a muovere le labbra e a parlare. Il tono di voce si era fatto notevolmente più dolce che in precedenza. Sarebbe potuto apparire perfino materno. Ma le sue parole erano tornate ad essere, almeno per me, suoni senza significato: ciò che, in effetti, si era verificato pure all'inizio della nostra comunicazione estemporanea. Senza dubbio, doveva essere quello l'avvio di una sorprendente, quanto indesiderata, procedura di "riversamento" della personalità. Sfortunatamente, questa volta, si sarebbe trattato della mia.