Pino Blasone - ALICE CIBERNETICA - Romanzo


DIECI

 

Arianna sorrise. Ciò non toglie che un'ombra veloce attraversasse gli occhi profondi e luminosi. Teseo se ne accorse. Tuttavia, fece finta di niente. Ottenere l'occasione di quel breve colloquio non era stato un risultato da poco, né tanto facile. Almeno, così gli era sembrato. Adesso, egli era troppo interessato all'argomento principale, per lasciarsi distrarre da risvolti magari importanti, ma sul momento secondari. In secondo luogo, non era affatto sicuro di poter cogliere in pieno i retroscena di una questione, i cui termini sostanziali gli sfuggivano.

- Il Minotauro? - rispose lei, abbassando istintivamente la voce - E' una faccenda relativamente semplice. Esso non è mai esistito.

Il giovane ateniese guardò la sua interlocutrice con una espressione comprensibilmente disorientata, in cuor suo quasi risentito. La principessa aveva accettato quel colloquio riservato, forse solo per prendersi gioco di lui? Tanto valeva allora fare marcia indietro, e tornare a rivolgersi a lei con calma e con un certo tatto, ma con franchezza.

- Perché vi siete mostrata disponibile a incontrarmi, immagino non senza rischi?

- L'ho già detto. Non è solo per aiutarvi, ma per dei motivi personali, che ora mi è difficile esporre. Quanto al Minotauro, intendo dire che si tratta di un artificio, messo in atto da mio padre e dai suoi consiglieri, per scoraggiare e per tener lontane curiosità importune dal segreto che si cela tra le mura del Labirinto.

- Stando così le cose, niente vieta di supporre che voi siate qui dietro ordine del re, per aiutarmi a fuggire e a spargere ulteriormente tale timore, ovvero a tener soggiogata la mia gente con il ricatto della paura. Il che, singolarmente, può anche tornarmi comodo. Ma, che cosa sarà dei miei compagni?

- Pensala come preferisci. Comunque, che tu mi creda o meno, io desidero qualcosa di più e di diverso. Che tu riesca a vincere il mostro e tutto ciò che esso rappresenta. Per quanto mi è possibile, ti prometto in cambio non solo la tua salvezza, ma la fuga dei tuoi compagni.

- Distruggere un mostro che non esiste, come tu stessa proprio ora hai affermato?

- Una illusione può essere a volte più pericolosa di una realtà. Tutto sta a individuare la realtà che si nasconde dietro tale illusione, e a saperla colpire o neutralizzare.

Teseo cominciò finalmente a comprendere ciò che più gli importava. Nello stesso tempo, non poté fare a meno di restare affascinato da quella donna così decisa e temeraria. Poche donne e perfino uomini della sua città avrebbero potuto tenerle testa, anche quanto a bellezza e soprattutto a raffinatezza. Certo, ciò dipendeva in parte dalla enorme differenza di civiltà e di costumi fra i due rispettivi popoli. C'era però in lei qualcosa di oscuro, che lo sconcertava e lo metteva a disagio. Minosse era sì un terribile tiranno, ma pur sempre un grande re e il padre di Arianna. Che cosa mai la spingeva a una ribellione se non a un tradimento ai danni di lui, ammesso che quegli atteggiamenti fossero sinceri? Semplice pietà o simpatia nei suoi confronti? Ella era sola nel concepire e attuare il suo disegno; o era piuttosto l'esponente di un complotto, la guida o lo strumento di una fazione avversa al legittimo sovrano?

Teseo ripensò a quando e come suo padre lo aveva mandato a chiamare, per affidargli quella missione in incognito. Vale a dire, mettersi alla testa di un equipaggio e di uno scelto gruppo di giovanetti ateniesi, destinati a fungere da ostaggi richiesti da Minosse: quel che è peggio, sotto la minaccia ventilata di finire vittime del Minotauro. Ciò, nella prospettiva di valutare e di tentare un eventuale colpo di mano. Gli parve ora che il re Egeo ne sapesse in effetti di più sulle possibilità di successo, che aveva davanti. Altrimenti, avrebbe arrischiato di inviare proprio il suo unico, diletto figlio? Fosse pure indotto dalle sue responsabilità nei confronti della nobiltà, e dal prestigio regale di fronte al resto della cittadinanza. Del resto, il vecchio Egeo era sempre stato un governante avveduto e astuto, di una piccola popolazione barbara e sottomessa, ma laboriosa e agguerrita.

Inoltre, quale altro segreto si celava fra le alte mura del Labirinto, cui la principessa cretese aveva pure alluso? Questi interrogativi turbinarono per la prima volta tutti insieme nella mente del giovane principe. Sennonché, il suo compito era quello di capire la situazione e di agire di conseguenza, non di perdersi dietro a domande senza immediate risposte. Infine, l'essenziale era che tutto contribuisse alla auspicata riuscita della sua già disperata impresa.

* * *

Teseo gettò uno sguardo attraverso la stretta finestrella della sua cella. Effettivamente, giù in un avvallamento era possibile scorgere la grigia mole del Labirinto. Esso affiorava per una considerevole altezza dal terreno, in quella zona dell'isola ventosa arido e roccioso, quasi desertico. La totale assenza di aperture visibili rendeva più tetro e misterioso lo strano edificio, di cui molto si vociferava in giro, perfino sul continente. Si diceva ad esempio che le sue pareti fossero più dure del granito, costruite senza connessioni, e che non potessero venir scalfite da alcuno. Quella specie di fortezza non si sarebbe potuta espugnare né con un attacco proveniente dal mare né con una assalto dalla terra. A meno che, forse, non si fosse stati in grado di penetrare altrimenti al suo interno: dall'alto, cioé dal cielo, da sotto terra; o da qualche acceesso sconosciuto, che doveva ovviamente esserci, sebbene mascherato.

Ma, anche in quest'ultima evenienza, chi vi si fosse addentrato, non sarebbe più stato capace di trovare l'uscita, per la complicazione dei suoi corridoi e per una serie di ingegnosi accorgimenti, che sbarravano il passo o confondevano il senso dell'orientamento. Di ciò, in particolare, il principe ateniese era certo. Era stato lo stesso ideatore del progetto a raccontarlo a Egeo, prima di spirare fra le sue braccia. Questi aveva fatto parte di un gruppo di sapienti fortunosamente scampati allo sprofondamento della lontana terra di Atlantide. Essi erano stati accolti volentieri dal re di Creta, purché lavorassero per lui e accrescessero così la sua potenza.

Dedalo, tale il nome dell'uomo di scienza, si era assunto l'incarico di edificare quell'incredibile monumento, per uno scopo o per una destinazione pratica non del tutto chiari. Ciononostante, non molto tempo dopo che era stata ultimata la costruzione, erano sorti dissensi con Minosse. Il crudele e ingrato tiranno aveva rinchiuso Dedalo e il suo giovane figlio Icaro nel Labirinto stesso. I due erano però riusciti a fuggire da una presa d'aria nel tetto, su due piccoli apparecchi invenzione dello stesso Dedalo, che avrebbero loro permesso di volare sulle distese marine, e di dirigersi a secondo dei venti.

Il solo padre era riuscito a raggiungere la penisola dell'Attica e a trovare rifugio presso il suo re generoso. Quanto allo sfortunato o avventato Icaro, egli era precipitato fatalmente in mare durante la trasvolata. Una ultima cosa aveva detto Dedalo, al suo soccorritore. Si era fatto promettere che egli in ogni modo avrebbe provato a distruggere il Labirinto e quanto esso conteneva, qualora se ne fosse presentata l'occasione. Estrema volontà di vendetta contro Minosse, o premonizione di un tremendo pericolo?

Il superstite della catastrofe di Atlantide, nonché profugo da Creta, non aveva fatto in tempo a specificarlo. Fatto sta che in breve Minosse e il Labirinto erano tornati a far parlare di sé, e questa volta a incutere terrore. Evidentemente non più tanto sicuro della impenetrabilità del Labirinto, dopo la fuga di Dedalo, il primo aveva fatto diffondere una straordinaria storia fra i popoli dei territori vicini al di là del mare. Almeno, tra quelli più incolti e predisposti a lasciarsi suggestionare da certe leggende, o addirittura ad accrescerle di particolari impressionanti con la loro fervida fantasia. Quest'ultima conclusione, Teseo la trasse a malincuore dopo aver ascoltato le parole di Arianna. Si consolò tuttavia, ricordando di aver nutrito a suo tempo qualche ragionevole dubbio.

Comunque stessero le cose, che riscuotesse credito o meno, tale favola assurda era servita da pretesto per imporre una odiosa e umiliante servitù ai paesi con i quali Minosse non intratteneva buoni rapporti, o dei quali non si fidava abbastanza. Un nuovo tributo non in oro né in argento, ma di quattordici giovani vite, da immolare periodicamente al mostro sanguinario, il quale si asseriva che fosse stato rinchiuso nel triste edificio dopo gli sventurati Dedalo e Icaro. Va da sé che la città, la quale avesse osato opporre un rifiuto, si sarebbe esposta alla rappresaglia di spietate incursioni da parte della temibile flotta cretese ovvero di mercenari di Minosse. Nel migliore dei casi, purché le popolazioni di provenienza si fossero comportate bene nei confronti dei cretesi e avessero accondisceso ai desideri del loro re, le ragazze sarebbero state trattenute in ostaggio e i maschi costretti a lavorare nello stesso Labirinto.

Ora che ci rifletteva su a mente fredda, Teseo ricordò che nessuno fra i pochi, che pure erano riusciti a tornare in patria, era stato in grado di riferire di aver visto da vicino il Minotauro. Quasi tutti lo avevano intravisto in maniera confusa, e avevano udito da lontano i suoi spaventosi muggiti. La sua figura era quella di un essere umano dal torso in giù, e di un toro per il resto del corpo. La parte più ridicola e oscena della leggenda era poi che una simile cratura fosse il parto di una unione bestiale tra la ex-regina Pasifae, naturalmente caduta in disgrazia e ripudiata, e un essere più o meno numinoso sorto dal mare. Invaghitosi di lei, oltre a stravolgerle la mente, per concupirla questi avrebbe assunto l'aspetto - in questo caso, assai concreto - di un toro. Altro particolare sconcertante, nessuno dei reduci sopravvissuti aveva saputo spiegare la vera natura del compito, cui era stato a lungo addetto nel Labirinto. Evidentemente, anche ciò faceva parte del mistero.

* * *

Una seconda furtiva visita ricevette Teseo, prima di essere ammesso al Labirinto, per affrontare la sua singolare prova. Era un emissario di Arianna, che il principe ateniese non tardò a identificare come uno degli atlantidi, che operavano al servizio di Minosse. Questi si informò su ciò che ricordava o sapeva della sorte di Dedalo, non nascondendo una certa emozione e reverenza per la memoria del vecchio maestro. Subito dopo, passò ad alcune spiegazioni pratiche, che si sarebbero rivelate preziose.

- Quando sarai introdotto con i tuoi compagni nell'edificio, - disse quello - vi verrà consegnata una spada di uno strano metallo. Allorché ti troverai a dover affrontare il Minotauro, bada bene di non usarla. Gettala anzi lontano da te. Il mostro non è che una immagine inconsistente sebbene paurosa, che noi chiamiamo "ologramma". Essa è suscitata e guidata da un congegno da noi stessi costruito, che si trova altrove. E' tale congegno nascosto, al quale tu devi mirare e che devi riuscire a colpire. Il pericolo consiste proprio nell'arma impiegata, che attira su chi la impugna dei raggi mortali. Appesa a una parete della sala centrale, troverai una pesante ascia di pietra a due tagli. Afferrala solidamente, e usa quella.

- Non ti curare quindi della minaccia illusoria del Minotauro - aggiunse, mostrando a Teseo una minuscola scatola scura - Appena distrutto il congegno animatore, il mostro svanirà come per incanto. Quanto a questo apparecchio, insensibile alle scariche micidiali, ti aiuterà a individuarlo. Esso ha una spia che emette una luce intermittente, tanto più frequente quanto più ti avvicini al congegno in questione. Quest'ultimo governa altresì le principali difese, che rendono impenetrabile l'intero Labirinto. Una volta disattivato il controllo, automaticamente vengono disinnescati i sistemi di sicurezza. Per evadere in tempo utile per la fuga, serviti comunque ancora della nostra piccola invenzione. In risposta a un mio invisibile segnale, la spia lampeggerà tanto più rapida, quanto più, questa volta, sarai prossimo all'uscita. Insomma, funzionerà un po' come un gomitolo di filo, che tu abbia srotolato dietro le tue spalle, e che possa riavvolgere per tornare alla luce del sole.

Delle istruzioni chiare e esaurienti fornite dall'atlantide, benché espresse con termini che suonavano a volte complicati, specialmente l'ultima immagine diede a Teseo l'impressione di un buon augurio. Il paragone con un gomitolo era stato decisamente familiare e suggestivo. Il "filo di Arianna" lo avrebbe dunque soccorso in una impresa, che nessun altro era mai riuscito a portare a termine? Egli occultò accuratamente il dono insperato che aveva ricevuto. Nello stesso tempo, si tranquillizzò e rincuorò. Si sentiva ora assai meno isolato, esecutore anzi di un disegno collettivo e attendibilmente ben organizzato. Previdente come sempre, il saggio padre Egeo non lo aveva certo mandato allo sbaraglio, ma con ragionevoli probabilità di successo.

In effetti, nel giorno stabilito per la temuta prova, tutto si svolse più o meno precisamente nella maniera che l'inviato di Arianna aveva preannunciato e previsto, come se ogni particolare fosse stato programmato in puntuale anticipo. La sconfitta del Minotauro e soprattutto la distruzione del congegno che ne reggeva le fila avvennero senza insormontabili difficoltà o ostacoli, da parte del principe ateniese e dei suoi giovani compagni, essi stessi addestrati e istruiti per l'occorrenza. A Teseo venne perfino da sorridere, nell'assistere alla scena del famigerato mostro che si avventava ciecamente contro la spada gettata sul pavimento, prima di dissolversi quale fumo o nebbia. L'esito fu il segnale, più che l'occasione, per una ben più ampia rivolta contro Minosse e i suoi fedeli. Dalla loro nave già lontana e al sicuro sul mare, ancora increduli dell'evento cui avevano validamente cooperato, i fuggitivi scorsero una alta colonna di denso fumo scuro levarsi nel cielo sereno dal tetto del Labirinto: segno dell'imperversare della battaglia, se non già di una vittoria degli insorti.

Fra le grida generali di giubilo, la sola principessa cretese sedeva in silenzio a fianco di Teseo, sulla tolda della stessa nave. Come infatti avrebbe potuto rimanere nell'isola, a sfidare la prevedibile ira del re suo padre? Come sperare di evitare una terribile punizione, memore peraltro della sorte infelice toccata a sua madre, la folle Pasifae? Gli stessi cospiratori le avevano consigliato quel passo, in attesa e nella speranza di tempi migliori per un suo ritorno. Né a lei dispiacque in fondo riempire in parte con la compagnia di Teseo il vuoto doloroso, lasciato nel suo animo dall'ingombrante figura paterna. Ma ben altri pensieri e dubbi cominciarono presto ad assillare la mente apprensiva dell'eroe inesperto, alle prese con le sue nuove responsabilità di comando, malgrado la sua sincera attrazione e la doverosa gratitudine nei confronti della bella Arianna.

La confusione della sommossa era certo servita a coprire la loro fuga e a impedire o a ritardare un inseguimento. Che cosa però sarebbe accaduto, qualora Minosse avesse prevalso e fosse riuscito a domare la ribellione? In tal caso nient'affatto da escludere, la permanenza della figlia traditrice a bordo o in patria non avrebbe fatto che aumentare le probabilità di una rovinosa rappresaglia, anziché neutralizzarle. Il risultato dell'intera operazione avrebbe potuto essere irrimediabilmente compromesso. Per la sicurezza della propria gente e per togliersi personalmente dall'imbarazzo, sarebbe stato meglio disfarsi in qualche modo di tale presenza scomoda. Per quanto ripugnante e oltraggioso, un simile sacrificio si imponeva anzi come necessario. Né era opportuno e raccomandabile tentare di spiegarlo proprio all'interessata, per non doversi trovare magari di fronte a un rifiuto inaccettabile.

Alla ricerca di una soluzione il più possibile indolore, Teseo si rammentò di una indicazione che il padre Egeo gli aveva fornito, da sfruttare per una eventuale emergenza. Il re di Atene gli aveva suggerito di rifugiarsi presso un re alleato e ospitale, che avrebbe provveduto a nasconderlo e nel caso a proteggerlo nell'isola di Nasso, anche detta Dia. Ora, quest'ultima si trovava a poco più di metà della rotta fra Creta e l'Attica. Non sarebbe stato difficile convincere Arianna a sbarcarvi, con il pretesto della necessità di una sosta per un rifornimento di acqua dolce. Dal canto suo, Teseo si sarebbe preoccupato di avvertire il sovrano del piccolo regno e di esporgli la delicata situazione all'insaputa della principessa, in modo che venisse accolta con ogni riguardo dovuto al suo rango.

* * *

Se c'era una cosa che Minosse non aveva assolutamente previsto, era la possibilità che gli evoluti atlantidi e quei barbari degli elleni si alleassero a un certo punto contro di lui. I primi da lui stesso beneficati, i secondi tenuti a bada se non avversati per la loro crescente invadenza sui mari controllati dalla flotta cretese. Rischiava così di fallire il suo progetto di egemonìa totale, che l'apporto insperato degli atlantidi aveva reso attuabile. Si era trattato, in fondo, di un rapporto equo e di reciproca utilità. La sua accoglienza e protezione, l'investimento di parte delle ricchezze della florida isola, la possibilità di continuare a applicarsi alle loro ricerche, in cambio del monopolio e del potere decisionale sui frutti del loro lavoro. Che cosa pretendevano di più? Come altrimenti si sarebbero potuti sostenere e finanziare? Non era questo ciò che essi chiamavano progresso? Certo, non era insieme agli elleni che avrebbero potuto realizzarlo. Che lasciassero a lui almeno giudicare quali vantaggi pratici si sarebbero potuti e dovuti trarre, dalla loro scienza e indubbia perizia.

Ciononostante, la notizia che più amareggiò il pronipote di Europa fu quella della fuga della figlia prediletta sulla nave del figlio di Egeo. Avrebbe potuto forse perfino perdonarle la sua ingenua ribellione, in quanto vittima di un raggiro, ma non l'ultimo affronto. Minosse aveva sempre detestato il re di Atene, fin da quando questi aveva ucciso il suo primogenito Androgeo, in quello che era stato presentato e giustificato come un incidente durante una gara sportiva. Sta di fatto che l'episodio era avvenuto a Atene, che Egeo e gli altri abitanti della città ne erano responsabili e avevano meritato la sua ritorsione.

Quanto all'altro figlio maschio, Glauco, una grave malattia aveva fatto sì che i medici lo dessero per morto. Gli atlantidi gli avevano somministrato un farmaco, che lo aveva praticamente restituito alla vita. Ma da allora le sue condizioni di salute erano state talmente precarie, che il giovanetto si era limitato a vegetare, tanto che sarebbe stato forse meglio non averlo salvato. C'era poi stato un altro triste parto, che il re non amava affatto ricordare, poiché la pazzìa della regina aveva tratto origine in gran parte da lì, o in relazione a esso si era scatenata. E una femmina, Fedra, la quale aveva dato prove di aver ereditato certe inclinazioni morbose della madre, malgrado la notevole somiglianza fisica con Arianna.

A maggior ragione, Minosse si sentì ora ferito dal tradimento di lei, se possibile ancor più che dall'incendio del Labirinto. Attendibilmente un nume invidioso - forse lo stesso dio del mare Posidone, stando a quanto andavano cianciando gli indovini - si era accanito contro la sua stirpe, impedendole di perpetuarsi degnamente, e attraverso essa aveva inteso punirlo di qualche mancanza o semplicemente della sua potenza. Pure, una stirpe gloriosa, che fin dall'inizio aveva tentato di fondare una nuova splendida civiltà nel cuore stesso del Mediterraneo, sintesi delle precedenti civiltà costiere. Ciò, anche grazie alla posizione favorevole di Creta, centro di commerci e sede di una popolazione industriosa, dedita tanto all'agricoltura e all'allevamento quanto alle arti. Se adesso la rivolta fosse riuscita, tutto questo sarebbe stato probabilmente e irrimediabilmente compromesso, o rinviato a una prossima incerta occasione della Storia, quando si fossero ripresentate tutte le circostanze adatte. Del grandioso prematuro sforzo di civilizzazione, non sarebbero rimaste che le testimonianze delle rovine e le leggende tramandate dai poeti. Ma che cosa si sarebbe potuto mai fare, con dei vani miti?

Il despota, a suo modo già "illuminato", si scoprì improvvisamente sfiduciato e stanco, così incompreso e abbandonato quasi da tutti, perfino dalla sensibile Arianna. Valeva davvero la pena di continuare a lottare con uomini miopi, insofferenti di ogni ordine e legge, e a opporsi a un destino contrario? Attratto dai suoni e dai canti ossessivi, Minosse si affacciò a una finestra del palazzo, che dava su un cortile interno porticato. Nel mezzo, si stava svolgendo una danza rituale propiziatoria da parte dei Cureti, sacerdoti evirati della grande dea Cibele, venerata sul monte Ida. Molto suggestiva anche se scontata, egli valutò. Soprattutto, estemporanea e inadeguata al pericolo che la patria e la sua persona stavano correndo. Con un gesto infastidito, interruppe quell'inutile superstizioso baccano. Nello stesso attimo, decise che ne aveva abbastanza del Labirinto, del Minotauro e di tutto il resto. Forse, i tempi e la mentalità erano effettivamente sproporzionati al progetto che aveva a lungo accarezzato e coltivato. E, poi, la civilissima Atlantide non aveva fatto una pessima fine?

Che i cretesi rimasti a lui fedeli se la sbrigassero una volta tanto da soli, se ne erano ancora capaci e non ridotti degli imbelli dai lussi di una vita troppo agiata. Quanto a lui, si sarebbe imbarcato di sotterfugio per la Sicilia, portandosi dietro tutto ciò che gli bastasse per un soggiorno consono alla sua posizione. Là regnava un sovrano legato a Minosse da debiti di riconoscenza, Còcalo. Lì stesso avrebbe atteso, al sicuro, di vedere come si mettessero le cose. Anche nel caso di una vittoria dei congiurati, l'incongruo accordo tra profughi atlantidi e elleni ateniesi non sarebbe dovuto durare a lungo. Una abissale differenza di cultura separava i due popoli. Un giorno, egli avrebbe potuto tornare come pacificatore e trionfatore, richiamato dal suo esilio da quelli stessi che avevano reclamato la sua deposizione.

* * *

Non senza intima soddisfazione e esultanza, anche la regina madre, da uno spiraglio della segreta in cui languiva segregata da tanti anni, aveva intravisto l'incendio della parte emergente del Labirinto e udito i clamori della sedizione. Troppo a lungo le era stato fatto credere che ivi fosse stato recluso il figlio deforme, che aveva avuto da Minosse e le era stato sottratto appena in fasce. Finché qualcuno, per un discutibile senso di pietà o per un calcolo politico, non le aveva svelato l'inganno e la crudele verità. Certo inadatto alla successione, il neonato era stato spietatamente sopresso, perché non rappresentasse un pericolo per il trono e una macchia infamante per la stirpe del re. In alcuno dei suoi pur rari momenti di lucidità, Pasifae non aveva esitato a istigare la figlia affinché tramasse contro il padre, per vendicare i suoi sentimenti e il suo onore trascinati nel fango in nome della ragion di Stato.

Svegliandosi presto al mattino, Arianna non vide accanto a sé il corpo snello di Teseo addormentato. Né rilevò la sua presenza nei paraggi, per quanto lo chiamasse e lo cercasse. L'intero equipaggio sembrava essersi dileguato nel nulla. Insospettita, la principessa si recò sulla riva del mare. Fece appena in tempo a discernere, all'orizzonte, la vela nera della nave ateniese. Era questo un segno di lutto che il re Egeo aveva voluto bene in mostra, quasi a scongiurare il fallimento dell'impresa: il che avrebbe attendibilmente significato la morte per gli altri ostaggi e per suo figlio. In caso contrario, egli aveva però raccomandato di cambiare la vela con una normale, di stoffa bianca. Anche da lontano, in tal modo si sarebbe potuto dedurre dal colore l'esito, se e quando l'imbarcazione fosse stata avvistata al suo ritorno, veleggiando sotto le coste dell'Attica.

Tali informazioni ormai superflue erano state fornite a Arianna da Teseo stesso, da lei interrogato circa quel particolare funesto. Ben altre parole i due giovani si erano scambiati in dolce colloquio, sotto forma di ingannevoli promesse, almeno da parte di lui. Arianna cadde in ginocchio sulla sabbia, mordendosi a sangue le labbra, mentre le lacrime le premevano contro gli occhi. Ma la sua memoria ferita non si soffermò sui ricordi freschi e brucianti dell'infìdo Teseo, rigettandoli anzi sul momento con rabbia e disprezzo. Per reazione e contrasto, essa si volse più indietro nel breve tempo della sua vita, al primo infelice amore. Ancora adolescente, ella si era invaghita di Icaro, il figlio di Dedalo, con tutta la crescente passione che un sentimento spontaneo e sinceramente corrisposto, per giunta avversato, era in grado di alimentare nel suo animo. Al padre Minosse, Arianna non aveva mai saputo perdonare di aver indotto alla fuga e a una morte precoce il suo Icaro. Questa non era stata l'ultima fra le cause, che l'avevano spinta a una sofferta presa di coscienza e alla ribellione nei riguardi del despota.

La principessa socchiuse gli occhi, con l'intenzione di elevare una supplica alla "dea dei serpenti", la nera Cibele, perché venisse in suo soccorso. Ma le amare considerazioni, in cui era assorta, furono interrotte da un arrivo imprevisto quanto silenzioso. Uscito presumibilmente dalla boscaglia alle sue spalle, l'aveva circondata uno stuolo di donne. Queste la osservavano con aria di compassione e insieme di complicità, come se fossero in grado di leggere i suoi pensieri, o fossero al corrente della sua identità e disavventura. Superato il primo spavento, Arianna le guardò meravigliata. Esse erano vestite di pelli e portavano i lunghi capelli sciolti, ornati di conchiglie. Le fecero cenno di seguirle. Ella acconsentì, non vedendo alternativa possibile davanti a sé, così sola e abbandonata come era venuta malauguratamente a trovarsi, in quella che aveva ritenuto un'isola deserta e a lei ignota. Durante il percorso, ebbe la curiosa impressione che quelle procedessero danzando, precedendola e guidandola lungo un sentiero tortuoso nel fitto della vegetazione.

Sbucarono infine in una zona disboscata e coltivata, distante dalla spiaggia del mare. Dalle basse piante, che la principessa non aveva mai visto prima, e che si arrampicavano ciascuna avvolgendosi intorno a un proprio sostegno, pendevano frutti dalla forma di grappoli dorati. Una delle accompagnatrici ne colse uno e glielo porse con un gesto di invito. Arianna ne assaggiò i chicchi succosi, insieme aspri e dolci, e ne trovò il gusto assai gradevole. Al centro dell'ampia piantagione, sorgeva un villaggio di capanne. Le donne la introdussero in una di queste, più grande e elevata delle altre. Nell'ombra dell'unico locale scarsamente illuminato, lei scorse un giovane personaggio, assiso su una specie di trono in legno. Difficilmente avrebbe potuto immaginare un uomo dalle fattezze più belle e delicate, in un luogo così rustico. Ai due lati, degli uomini coperti di pelli caprine sembravano fargli da guardie. Doveva trattarsi del principe o del re di quella strana gente, almeno a giudicare dal portamento regale. E le parve anche che la stesse aspettando.

* * *

- Nobile figlia dell'insigne Minosse, - esordì il singolare personaggio, con una voce flautata e seducente, alzandosi cortesemente in piedi e facendosi a lei incontro - mi dispiace ricevervi in un ambiente così povero, al confronto con la reggia cui siete abituata. Ma confido che vi troverete a vostro agio. Provvederò affinché non vi manchi alcuna comodità, durante il vostro soggiorno tra noi, che mi auguro non necessariamente breve. Qui sarete se non altro al sicuro, sia che decidiate di attendere che l'ira di vostro padre nei vostri confronti sia auspicabilmente sfumata, sia che preferiate restare. Le notizie che ci giungono da Creta sono infatti ancora confuse. La rivolta, che voi stessa avete più o meno involontariamente favorito, sta mettendo in seria difficoltà il potere costituito. Da fonti certe, posso però anticiparvi che al vostro genitore non sarà torto un capello, anche nell'eventualità che la sua enorme potenza venga abbattuta o ridimensionata.

La principessa si rese conto improvvisamente di trovarsi al cospetto del misterioso Dioniso. Era lui il leggendario bambino pure scampato alla rovina di Atlantide, che i suoi seguaci avrebbero trasportato di nascosto in Oriente, in attesa che fosse maturo per il riscatto della sua gente dispersa? Icaro gliene aveva narrato a lungo, confidandosi con lei. Lo stesso figlio di Dedalo aveva mostrato di riporre accese speranze nell'avvento di lui, quasi che fosse il portatore di una prospettiva religiosa e salvifica: certamente differente da quella dei sapienti che si erano affannati intorno e dentro il Labirinto, grazie al favore interessato di Minosse. E lo stesso Dedalo doveva aver finito per convertirsi a tali speranze, apparentemente ingenue e prive di fondamento, una volta che si era accorto delle vere mire del tiranno e del nuovo tremendo pericolo che incombeva.

Dopo che ebbero pranzato e amabilmente conversato, l'affascinante sovrano di quel felice popolo fece portare un'anfora e due coppe. L'anfora era colma del rosso liquido che i suoi contadini estraevano dai frutti della pianta sconosciuta, che Arianna aveva già assaggiato. Sia la pianta, sia la tecnica di lavorazione del suo succo, erano prodotti e conoscenze che Dioniso aveva importato dall'Asia in cui era cresciuto e da cui proveniva. Egli ne empì una coppa spumeggiante e la offrì alla sua ospite, perché provasse a berne. Lui stesso bevve dall'altra. Presto Arianna avvertì una piacevole ebbrezza, simile a quella suscitata dalla birra fermentata in Egitto, che le era capitato di bere a Creta, scambiata dai mercanti fenici scesi dalle loro agili navi.

I fumi del vino valsero ad allentare i lacci stretti intorno alle più recenti ferite inferte nel suo animo, perché non sanguinassero. Nello stesso tempo, produssero l'effetto di liberare le sue lacrime represse e di sciogliere il riserbo della sua lingua. Interrogata da Dioniso sulle cause di quel pianto dirotto, la principessa si sfogò tra le sue braccia premurose, lamentando l'affronto arrecatole da Teseo. Radioso e volubile come un dio bambino, il giovane re si commosse e si corrucciò a sua volta, ma subito dopo rise.

- Non ti affliggere più di tanto - disse, tornato serio e pensoso - Il valoroso Teseo è partito da qui con un mio dono prezioso. Un otre pieno del nettare della vite, da recare in omaggio da parte mia al saggio padre Egeo. Sicuramente, egli non saprà resistere alla tentazione di berne durante il viaggio. Ebbene, fra le virtù di questo magico liquore è quella di lenire i dolori e le sofferenze umane, purché si sia in buona fede e non se ne abusi. In caso contrario, esso cova l'insidia di scatenare e ingigantire i rimorsi per le colpe dei malvagi, finché essi non ne rimangano oppressi e come schiacciati. E' quanto giurerei che accadrà al tuo indegno amante e vile approfittatore.

* * *

Il re Egeo si aggirava inquieto per le sale della sua modesta reggia, più simile a un piccolo fortilizio che ai palazzi di Creta che aveva visitato in gioventù: dimore di Minosse ricche di colonnati, di giardini e di variopinti affreschi. E che dire delle affascinanti dame, sacerdotesse e cortigiane, dalle generose scollature e dal trucco raffinato, le quali partecipavano liberamente alle frequenti feste e assistevano alle immancabili tauromachìe? Una immagine assai meno gradevole e luminosa si sovrappose a quelle dei seni scoperti delle prosperose cretesi, nella memoria del vecchio. Quella cioè del coetaneo Dedalo morente, dopo la sua fortunosa trasvolata e la scomparsa disperante del figlio Icaro. Egli stesso si trovava ora nell'angoscia di una situazione analoga: a rischio di perdere, o di aver già perso, il suo solo erede maschio. Nessuna nuova ancora di lui, nonostante il notevole periodo di tempo trascorso dalla partenza. Sospirando, Egeo gettò uno sguardo sulla superficie azzurra e deserta del mare sottostante, attraverso una feritoia nella muratura.

E tuttavia l'architetto del Labirinto aveva avuto il modo di confidargli assai più, di quanto lui stesso non avesse riferito a Teseo. Era stato forse un errore non metterlo al corrente di tutti i retroscena, nella sfiducia che il giovane non possedesse l'esperienza sufficiente per comprendere, con il timore anzi che troppi dubbi avrebbero potuto disorientare e scoraggiare la sua generosa azione. Gli scienziati atlantidi ospiti di Minosse avevano potuto riprodurre, grazie agli ingenti mezzi da quello messi a disposizione, una loro vecchia ricerca nei sotterranei del Labirinto. Di una fonte ignota di energìa, la cui scoperta avrebbe esteso senza limiti il dominio del re di Creta sul mondo. Il marchio dell'ascia bipenne, simbolo del potere suo e dei suoi adepti, sarebbe venuto a imprimersi incontrastato in tutti i paesi allora conosciuti. In compenso, egli si sarebbe augurabilmente trasformato in un semidio benefattore dell'umanità.

Tale ingenuità si era rivelata presto una perniciosa illusione. Vani tutti gli sforzi di Dedalo, per convincere il tiranno a utilizzare per fini eminentemente pacifici la tremenda forza soggiogata nei recessi del Labirinto, temerariamente sprigionata e empiamente sottratta alle viscere della Natura. Quella stessa forza che, male controllata e peggio impiegata, aveva già distrutto l'amata Atlantide, inabissandola nell'Oceano con la stragrande maggioranza dei suoi progrediti abitanti. Il decano dei sapienti giunti dall'estremo Occidente aveva assistito impotente a una seconda, prevedibilmente non ultima, catastrofe. L'efficacia della nuova straordinaria forma di energìa era stata sperimentata su una isoletta, abbastanza lontana da Creta.

Dopo un accecante bagliore, un immane fungo di letale fumo violaceo si era elevato al di sopra nel cielo azzurro. Altissime ondate avevano spazzato le sponde delle isole circostanti, i cui sprovveduti abitanti avevano creduto in una eruzione vulcanica e in un maremoto, o in una punizione divina dei loro esigui peccati. Nel centro dell'esplosione, la terra sconvolta era stata sommersa, con i miseri resti della sua popolazione. Stanco di porsi al servizio del male, Dedalo per primo si era ribellato al despota criminale, rifiutando di spingersi oltre verso l'abisso. Che gli altri seguitassero pure cinicamente, se proprio non potevano farne a meno o lo ritenevano in qualche misura utile, a perseverare nella loro cieca follìa.

Proprio in quel momento, i ricordi e gli scrupoli ricorrenti di Egeo lasciarono il posto all'attenzione per l'irruzione di una vedetta, scesa di corsa dalla cima della torre del castello. L'armigero indicò un punto invisibile dell'orizzonte, grossomodo in direzione di Creta. Con voce concitata, annunciò la comparsa di una vela nera in lontananza. L'anziano re di Atene vacillò, consapevole del significato da attribuire a quella notizia. Chiesto immediatamente un mantello, vi si avvolse e uscì senza seguito dalla reggia, per raggiungere l'orlo franoso della scogliera a picco sul mare. Da lì, era possibile per i suoi occhi incerti scrutare meglio la distesa agitata da un improvviso e forte vento, e quanto si avvicinava su di essa mentre in cielo si addensavano grige nubi.

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Teseo aveva già udito parlare della nuova bevanda venuta dall'Oriente e dei suoi controversi effetti sugli esseri umani. Rare quantità ne erano state smerciate dai soliti mercanti fenici, i quali si erano spinti fino sulle coste dell'Attica. Altre volte si era trattato di scorrerìe di pirati ubriachi di birra egiziana, i quali avevano lasciato pessimi ricordi delle loro razzìe. Dopo aver sconfitto il mostro prodotto dall'arte della tecnica, proveniente dal remoto Occidente, non gli parve un gran male misurarsi con questo più avvincente nemico. Per giunta, l'inquietudine per il suo abbandono di Arianna e il rimpianto di lei cominciavano a tormentarlo. Chissà che qualche sorso del "nettare della vite" non cancellasse dal suo animo quella malinconia, che turbava l'aspettativa soddisfatta del prossimo trionfo, una volta giunto in patria.

Il principe ateniese stappò l'otre regalo di Dioniso, ne versò il contenuto in una ciotola e bevve ripetutamente, finché la vista uniforme del mare circostante non si annebbiò. Egli credette di scorgervi dei bianchi delfini, che saltassero giocando fra le onde. Poi, cadde in un sonno profondo e scivolò in un sogno, che presto si mutò in un incubo. Prima, dal fondo dello specchio della sua coscienza affiorò il riflesso della desiderata Arianna. In seguito, vi apparve la sagoma deforme del Minotauro. Questo sedeva in una caverna oscura dell'Ade, il regno dei morti, illuminato da un debole raggio di luce che pioveva dall'alto. E lo rimproverava con voce umana, ma simile al brontolìo di un ventriloquo.

- Tu mi hai ucciso, - esso protestava - pur essendo venuto a sapere che non potevo nuocerti. Proprio un bell'atto di coraggio e di eroismo! Eri suggestionato dalle favole che si raccontano intorno alla mia bestiale ferocia. Non ti sei fatto però scrupolo di indagare se la mia metà umana nutrisse qualche sentimento degno di questo nome. Che so, di sofferenza per la mia condizione infelice e per il mio stato di reclusione, senza aver commesso colpe ma per scontare falli altrui. Tanto meno, se la mia parvenza diabolica non celasse per caso un residuo insondabile di divino, certo difficile da accettare. Mi credevi forse compiaciuto del mio aspetto? Non è sorto in te il sospetto che i miei muggiti potessero essere lamenti inascoltati? Non basta. Ti sei servito contro di me della mia sventata sorellastra, l'hai sedotta e abbandonata al suo destino. Specchiati ora nella mia immagine. Non sei tu dunque il vero Minotauro, di gran lunga peggiore di me? Ma, ricorda. Figlio spurio e disprezzato di Minosse, io ti attendo qui per giudicarti e per condannarti.

Teseo avrebbe voluto gridare, replicando ciò che Arianna gli aveva rivelato e che lui stesso aveva sperimentato. Vale a dire che il Minotauro non esisteva e che era tutta una invenzione assurda. Nient'altro che uno stupido "ologramma". Ma temette di complicare ulteriormente la situazione, così facendo. Le sue labbra restarono come cucite. Ne uscì solo una specie di gutturale muggito, mentre egli si agitava nel sonno. Fu allora che venne destato dalle urla autentiche dei marinai dell'equipaggio. Giunti ormai in prossimità delle scogliere dell'Attica, un remo aveva urtato contro il corpo di un vecchio galleggiante sull'acqua, palesemente privo di vita. Quando riuscirono a ripescarlo e a tirarlo su a bordo, rimasero senza fiato.

Richiamato dal trambusto, anche Teseo sulle prime non volle credere ai propri occhi. Poi, allibito, ricostruì mentalmente quello che poteva essere successo. Si accorse di essersi dimenticato, in preda all'ebbrezza, di far cambiare la vela della nave. Spiando sul mare dall'alto, l'anziano Egeo doveva aver distinto la vela nera all'orizzonte. In base agli accordi presi a suo tempo, senza dubbio ne aveva dedotto la fine del proprio figlio e dei suoi compagni, a seguito del fallimento della spedizione. Il suo cuore stanco non aveva retto allora al dispiacere e all'avvilimento, ed egli era precipitato da una rupe. Oppure, si era gettato di sua volontà nel vuoto, sullo stesso mare che da lui avrebbe preso un giorno il nome. In tempi auspicabilmente meno "barbarici" e più inciviliti.