Pino Blasone - ALICE CIBERNETICA - Romanzo

UNDICI

 

 

Al punto conclusivo della storia cui siamo giunti, la traduzione della nostra Arianna si fa confusa, a causa di difficoltà incontrate nel testo praticamente insormontabili. Neanche a farlo apposta, ciò accade proprio là dove ci si aspetterebbe un contributo sia pure indiretto ma determinante ai fini della nostra ricerca. Occorre allora sforzarsi di colmare le lacune, integrare il racconto, perfino identificare i personaggi citati, con una certa dose di immaginazione e di inevitabile arbitrio. Pertanto, non me ne vogliate se d'ora in poi il senso del discorso risulti un po' oscuro o ricostruito in base a riferimenti a noi familiari, che possono però generare involontarie forzature. Fatto sta che effettivamente, in questa sorta di appendice alla narrazione principale, più che altrove è possibile ravvisare elementi allusivi alla nostra stessa storia e utili in prospettiva dei nostri destini.

Succeduto a Egeo sul trono di Atene, Teseo non sarebbe mai riuscito a dimenticare la principessa cretese, andata sposa nel frattempo a Dioniso. Dopo una fugace relazione con la regina delle Amazzoni, Ippolita, egli finì per sposare una sorella di Arianna, Fedra, soprattutto perché somigliante a lei. Prevedibilmente, si trattò di un matrimonio infelice, con un finale tragico. La dea della vendetta, Nemesi, non cesserà di accanirsi senza sosta contro il vincitore del Minotauro e i suoi cari. Fedra si accenderà infatti di una passione insana per l'adolescente Ippolito, figlio di Teseo e di Ippolita: tanto più irrefrenabile, quanto ella fu respinta da un comprensibile rifiuto. Sconvolto dall'ira e dalla gelosìa, il padre farà in modo che il figlio calunniato e innocente perisse. Tornata in sé e sopraffatta dal dolore della perdita, dai rimorsi e dalla vergogna, la stessa Fedra si toglierà la vita. Anche con la fine di Ippolito, avrà a che fare un mostro marino in forma di toro selvaggio. Direttamente o meno, sino dal ratto leggendario della progenitrice Europa, demonìaci fantasmi di tori non avevano decisamente mai smesso di perseguitare la stirpe di Minosse.

Se pure erano stati e così si erano svolti, tutti quei fatti si erano verificati molto, molto tempo prima. O, forse, moltissimo tempo dopo. Chi avrebbe potuto stabilirlo o negarlo con assoluta sicurezza? Certo, nella mente umana, essi erano successi una volta per tutte, fin dall'infanzia in cui erano stati uditi narrare per la prima volta. Anzi, in qualche modo e misura, continuavano a accadere e ad agire ogni volta che venivano raccontati e inevitabilmente modificati, tramandati e aggiornati di generazione in generazione. Almeno, finché ciò era avvenuto o seguitasse a avvenire secondo una tradizione orale. Dal momento che la scrittura, con la giustificazione di preservarne meglio il ricordo, avrebbe fatalmente rischiato di sterilizzarli, ovvero di imprigionarli in una formula fissa ed esclusiva.

* * *

Dal canto suo, il filosofo si compiacque di non aver mai scritto una riga. Che ci pensassero altri, se proprio ne avevano la voglia, la passione e il tempo. C'era ad esempio un tale Platone, un giovane un po' petulante ma assai promettente, dedito altrettanto allo sport quanto alla filosofia, che si dava molto da fare. Il detenuto si alzò ora, perplesso, e tornò ad affacciarsi alla finestrella del suo carcere. Era come se per la prima e forse per l'ultima volta si trattasse di prendere una decisione seria, che riguardasse non tanto questioni generali, quanto la sua singola persona. Trovarsi finalmente a tu per tu con se stesso, dopo aver giocato a rimpiattino con il proprio demone interiore per una intera esistenza. Mezzo uomo e mezzo toro, gli sembrò che il demone sedesse adesso davanti a lui, in una posa goffa e sgraziata, con una espressione animalesca eppure imbronciata come quella di un bambino. No, non era esattamente come se lo era figurato. Se non altro, se lo sarebbe augurato dall'aspetto più presentabile e dignitoso.

Laggiù, nella stessa rada in cui un giorno probabilmente era approdata la nave di Teseo con il suo triste carico, si cullava pigra un'altra nave. Essa si stagliava nel chiaro di luna con la vela quadrangolare semiammainata sull'albero, quasi pronta a salpare e a riprendere il largo sulla sconfinata superficie argentea e luccicante. Era appunto l'imbarcazione, con la quale ogni anno gli ateniesi commmemoravano l'impresa di Teseo, leggendario salvatore della loro patria. Per la durata del sacro viaggio, fino all'isola di Delo e ritorno, era sospesa l'esecuzione delle condanne capitali. Ora che la nave era tornata e i festeggiamenti erano terminati, più niente avrebbe potuto impedire che l'esecuzione avesse luogo, né c'era motivo per cui venisse ulteriormente rinviata.

Con l'aiuto premuroso dei discepoli più affezionati, tuttavia non sarebbe stato troppo difficile, comprata la connivenza dei custodi, raggiungere furtivamente una nave come quella e imbarcarsi per lidi più sicuri. Anzi, gli amici asserivano che tutto era stato già predisposto per la fuga. Circostanza non secondaria, il governo di Atene sarebbe stato ben contento di scaricarsi di dosso la responsabilità di far eseguire una condanna, certamente non popolare al cento per cento. Contro le proprie stesse leggi e la sentenza emessa dai giudici, si sarebbe insomma tranquillamente chiuso un occhio se non volentieri favorita l'operazione, la quale si sarebbe in pratica risolta in un atto di ostracismo e nell'esilio.

- Non è l'uomo che gli interessa colpire, - sentenziò il Minotauro, non senza un'aria di furbesco sussiego - bensì le idee che rappresenti e che io in parte, tu stesso lo hai ammesso, ti ho suggerito. Una volta di più, è me che vogliono indirettamente ferire a morte. Lasciami dunque al mio destino, e mettiti pure in salvo. Vedrò di cavarmela da solo in qualche maniera. Ci sono dopotutto abituato. Fa parte del mio ruolo e della mia natura "mostruosa". Altrimenti, avresti dovuto fare come Teseo. Armarti di una spada, o meglio di una scure, e cercare di uccidermi di tua mano. Ma dovevi farlo pubblicamente, nell'agorà o nell'Areopago. Ormai, è troppo tardi. Nessuno più ti crederebbe, se andassi poi a raccontarlo in giro. Continuerebbero solo a insinuare che hai la testa fra le nuvole. Tu, mio caro Socrate, non fai ancora parte di nessun mito. E' questa la tua principale debolezza...

"Taci. Non starmi a seccare anche tu. In fin dei conti, non sei che un 'ologramma'. Nient'altro che uno stupido ologramma", ripeté Socrate fra sé e sé, con un certo fastidio, "E pensare che potrei spegnerti quando voglio. Liberarmi dalla tua ossessione e ridurti infine al silenzio. Perché so che altrimenti non solo ti salveresti, ma continueresti a perseguitarmi ovunque io corra a rifugiarmi. E' tutto qui il problema. Rassegnarsi a bere il veleno della cicuta, che graziosamente mi viene ora offerto. Spegnerti significherebbe disattivare il circuito che ci lega, azzerare la mia labile memoria. Non c'è purtroppo altra via. In attesa che altri - prima o poi - ceda alla tentazione, o piuttosto al bisogno, di venire a stanarti e a resuscitarti fin nei recessi del Labirinto".

Improvvisamente, il Minotauro era scomparso. O, forse, si era trasfigurato. Al suo posto, apparve uno splendido cigno selvatico, il volatile sacro al divino Apollo. Il filosofo intuì il significato e il messaggio di tale metamorfosi. Quasi non volendo, aveva rotto l'incantesimo. Per dirla con un "gimnosofista" indiano, il quale era transitato tempo prima per la sua cerchia, intrattenendosi a disquisire con lui, davanti al suo "terzo occhio" si era squarciato il "velo di Maya". Nello stesso istante, egli aveva reciso i lacci che legavano il cigno alla terra. L'inviato di Febo stese le ali bianche, avvicinandosi all'apertura che comunicava con l'esterno, come se volesse librarsi in volo per tornare alla remota Thule, l'isola degli Iperborei di cui pure narrava una leggenda spesso ascoltata nell'infanzia. Quanto più rapido e sicuro della nave della conoscenza, nel solcare l'oceano mutevole delle forme!

Allo stesso modo, era giunto per Socrate il sospirato momento di evadere dal suo Labirinto. Di abbracciare gli amici costernati e afflitti, e di libare con il calice amaro della cicuta alla propria salute ritrovata. Ma, prima, volle lasciare ad essi un obolo, perché acquistassero un gallo e lo offrissero in sacrificio ad Asclepio, il dio della medicina. In ringraziamento di quel farmaco, che per ironia della sorte, costretto dall'intolleranza inconsapevole degli uomini, lo avrebbe guarito da ogni possibile male.

* * *

Socrate era steso sulla sua branda. La luce fievole dell'alba filtrava nella penombra della cella. Oltre la finestrella, sul mare pacato era già lontana la nave della possibile salvezza, o piuttosto della perdizione di sé, secondo quanto Socrate stesso aveva ritenuto di intuire e scongiurare. Prima che il veleno completasse la sua lenta azione paralizzante, egli ebbe comunque il tempo di accennare un seguito del mito, non meno sorprendente degli antefatti narrati in precedenza.

E' vero che il solito Platone si mostra reticente su quanto qui riportato, o ne riferisce diversamente. Tuttavia, è lecito dubitare che fosse un testimone diretto. Oppure, per espressa raccomandazione del maestro, egli non volle palesare né tanto meno stendere per iscritto un insegnamento che, sotto forma di apologo, aveva carattere riservato a pochi iniziati e avrebbe dovuto rimanere segreto. Altrove, Platone mette in guardia dalle corruzioni e dalle alterazioni arrecate alle tradizioni dalla fantasia dei poeti. Essi infatti spesso si preoccupano, in maniera contraddittoria, di preservare sì la loro opera dall'usura dei tempi, ma adattandola alla mentalità contingente dell'uditorio o al gusto dei lettori. Va aggiunto che il fedele discepolo Fedone, che assisteva di persona il filosofo e al quale questi si rivolgeva, fu assalito da un dubbio: che il morituro ormai vaneggiasse e che la sua mente fosse uscita dalle labili coordinate della logica comune.

In ogni caso, è risaputo che il tiranno Minosse, raggiunta la Sicilia, non era andato incontro al dorato esilio in cui pure aveva riposto speranze di riscossa. In effetti, l'ingrato e falso re Còcalo lo aveva accolto calorosamente. Lo aveva però poi fatto assassinare a tradimento, probabilmente per impossessarsi delle sue superstiti ma ingenti ricchezze, o per accattivarsi il nuovo governo cretese. Quanto ai sapienti atlantidi, come Minosse stesso aveva acutamente previsto, il loro coinvolgimento nelle vicende politiche di Creta non ebbe lunga durata. Del resto, nonostante tutte le precauzioni adottate, dalle ceneri del Labirinto avevano continuato a sprigionarsi per anni la contaminazione e la morte, rendendo invivibile una vita normale e determinando il tramonto di quella splendida civiltà. Presto essi si videro costretti ad abbandonare la grande isola, per una nuova e ignota destinazione. E' proprio qui che il racconto di Socrate, sia pure ricostruito in maniera approssimativa e congetturale, è in grado di apportare un elemento di rivelazione o di ulteriore invenzione. Quelli si sarebbero in realtà stabiliti nella Terra dei Lotofagi, così chiamata da Ulisse che vi capitò parecchi anni più tardi: all'epoca del suo travagliato viaggio di ritorno verso l'amata patria Itaca, dopo la famigerata guerra di Troia.

Ammaestrati e delusi dalle esperienze negative dei loro avi, i discendenti spinsero fino ad estreme e alquanto bizzarre conseguenze il messaggio a sfondo religioso, predicato e diffuso con l'esempio da Dioniso. In parole povere, essi si sarebbero volutamente dedicati all'esercizio della dimenticanza anziché alla salvaguardia e al rafforzamento della memoria, lasciandosi vivere in uno stato quasi di stupore e di perenne ebbrezza. Ciò, magari, nell'illusione di favorire la "reminiscenza" di qualcosa di più autentico quanto vago, di sacro e di originario, e di venirne illuminati. In questo modo, il patrimonio della scienza e della tecnica ereditato dai loro avi scivolò rapidamente nell'oblìo, avendo peraltro mostrato di essere fonte di gravi danni e rischi più che di duraturi vantaggi, causa l'immaturità del genere umano. Fu all'incirca in tale periodo che avvenne il primo incontro fortuito con Ulisse. Disorientato e intimorito dal loro atteggiamento, pure ospitale e amichevole, l'eroe greco si era affrettato a sottrarre se stesso e gli uomini del suo equipaggio all'influenza nefasta e al fascino fuorviante dei lotofagi.

* * *

Tornato come sappiamo a Itaca, riconquistato finalmente il trono e riabbracciati i suoi cari, si dice che Ulisse ne ripartisse ormai anziano, spinto da una sete rinnovata di sfidare e varcare i limiti incerti delle umane capacità e conoscenze. Fra tutte le terre e i popoli di cui aveva udito raccontare dal padre, esplorate durante i suoi viaggi per mare, l'avventura con i lotofagi era quella che aveva più incuriosito il figlio Telemaco. Strana gente davvero, immersa nel disinteresse, più che nell'ignoranza, del mondo circostante. Stirpe pressoché vegetale, come i frutti straordinari che si sosteneva alimentassero tale rifiuto. Quanto contrario alla nostalgìa, che aveva ricondotto Ulisse in patria dopo tante peregrinazioni! Ma, anche, al sentimento della noia, che lo aveva risospinto attendibilmente fino all'Oceano. Da quest'ultimo viaggio, intrapreso dopo la morte della fedele sposa Penelope, Ulisse non aveva più fatto ritorno. Di sicuro, egli aveva trovato la morte con i suoi compagni di sventura, a causa degli stenti o del naufragio della loro nave.

Più che una ragionevole e fondata speranza, un puntiglio e uno scrupolo indussero Telemaco a compiere delle ricerche. Né meraviglia che uno dei primi luoghi che visitò fra quelli toccati dal padre, sulla base delle indicazioni da lui fornitegli a suo tempo, fosse proprio la Terra dei Lotofagi. In questo caso, fu piuttosto il suo sesto senso a guidare il figlio di Ulisse. Attorniato dagli ultimi discendenti degli atlantidi, il vegliardo navigatore sedeva sullo stesso scanno di legno, ornato da pampini di vite, che era appartenuto a Dioniso. Telemaco lo riconobbe quasi subito. Avrebbe voluto abbracciarlo ripetutamente, commosso da una gioia incontenibile. Ma l'altro, lì per lì, non tradì nessuna emozione. Anzi, fece mostra di non conoscerlo, benché sembrava stranamente che lo aspettasse.

Il vecchio e astuto Ulisse, che aveva resistito alle arti magiche di Circe, che aveva sdegnato l'immortalità promessa da Calipso ed era sfuggito alle seducenti Sirene, si era forse lasciato ora irretire da un branco di drogati inebetiti? Dal canto loro, tutti questi assistevano impassibili e ieratici, quasi assenti. Come se si trattasse della solenne cerimonia di iniziazione a una setta misterica. Per primo atto isolato, all'ospite sospettoso ed esitante venne offerto un frutto di loto, perché ne gustasse...

A questo punto, Fedone perplesso non poté fare a meno di interrompere il racconto, che Socrate andava sussurrando con la passione del narratore ma con un filo residuo di voce.

- Possibile - esclamò, con una contenuta insofferenza - che gli atlantidi non avessero pensato di affidare il loro prezioso sapere alla scrittura, o a qualche forma meno accessibile di codice, perché gli uomini potessero almeno decifrarlo e usufruirne in tempi migliori? O affinché essi stessi riuscissero a sfruttarlo per raggiungere una sede più adatta a sé ai propri nipoti, all'evenienza di una nuova necessità o pericolo? Consentimi, o Socrate: il finale a sorpresa che tu ci hai riservato è suggestivo ma poco plausibile, nella realtà di questo mondo.

Ormai privato dell'uso della parola dall'effetto della cicuta, il filosofo sorrise debolmente. Quasi che non desiderasse smentire fino all'ultimo la sua fama di proverbiale ironia, per lasciare di sé un ricordo coerente con il ruolo che aveva sempre interpretato. Probabilmente, pensò ciò che aveva già avuto occasione di considerare: il caro Fedone era dotato di grande perspicacia ma di troppo buon senso, per essere un vero continuatore della sua opera. Eppure, le frasi impulsive che egli aveva appena pronunciato erano così simili a quelle che lui stesso aveva intenzione di mettere in bocca al giovane Telemaco, se solo avesse potuto proseguire con il suo apologo!

Del resto, l'animo affezionato dell'allievo doveva essere rimasto contrariato e comprensibilmente ferito dall'ostinazione del maestro nel non accettare di salire sulla nave della salvezza. Fra le lacrime non più tenute a freno dei discepoli, fu comunque il suo estremo, enigmatico sorriso. Alla mente di lui al crepuscolo, si presentò certo l'immagine di un'altra nave ancora: anzi, di una specie di astronave. Quella dei lotofagi, con a bordo in prima fila il prevedibile e ulisside Telemaco, in viaggio verso nuove Atlantidi, virtuali o reali che fossero. Là dove poi la storia, sebbene in termini differenti e ad altri livelli, avrebbe finito irrimediabilmente con il replicarsi.