Il Tribunale di Palermo, Sezione Quinta Penale, composto dai sigg.
1) Dott. Francesco Ingargiola Presidente
2) Dott. Vincenzina Massa Giudice
3) Dott. Salvatore Barresi Giudice
Riunito in camera di consiglio ha pronunziato la seguente
sciogliendo la riserva formulata all'udienza del 26 settembre 1995;
esaminati i documenti dei quali è stata disposta l'acquisizione;
decidendo sulle questioni preliminari di competenza sollevate dalla difesa dell'imputato all'udienza suddetta, sentiti il Pubblico Ministero ed il difensore di Parte Civile,
Le questioni preliminari, sottoposte al Collegio ai sensi dell'art. 491 c.p.p., subito dopo compiuto l'accertamento relativo alla costituzione delle parti, tutte attinenti alla competenza del Tribunale adito, si riferiscono a tre distinti e diversi profili, che di seguito saranno partitamente esaminati, secondo l'ordine di prospettazione della difesa.
Con l'eccezione di incompetenza territoriale, tempestivamente formulata ai sensi dell'art.21 comma 2 c.p.p. già nel corso dell'udienza preliminare e rigettata dal giudice (cfr. pag.43 trascrizione verbale di udienza 26 settembre 1995), si assume da parte della difesa che ai sensi degli artt.8 e 9 c.p.p. il procedimento spetta alla cognizione dell'A.G. di Roma.
E' noto che i reati associativi contestati all'imputato hanno natura permanente, di guisa che occorre fare riferimento, ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente, alla disciplina prevista dal comma 3 dell'art.8 c.p.p. secondo cui "se si tratta di reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione".
Ritiene la difesa che nel caso in esame, avuto riguardo alla condotta criminosa specificamente contestata all'imputato (cfr. decreto che dispone il giudizio), cioè la partecipazione "al mantenimento, al rafforzamento e all'espansione dell'associazione" denominata Cosa Nostra, mediante la "messa a disposizione" dell'"influenza" e del "potere" derivanti dalla sua posizione di vertice di una corrente politica, nonchè delle "relazioni intessute nel corso della sua attività", occorra a questa fare riferimento nella sua individualità, prescindendo, ai fini che qui interessano (competenza per territorio), dall'esistenza dell'associazione in quanto tale e dalla concreta commissione dei delitti programmati.
Si tratta, in altri termini, del reato di "partecipazione ad associazione per delinquere" il cui momento consumativo si realizza con l'apporto o contributo che il singolo offre all'associazione cui decide di aderire.
Avendo il Sen.Andreotti svolto la sua attività, politica e non, prevalentemente a Roma, ivi apportando dunque il proprio contributo al sodalizio criminoso, in detto luogo si radicherebbe la competenza a conoscere dei reati associativi contestati.
Alle medesime conclusioni ritiene di pervenire la difesa ove si ritenga che, risultato impossibile determinare la competenza per territorio con il criterio principale, già enunciato, di cui all'art.8 comma 3 c.p.p., si dovesse fare applicazione delle regole suppletive previste dal successivo art.9 secondo cui "è competente il giudice dell'ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione".
L'eccezione è infondata e, pertanto, va rigettata.
Osserva il Collegio che i reati associativi contestati nel presente giudizio sono previsti nel Titolo V del Libro II del codice penale dedicato ai "delitti contro l'ordine pubblico".
Ed è proprio nell'"ordine pubblico" che sia la dottrina che la giurisprudenza identificano l'oggetto giuridico del reato, rilevando che proprio l'esistenza di un'associazione diretta a commettere delitti suscita allarme nella popolazione e conseguentemente nuoce al regolare andamento del vivere sociale (per l'art.416 bis si ritiene concordemente che la norma presenti un ambito di tutela non limitato all'ordine pubblico ma esteso anche all'ordine economico ed al corretto funzionamento dell'ordine democratico e della pubblica amministrazione).
E' parimenti noto che i delitti associativi in esame sono reati di pericolo sul rilievo della irrilevanza, ai fini della configurabilità della fattispecie, dell'effettiva commissione dei delitti programmati, costituendo l'esistenza stessa dell'associazione un pericolo per l'ordine pubblico che la norma incriminatrice intende tutelare.
Nel momento in cui, quindi, diventa operante la struttura permanente, e conseguentemente sorge quel pericolo per l'ordine pubblico che giustifica l'incriminazione, si realizza quel minimum di mantenimento della situazione antigiuridica necessaria per la sussistenza del delitto.
Tanto premesso, deve rilevarsi come la competenza territoriale del giudice nell'ipotesi di reato associativo è stata individuata da una giurisprudenza pressocchè unanime con riferimento al luogo in cui, costituita un'organizzazione permanente frutto dell'accordo, anch'esso a carattere permanente, di intenti e di azione fra gli associati, la struttura destinata ad operare nel tempo sia divenuta concretamente operante, a nulla rilevando il sito di consumazione dei singoli delitti oggetto del "pactum sceleris" (Cass. Sez.I 1 dicembre 1994, c.c. 26 ottobre 1994 n.4761, Arrighetti; Cass. Sez.I 26 gennaio 1993, ud. 25 novembre 1992 n.945, ric. Taino ed altri; Cass. Sez.Unite 4 giugno 1992, ud. 4 febbraio 1992 n.1, Musumeci ed altri, in tema di delitto di banda armata; Cass. Sez.VI 11 aprile 1990 n.5349, ud. 16 dicembre 1989, Uccella; Cass. Sez.VI 7 ottobre 1987, ud. 5 aprile 1987, Giuffrida; Cass. Sez.VI 19 giugno 1987, dep. 8 ottobre 1987, ric. Achille; Cass. Sez.II 18 gennaio 1986, Tosi; Cass. Sez.I 22 febbraio 1982, Granuglia).
In applicazione dei suesposti principi, dunque, è indubbio che la competenza a conoscere dei reati associativi per cui si procede è dell'A.G. di Palermo, luogo nel quale il sodalizio mafioso è stato costituito ed è concretamente operante da diversi decenni.
A sostegno della propria eccezione la difesa ha citato due sentenze della Suprema Corte (Sez.I 7 agosto 1985 n.7462, ud. 22 aprile 1985, ric. Arslan; Sez. I 8 maggio 1986 n.1631, c.c. 7 aprile 1986, ric. Mavilla), secondo cui per determinare il momento perfezionativo, quello consumativo e quello rilevante ai fini della competenza per territorio dei reati di associazione, occorre fare riferimento non già alla posizione dell'associazione in quanto tale ed alle vicende concernenti la sua esistenza, ma alla posizione del singolo, sia pure in relazione all'associazione e nell'ambito ovviamente della specifica ipotesi di reato a lui contestata. A tale conclusione la Corte perviene osservando che "il nostro sistema non prevede, infatti, "reati dell'associazione" (detti anche "reati associativi"), ma una serie di "reati di associazione", con i quali, pur mirando a colpire nella loro esistenza quelle associazioni che sono ritenute incompatibili con l'ordinamento, colpisce i singoli per il fatto della loro partecipazione".
Con specifico riferimento, pertanto, al fatto della mera partecipazione, tenuto distinto dai fatti di promozione e di costituzione ed organizzazione, si è ritenuto che, mentre "il momento consumativo - che è quello in cui cessa la condotta volontaria di mantenimento del reato già perfetto nei suoi elementi costitutivi - è segnato, per ciascun soggetto, dal suo recesso, per le più svariate cause, dall'associazione, quello perfezionativo e quello rilevante ai fini della determinazione della competenza per territorio vanno partitamente individuati in relazione alle singole fattispecie in cui ciascun autonomo titolo di reato si risolve".
Ma osserva il Collegio che proprio con la sentenza n.7462 del 1985, dopo le premesse come sopra illustrate, la Suprema Corte è passata ad affrontare specificamente il problema della individuazione del momento perfezionativo e del luogo di inizio della consumazione di un delitto concernente condotte di partecipazione ad una associazione per delinquere successive alla costituzione del sodalizio, e dunque condotte assolutamente identiche a quelle oggi oggetto di contestazione nei confronti dell'odierno imputato la cui adesione a Cosa Nostra, nelle forme e con le modalità già precisate, indubbiamente si colloca temporalmente in epoca comunque successiva alla costituzione, risalente nel tempo, dell'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra.
Orbene, proprio con riferimento a tale fattispecie (condotta di partecipazione ad una associazione per delinquere successiva alla costituzione del sodalizio), la Suprema Corte con la menzionata sentenza ha ritenuto di affermare che, ai fini della determinazione del luogo di inizio della consumazione del delitto e dunque del momento perfezionativo del delitto in esame, "non assume alcuna rilevanza nè il momento o il luogo in cui la volontà del singolo si è legata al fatto associativo, nè ovviamente il momento ed il luogo di costituzione dell'associazione, occorrendo invece fare riferimento al momento ed al luogo di estesa operatività della struttura permanente determinata dal nuovo apporto, i quali segnano l'insorgere di quel pericolo in cui si sostanzia la "ratio" della singola disposizione".
E tale principio, ribadito, negli stessi identici termini, con altra sentenza della Suprema Corte (Cass. Sez.VI 8 maggio 1989, dep. 11 aprile 1990, Aubert), nel suo riferimento al criterio oggettivo della estesa operatività della struttura permanente determinata dal nuovo apporto, trova la sua ragion d'essere proprio nella "ratio" della norma incriminatrice che, come si è visto in premessa, mira alla tutela dell'ordine pubblico esposto a pericolo dalla esistenza, in un determinato luogo, di un'associazione a carattere permanente la cui operatività criminosa risulti rafforzata dal contributo offerto dal nuovo partecipante.
Orbene, non può revocarsi in dubbio che il luogo di "estesa operatività della struttura permanente", cioè dell'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra, anche dopo il contributo asseritamente apportato al sodalizio dall'odierno imputato, sia stato e resti Palermo, ove non soltanto l'associazione si è costituita, ha e continua ad avere, nella sua nota struttura rigidamente gerarchica, il suo organismo direttivo e decisionale, ma ha anche continuativamente e prevalentemente operato esprimendo il massimo di capacità criminale e dunque la maggiore pericolosità per l'ordine pubblico.
E' sufficiente, al riguardo, rammentare, trascurando di considerare le molteplici attività criminali proprie del sodalizio mafioso di che trattasi (estorsioni, danneggiamenti, traffico di droga, etc.), la interminabile serie di gravissimi delitti consumati a Palermo e nella provincia, ai danni di esponenti delle Istituzioni, appartenenti alle forze dell'ordine o semplici cittadini, fino alle ultime stragi consumate nel 1992.
Se dunque il criterio cui fare riferimento per la determinazione della competenza territoriale in relazione ai reati associativi per cui si procede a carico dell'imputato è quello come sopra determinato dalla giurisprudenza di legittimità esaminata, non può che ribadirsi, per le ragioni esposte, che la competenza appartiene all'A.G. di Palermo, ove è individuabile il luogo di estesa operatività del sodalizio mafioso, e dove si è prodotto, secondo la prospettazione accusatoria, l'effetto rafforzativo e di consolidamento dell'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra determinato dall'adesione dell'odierno imputato.
I difensori dell'imputato hanno, poi, eccepito l'incompetenza per materia e funzionale del giudice dell'udienza preliminare e del Tribunale adito, dovendosi qualificare, secondo la prospettazione difensiva che si esamina, "ministeriali" i reati ascritti all'imputato Andreotti oggetto dell'odierno giudizio, con conseguente violazione dell'art. 6 comma II e 8 della legge costituzionale 16.1.1989 n.1, e dell'art. 1 legge 5 giugno 1989 n. 219 e dell'art. 4 c.p.p.-
E' stata, altresì, eccepita la nullità del decreto di citazione a giudizio per la dedotta incompetenza per materia e funzionale del giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Palermo che ha emesso detto provvedimento, questione questa evidentemente connessa a quella, logicamente antecedente, or ora riferita nella sua prospettazione di parte, della incompetenza per materia e funzionale del giudice adito. Chè, infatti, ove si dovesse pervenire all'accoglimento della eccezione in argomento il decreto che dispone il giudizio emesso da un giudice dell'udienza preliminare incompetente per materia e funzionalmente sarebbe certamente viziato, non già da inesistenza per carenza di giurisdizione, bensì da incompetenza funzionale, comunque produttiva di nullità assoluta ed insanabile.
In particolare, nel prospettare il profilo di incompetenza in questione, la difesa dell'imputato ha rilevato che, in tanto si verterebbe nella fattispecie sub iudice in tema di "reati ministeriali", in quanto le condotte, contestate all'imputato, nel decreto che dispone il giudizio, a titolo di associazione per delinquere semplice e di tipo mafioso, sarebbero tutte funzionalmente connesse appunto all'esercizio delle sue funzioni ministeriali, pressocchè ininterrottamente esercitate nei periodi di riferimento dal Sen. Andreotti.
Competente a conoscerne sarebbe, quindi, il Collegio per i reati ministeriali previsto dall'art. 7 legge cost. 16.1.1989 n.1, organo specializzato della giurisdizione ordinaria dotato di specifica competenza funzionale in relazione alla peculiare qualificazione dei reati attribuiti alla sua cognizione, il quale esercita, riguardo a detti reati, tanto le funzioni proprie del Pubblico Ministero, quanto quelle del G.I.P, con la conseguenza che, ove dette ultime funzioni siano state, invece, esercitate dal G.I.P., ogni provvedimento da quest'ultimo adottato - l'unico, nel caso che ci occupa è il decreto che dispone il giudizio - sarebbe viziato dalla menzionata causa di nullità.
Prima di affrontare la complessa questione della dedotta natura "ministeriale" dei reati oggetto di accertamento nell'odierno procedimento, va preliminarmente chiarita l'esatta accezione del termine "reato ministeriale", nel senso che ad esso è attribuito dall'art. 96 (come sostituito dalla legge costituzionale 16.1.1989 n. 1) della Costituzione.
La ratio legis della legge costituzionale n.1 del 1989 istitutiva della speciale competenza per i reati indicati dall'art. 96 Cost., comportando una deviazione dalle ordinarie regole di competenza, deve essere interpretata nel senso "restrittivo" che si desume dalla lettura testuale della norma. e, dunque, in tanto si potrà parlare di reato ministeriale in quanto esso sia stato commesso nell'ambito di attività connesse ai compiti attribuiti dalla legge al ministro, non essendo sufficiente la mera contestualità cronologica fra il fatto addebitato e la funzione ministeriale.
L'orientamento giurisprudenziale che in proposito si è andato, infatti, consolidando, ed al quale il Collegio ritiene di dover aderire, enuclea la nozione di "reato ministeriale" qualificando tale il fatto reato commesso "nell'ambito di atti e provvedimenti posti in essere nell'espletamento di compiti attribuiti dalla legge al ministro" (Cass. 6 agosto 1992, Ferlin).
E, più precisamente, l'espressione letterale "reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni" con la quale in detta norma (art. 96 Cost.) vengono definiti i reati commessi dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, non può che essere intesa nel senso della "riconoscibilità del rapporto di strumentale connessione previsto dal legislatore tutte le volte in cui l'atto o la condotta siano comunque riferibili alla competenza funzionale del soggetto; ragion per cui sarebbe arbitrario tanto identificare quel rapporto in un nesso di mera occasionalità con l'esercizio delle funzioni, quanto pretendere che esso sia arricchito di ulteriori elementi qualificanti, come l'abuso dei poteri o delle funzioni, ovvero la violazione dei doveri d'ufficio, non richiesti dalla legge, nè suggeriti da una corretta interpretazione".
Secondo l'orientamento della Suprema Corte in commento (espresso nella sentenza S.U. 20 luglio 1994, imp. De Lorenzo) "l'area dei <<reati ministeriali>> previsti dall'art. 96 Cost.., non è riducibile ai soli <<provvedimenti>> formali assunti da un ministro nell'ambito della sua competenza, posto che una tale limitazione oltre a non trovare giustificazione nel contenuto e nelle finalità dell'art. 96 Cost. (il quale si riferisce indifferentemente a tutte le ipotesi di reato previste dall'ordinamento molte delle quali realizzabili soltanto con atti diversi dalla deliberazione di un provvedimento formale), trascurerebbe un aspetto di decisiva rilevanza, e cioè che la attività funzionale di un ministro, nell'ambito del dicastero da lui rappresentato e diretto, non si esaurisce nell'adozione di provvedimenti, ma comprende una serie di interventi che si sviluppano secondo un iter procedimentale più o meno complesso, nel quale possono confluire contributi necessari o eventuali di altri organi o di altri uffici della stessa o di una diversa amministrazione".
Le Sezioni Unite, quindi, sgombrato il campo dal possibile equivoco circa i criteri individualizzanti il reato ministeriale che - hanno chiarito - ben può essere anche un reato associativo, hanno posto l'accento sulla necessità di utilizzare, quale criterio identificativo della natura ministeriale di un reato, soltanto quello della connessione del fatto reato, nel senso del suo "rapporto oggettivo e strumentale con l'esercizio delle funzioni" ministeriali.
Nella fattispecie all'esame della Corte i capi di imputazione contestati si riferivano esclusivamente a condotte poste in essere dall'imputato "nell'esercizio delle funzioni di Ministro della Sanità", e, come argomentato dai giudici di legittimità, "tutto il programma criminoso, così come ricostruito dall'accusa" s'identificava "nella sistematica realizzazione di illeciti profitti attraverso l'arbitraria utilizzazione delle funzioni e delle competenze del Ministro della Sanità e dei suoi collaboratori".
In tale prospettiva, ha precisato la Suprema Corte, "il nesso di mera occasionalità con l'esercizio delle funzioni non può essere equiparato ad un rapporto di oggettiva connessione".
In un caso similare a quello sub iudice, altri giudici di merito (ordinanza Tribunale di Venezia del 30 novembre 1994, imp. Bernini e De Michelis), rilevando "dalla lettura dei capi di imputazione" "l'insussistenza di qualsiasi collegamento funzionale con la qualifica di ministro dei trasporti..." hanno ritenuto di escludere la ministerialità dei reati in contestazione, affermando la propria competenza.
Si deve, poi, qui far riferimento, per completezza espositiva, alla fattispecie esaminata dalla Corte di Cassazione Sez. VI nella menzionata sentenza 6 agosto 1992, Ferlin, con la quale il S.C., sostanzialmente confermando l'impostazione dell'ordinanza del G.I.P. presso il Tribunale di Venezia, ha sottolineato la necessità di un'interpretazione restrittiva della nozione di reato ministeriale, escludendo che in quell'ipotesi i perpetrati abusi rientrassero nell'area dei reati ministeriali, non essendo sufficiente, a tal fine, la mera contestualità cronologica tra addebito e funzione ministeriale rivestita.
Orbene, nel caso che ci occupa, è di tutta evidenza come le condotte criminose partecipative ascritte all'imputato nelle due diverse fattispecie associative rubricate, non sono connotate da quel necessario rapporto di connessione oggettiva con l'esercizio delle sue funzioni ministeriali, non tanto e non soltanto per l'evidente dato desumibile dalla lettura testuale che di dette funzioni e della corrispondente carica istituzionale da lui rivestita non si fa riferimento nei citati capi di imputazione, ma anche perchè i fatti stessi in cui si concreta la condotta partecipativa inducono con certezza a tale negativa conclusione.
Si intende far riferimento al fatto che l'apporto dall'imputato fornito all'associazione per delinquere Cosa Nostra oggetto di verifica nell'odierno giudizio, è, nella contestazione contenuta nel decreto che dispone il giudizio, individuato in una serie di attività che sarebbero state da costui svolte a vantaggio dell'organizzazione criminale citata (seppure in taluni periodi, nel vasto arco di tempo in contestazione, cronologicamente coincidenti con l'assunzione da parte dell'Andreotti di incarichi di governo), facendo uso, o meglio abusando del potere e dell'influenza sulle varie istituzioni dello Stato connessi alla sua qualità di capo corrente della Democrazia Cristiana, e non già, come si sostiene, invece, dalla difesa, a quella di ministro.
In dettaglio, al capo A) del decreto che dispone il giudizio, detto apporto in cui si sostanzierebbe la "partecipazione" del Sen.Andreotti all'associazione per delinquere Cosa Nostra viene individuato nell'avere l'imputato "messo a disposizione" dell'associazione per delinquere in argomento "per la tutela degli interessi ed il raggiungimento degli scopi criminali della stessa", "partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed all'espansione dell'associazione medesima" "l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente di vertice di una corrente politica, nonchè delle relazioni intessute nel corso della sua attività".
Esemplificativamente, poi, detti apporti dell'imputato all'associazione criminale sono stati individuati:
- nella sua personale partecipazione ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra (segnatamente quelli svoltisi in Palermo ed in altra località della Sicilia nel 1979 e nel 1980) aventi ad oggetto, sempre secondo la contestazione, "condotte funzionali agli interessi dell'organizzazione";
- nell'aver intrattenuto, inoltre, rapporti continuativi con l'associazione per delinquere stessa per il tramite di altri soggetti alcuni dei quali in posizioni di rilevante influenza politica in Sicilia (l'On.le Salvo Lima e gli esattori Salvo Ignazio ed Antonino);
- nell'aver rafforzato la potenzialità criminale dell'organizzazione di che trattasi "in quanto tra l'altro, determinava nei capi di Cosa nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della disponibilità di esso Andreotti a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare, a vantaggio dell'associazione per delinquere, individui operanti in istituzioni giudiziarie ed in altri settori dello Stato.
- nell'aver partecipato personalmente "ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi dell'organizzazione (in particolare l'incontro svoltosi a Palermo con il latitante Salvatore Riina e con Salvo Lima ed Ignazio Salvo)";
- nell'aver rafforzato, altresì, in particolare "la capacità di intimidazione dell'organizzazione, fino al punto da ingenerare uno stato di condizionamento persino in vari collaboratori di giustizia; i quali difatti - pur dopo essersi dissociati da Cosa Nostra ed averne rivelato la struttura e le attività delittuose, ivi comprese quelle riferibili ai componenti della Commissione - si astenevano, tuttavia, a lungo dal riferire fatti e circostanze ( relativi anche a gravi omicidi quali ad esempio quelli di Pecorelli, Mattarella, Dalla Chiesa) concernenti rapporti tra Cosa nostra ed esponenti politici, tra i quali appunto esso Andreotti, per il timore - peraltro esplicitamente manifestato - di poter subire pericolose conseguenze".
In altri termini, dette condotte sarebbero state poste in essere dal Sen.Andreotti facendo uso, o meglio abusando, dell'influenza acquisita, negli ambienti politico istituzionali, nella sua qualità di capo corrente nazionale del partito della Democrazia Cristiana; capacità di influenza e di condizionamento di gran lunga superiore, anche perchè connessa alla continuità del ruolo svolto, rispetto a quella ad esempio esercitata da un ministro, dotato di competenze settoriali nell'ambito del suo dicastero e, per di più, di funzioni temporanee.
Ed è proprio nell'aspettativa dell'esercizio di tale potere di influenzare ogni settore del circuito istituzionale politico a vantaggio dell'organizzazione per delinquere Cosa Nostra, che si sono sostanziati, nell'ipotesi d'accusa che si esamina, l'"apporto", il "contributo", la "partecipazione" dell'imputato all'organizzazione criminale.
Alla stregua delle considerazioni che precedono deve, dunque, essere esclusa la natura ministeriale dei reati sub judice, e conseguentemente rigettarsi l'eccezione di incompetenza per materia e funzionale del Tribunale adito.
La difesa dell'imputato ha, infine, eccepito l'incompetenza del Tribunale di Palermo derivante da connessione del presente procedimento a carico del Sen.Andreotti con altro procedimento in corso di trattazione dinanzi l'A.G. di Perugia ove, con richiesta di rinvio a giudizio formulata dal Procuratore della Repubblica di Perugia in data 20 luglio 1995, è stata promossa l'azione penale nei confronti dell'imputato in ordine al delitto di omicidio pluriaggravato, in concorso con altri soggetti, in pregiudizio di Pecorelli Carmine, avvenuto in Roma il 20 marzo 1979.
Assume in particolare la difesa che, tenuto conto dell'identità di alcuni dei soggetti coimputati del Sen. Andreotti nel procedimento penale promosso dal Procuratore della Repubblica di Perugia, indicati o già definitivamente condannati come esponenti, anche di rilievo, di Cosa Nostra, e soprattutto delle causali che, secondo la prospettazione accusatoria, sarebbero alla base dell'omicidio del Pecorelli, sussisterebbe una evidente connessione tra il relativo procedimento penale e quello pendente per i reati associativi dinanzi questo Tribunale, ricorrendo le ipotesi previste dall'art.12 lettere b) e c) c.p.p. .
Rileva il Tribunale che l'eccezione proposta dalla difesa deve ritenersi inammissibile.
L'art. 21 comma 3 c.p.p. stabilisce che "l'incompetenza derivante da connessione è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro i termini previsti dal comma 2", che testualmente recita, a proposito della incompetenza territoriale, che essa "è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall'art.491 comma 1", cioè subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti.
A differenza dunque della incompetenza per materia che, ai sensi del comma 1 della menzionata disposizione, è rilevata, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo (pur con le eccezioni previste dal comma 3 della stessa norma e dall'art.23 comma 2 c.p.p.), la facoltà di eccepire l'incompetenza per territorio e quella derivante da connessione, e la rilevabilità ex officio, soggiacciono a rigide preclusioni che non consentono deroghe.
Se dunque, come nel caso in esame, vi è stata un'udienza preliminare e nessuna delle parti ha formulato l'eccezione di incompetenza derivante da connessione, le parti stesse devono ritenersi decadute dalla possibilità di proporre la questione al giudice del dibattimento che pertanto potrà valutare la fondatezza dell'eccezione ove soltanto la parte abbia già eccepito l'incompetenza, pur con esito negativo (ovvero, se è mancata la udienza preliminare, entro il termine previsto dall'art.491 comma 1 c.p.p.) .
Osserva al riguardo la relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale che "Consentendo dunque alle parti di riproporre l'eccezione già dedotta e respinta nell'udienza preliminare, si è introdotto il controllo sulle statuizioni del giudice dell'udienza preliminare da parte del giudice del dibattimento" (in Supplemento ordinario n.2 alla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.250 del 24/10/1988 pag.15).
Il giudice, a sua volta, può ex officio rilevare, entro il termine indicato, l'incompetenza per territorio o derivante da connessione, nella sola ipotesi in cui la parte abbia già formulato la relativa eccezione al giudice dell'udienza preliminare e questi l'abbia rigettata, senza che la parte stessa abbia provveduto a riproporre la questione.
La difesa ha cercato di superare lo sbarramento temporale imposto con evidenza dall'art.21 comma 3 c.p.p. sotto un duplice profilo:
L'art. 21 c.p.p., infatti, impone sia al giudice che alle parti, rispettivamente, di rilevare o eccepire l'incompetenza per territorio (e quella derivante da connessione cui il comma 3 estende la disciplina prevista dal comma 2), a pena di decadenza, entro il termine dell'udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine di cui all'art.491 ovvero "in limine litis".
Non può invero ritenersi, come assume la difesa, che la sanzione della decadenza sia prevista solo in relazione all'omessa deduzione della parte, prevedendo dunque la norma in esame un limite solo per le parti e non per il giudice.
Contro una siffatta interpretazione militano argomenti di carattere letterale e logico che univocamente la contrastano.
Sotto il primo profilo, quello letterale, deve osservarsi che, ove il legislatore avesse voluto collegare la decadenza esclusivamente all'eccezione di parte, avrebbe stabilito che "la incompetenza è rilevata, o eccepita a pena di decadenza, prima della conclusione...", mentre nel dettato legislativo l'interpunzione costituita dalla virgola è posta dopo la parola "eccepita" con l'effetto di estendere ad ambedue le ipotesi (di rilevabilità d'ufficio e di deduzione di parte) la medesima sanzione della decadenza.
Giova al riguardo rilevare, peraltro, che il legislatore ha usato per ben tre volte tale espressione e precisamente nei commi 2 e 3 dell'art.21, nonchè nel comma 2 dell'art.23.
Sul piano strettamente logico deve, poi, osservarsi come la previsione di un limite temporale sia per il giudice che per le parti trova la sua giustificazione nell'esigenza di garantire la celerità dei procedimenti che resterebbe frustrata se fosse consentito anche al giudice del dibattimento di rilevare l'incompetenza per territorio o quella derivante da connessione.
Si legge infatti nella relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale (in Supplemento ordinario n.2 alla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.250 del 24/10/1988 pag.15) che "l'esigenza che ispira la normativa è quella di anticipare, per quanto possibile, la definizione delle questioni sulla competenza onde evitare che l'iter processuale, deviato attraverso strade collaterali, si discosti dal fatto principale dell'accertamento dei fatti".
Nella medesima relazione (pag.15) si legge anche che "per l'incompetenza per territorio e per l'incompetenza derivante da connessione si è stabilito per ragioni di celerità che l'omessa deduzione << prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall'art.485 >> (oggi art.491) determina la perpetuatio jurisditionis del giudice adito".
E' importante sottolineare che nel progetto preliminare del codice di procedura penale era previsto all'art.21 c.p.p. che l'incompetenza per territorio (comma 2) e quella per connessione (comma 3) potevano essere eccepite solo dalla parte.
In sede di approvazione del progetto definitivo (cfr. relazione al testo definitivo, pag.168) si è poi ritenuto di modificare i suddetti commi 2 e 3 dell'art.21 stabilendo, in accoglimento dei suggerimenti proposti dalla Commissione Parlamentare, che anche il giudice può rilevare d'ufficio l'incompetenza territoriale e quella per connessione, comunque "entro i termini previsti dal comma 2".
Era dunque ben chiaro al legislatore che anche il potere d'ufficio del giudice di rilevare la propria incompetenza nelle due ipotesi indicate (per territorio e per connessione) doveva sottostare alla preclusione prevista dal comma 2 dell'art.21 c.p.p..
Nè tale conclusione può ritenersi confutata dal contenuto dell'art.23 c.p.p. come ha sostenuto sostanzialmente la difesa.
L' interpretazione della suddetta disposizione nel senso di ritenere che in essa si sancirebbe il principio secondo cui il giudice del dibattimento è facultato a rilevare la propria incompetenza per territorio o derivante da connessione a prescindere da quanto avvenuto nella fase processuale precedente, e quindi anche dopo il decorso del termine stabilito dall'art.491 c.p.p., risulterebbe in insanabile contrasto con quanto stabilito sia dall'art.21 c.p.p., sia dall'art.491 c.p.p. che pone un limite ben determinato entro il quale deve essere trattata la questione di competenza.
E che tale limite sia invalicabile è confermato dal fatto che proprio l'art.491 c.p.p., al comma 2, stabilisce che, mentre le altre questioni preliminari (attinenti al contenuto del fascicolo per il dibattimento o la riunione e separazione dei giudizi) debbono essere proposte entro lo stesso termine "salvo che la possibilità di proporle sorga nel corso del dibattimento", tale facoltà non è invece prevista per le questioni concernenti la competenza per territorio o per connessione che, pertanto, sono assolutamente precluse se non proposte subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti, ancorchè, per ipotesi, la possibilità di proporle sia sorta soltanto nel corso del dibattimento.
Giova altresì rilevare che la stessa Corte Costituzionale, con l'ordinanza n.521 del 30 dicembre 1991, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art.21 c.p.p. in riferimento all'art.25 Cost., ha avuto modo di affermare che appartiene alla discrezionalità del legislatore la possibilità di limitare la rilevabilità dei vizi della competenza territoriale (e dunque anche della competenza derivante per connessione stante l'identità di disciplina) a vantaggio dell'interesse all'ordine ed alla speditezza del processo.
Con sentenza successiva n.280 del 23 giugno - 6 luglio 1994, poi, la Corte Costituzionale è tornata sull'argomento dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt.549 e 21 terzo comma c.p.p. sollevata in riferimento agli artt.3, 24, secondo comma, e 25, primo comma, della Costituzione dal Pretore di Trento - Sezione distaccata di Cles (in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana I Serie Speciale n.32 del 3 agosto 1994 pag.15).
Ha tra l'altro osservato la Corte (pag.17) che "nel dettare l'art.491, primo comma, del codice di procedura penale (cui, come si è detto, l'impugnato art.21 fa rinvio in ordine al termine per rilevare o eccepire - quando manca l'udienza preliminare e quindi, tra l'altro, nel processo pretorile - l'incompetenza per territorio o quella derivante da connessione), il legislatore, modificando la regola di cui all'art.439, secondo comma, del codice previgente, ha inteso stabilire un preciso sbarramento alla deducibilità delle eccezioni in esame, anche nel caso in cui la possibilità di proporle sorga solo nel corso del dibattimento. Ciò emerge chiaramente dal raffronto con il secondo comma dello stesso art.491 (che introduce, invece, per le sole questioni in esso previste, una clausola di salvezza in tal senso), sia dal rilievo che la formulazione contenuta nel progetto preliminare - << sono proposte a pena di decadenza >> - venne sostituita nel progetto definitivo con l'attuale - << sono precluse >> - proprio al fine di chiarire che la norma si riferisce anche ai casi in cui la facoltà di proporre l'eccezione non sia ancora sorta allo spirare del termine, ipotesi per la quale si ritenne improprio il riferimento all'istituto della decadenza (cfr. sul punto le osservazioni governative al progetto definitivo)".
Proprio alla luce di tali considerazioni dunque la Corte Costituzionale ha precisato che "da ciò deriva - e tale interpretazione è confermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione - che al superamento della fase dell'accertamento della costituzione delle parti il legislatore ha inteso far conseguire l'effetto della perpetuatio jurisditionis del giudice procedente".
Ed ha concluso affermando la legittimità della norma censurata sul rilievo che "la ratio della regola di competenza che scaturisce dalla normativa impugnata va rinvenuta in evidenti esigenze di economia e speditezza processuali, le quali subirebbero una notevole compromissione nel caso in cui, fermo rimanendo il simultaneus processus per i reati connessi, l'intero processo dovesse essere devoluto - con conseguente necessaria rinnovazione del dibattimento - ad altro giudice".
Tale principio è stato poi ribadito dalla Corte Costituzionale con la recente ordinanza n.130 del 5-14 aprile 1995 (in Gazzetta Ufficiale, I Serie Speciale, n.16 del 19 aprile 1995) con la quale si è affermato che "l'imposizione di una disciplina particolarmente rigorosa per la proposizione dell'eccezione d'incompetenza territoriale corrisponde alla richiamata peculiare natura di tale competenza, per cui il legislatore può legittimamente ritenere, nella sua discrezionalità, di limitare la possibilità di rilevare i vizi a vantaggio dell'interesse all'ordine ed alla speditezza del processo".
L'esistenza del limite temporale anche in relazione alla rilevabilità ex officio è peraltro confermata, come si è detto, dalla prevalente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione secondo cui "la competenza territoriale va verificata, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare e, solo ove questa non sia stata tenuta, entro il termine previsto dal primo comma dell'art.491" (Cass. Sez.I 14 febbraio 1994, ud.8 novembre 1993 n.1603; nel caso in esame l'incompetenza per territorio era emersa in sede di incidente probatorio effettuato dopo l'udienza preliminare e la Corte ha escluso che essa fosse rilevabile in sede di atti introduttivi al dibattimento; cfr. anche Cass. Sez.I 5 giugno 1992, c.c. 12 maggio 1992 n.2103, ric. Carnio; Cass. Sez. I 18 marzo 1992, c.c. 26 febbraio 1992 n.915, confl. comp. in proc. Santarello).
E' stato dunque più volte ribadito che "ai sensi del combinato disposto degli artt.21 comma secondo, e 491, comma primo, cod. proc. pen., le questioni concernenti la competenza per territorio sono precluse e non possono, quindi, essere più rilevate, neppure d'ufficio, oltre il termine correlato all'avvenuto compimento, per la prima volta, delle operazioni di accertamento della costituzione delle parti, neppure nel caso in cui la possibilità di proporle o rilevarle sorga soltanto nel corso del dibattimento". (Cass. Sez.I sent. n.2492 del 5 novembre 1993, c.c. 24 maggio 1993 n.2492, confl. compet. in proc. Caruso; in motivazione la Corte ha anche osservato che non è invocabile, in contrario, il disposto di cui all'art.23 c.p.p. - in base al quale "se nel dibattimento di primo grado il giudice ritiene che il processo appartiene alla competenza di altro giudice, dichiara con sentenza la propria incompetenza per qualsiasi causa e ordina la trasmissione degli atti al giudice competente" - giacchè tale norma presuppone che la questione concernente la competenza per territorio sia ancora aperta; cfr. anche Cass. Sez.V 2 novembre 1993, ud. 20 ottobre 1993 n.1500, ric. Bergarani ed altro; Cass. Sez. I 12 settembre 1992, c.c. 3 luglio 1992 n.3217, confl. comp. in proc. Marziale; Cass. Sez.I 5 giugno 1992, c.c. 12 maggio 1992 n.2103, confl. comp. in proc. Gaeta; Cass. Sez.I 12 maggio 1992, c.c. 9 aprile 1992 n.1541, confl. comp. in proc.Bumbaca).
Ed ancora : "L'art.21 c.p.p. prevede che l'incompetenza per materia può essere rilevata anche di ufficio in ogni stato e grado del processo. Peraltro alla regola dell'indiscriminata rilevabilità il legislatore ha posto due eccezioni: l'ipotesi in cui l'incompetenza sia determinata dalla connessione e quella prevista dal secondo comma dell'art.23 c.p.p. in cui il reato appartiene alla cognizione di un giudice di competenza inferiore (cosiddetta incompetenza per eccesso o per ipercapacità). In tale eventualità, l'incompetenza deve essere rilevata o eccepita entro il termine di cui all'art.491, primo comma, stesso codice e cioè subito dopo compiuti per la prima volta gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti" (Cass. Sez.I sent. n.366 del 22 marzo 1995, c.c. 24 gennaio 1995, in proc. Selvallegra ed altro; Cass. Sez.VI 22 dicembre 1994, ud. 17 ottobre 1994 n.1823, ric. Armanini; Cass. Sez.I 19 maggio 1992, c.c. 26 marzo 1992 n.1351, in proc.Guizzo).
Proprio in conformità al suesposto orientamento giurisprudenziale, peraltro assolutamente prevalente, della Suprema Corte, ritiene il Collegio di non potere aderire all'interpretazione dell'art.23 comma 1 c.p.p. che viene operata, nel senso favorevole all'assunto della difesa, dall'isolata pronuncia, menzionata nel corso della esposizione difensiva, della Corte di Cassazione Sez.I del 27 luglio 1992, c.c. 11 giugno 1992 n.2780, ric. Giannuscio.
Ne consegue quindi che la difesa dell'imputato, non avendo eccepito l'incompetenza nel termine di cui all'art.21 commi 2 e 3 c.p.p., non può nè proporre l'eccezione, essendo decaduta da essa, nè stimolare il potere del Collegio di rilevare la propria incompetenza derivante da connessione in quanto, essendosi ormai verificata la "perpetuatio jurisditionis", difetta al giudice del dibattimento il relativo potere.
Non risulta fondato neppure il secondo profilo dedotto dalla difesa, relativo alla impossibilità di eccepire l'incompetenza derivante da connessione in sede di udienza preliminare, sul rilievo che gli elementi per rilevare la connessione tra il procedimento pendente dinanzi all'A.G. di Perugia e quello in corso a Palermo erano divenuti noti nella loro completezza soltanto con il deposito da parte del Procuratore della Repubblica di Perugia della richiesta di rinvio a giudizio a carico del Sen.Andreotti, deposito avvenuto il 20 luglio 1995 e dunque in epoca successiva alla conclusione dell'udienza preliminare relativa al presente processo.
Si osserva al riguardo che la connessione, disciplinata dagli artt.12 e ss. c.p.p., è istituto che, come si evince dalla stessa rubrica e dal testo degli articoli che la prevedono, spiega i suoi effetti tra procedimenti, con ciò il legislatore avendo voluto riferirsi, per la operatività delle norme, già alla fase processuale delle indagini preliminari.
E' noto invero che il legislatore ha utilizzato il termine "procedimento" con riferimento alla fase che precede il promuovimento dell'azione penale, riservando l'uso del termine "processo" alla fase in cui l'azione penale sia stata già esercitata.
Nè è prova il fatto che, subito dopo la Sezione IV del Capo II del c.p.p., che contiene le norme sulla competenza per connessione, il Capo III, contenente la disciplina relativa agli istituti processuali della riunione e separazione, fa esplicito riferimento, come del resto tutte le disposizioni ivi contenute (artt.17-19), ai "processi".
La stessa relazione al testo definitivo del codice di procedura penale dà atto, nel sostituire, in sede di passaggio al testo definitivo, nell'intitolazione del Capo III, nonchè nella rubrica e nel testo degli artt.17,18 e 19, la parola "processo" alla parola "procedimento" che "una riunione o una separazione in senso tecnico non possa essere disposta nel corso delle indagini preliminari occorrendo, al riguardo, che l'azione penale sia stata esercitata" (pag.167 Relazione al testo definitivo).
Proprio tale momento segna, dunque, il passaggio dal "procedimento" al "processo".
Tale premessa appare necessaria per evidenziare come l'istituto della connessione sia operante sin dalla fase della pendenza dei procedimenti nel corso delle indagini preliminari.
Nel caso in esame, dunque, incombeva alla parte eccepire l'incompetenza derivante da connessione dinanzi al giudice dell'udienza preliminare (art.21 commi 2 e 3 c.p.p.).
Sulla base dell'atto che il Tribunale ha ritenuto di dovere necessariamente acquisire, con ordinanza emessa in data odierna, ai limitati fini della decisione sulla eccezione formulata dalla difesa, e specificamente con riferimento al profilo in esame, emerge, invero, che già in data 8 giugno 1993 la Procura della Repubblica di Roma aveva presentato richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del Sen.Andreotti in relazione all'omicidio di Pecorelli Carmine, richiesta con la quale, secondo quanto previsto dall'art.111 D.Lgs. 28 luglio 1989 n.271 (norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), il pubblico ministero "enuncia il fatto per il quale intende procedere, indicando le norme di legge che si assumono violate, e fornisce all'autorità competente gli elementi sui quali la richiesta si fonda".
Si consideri poi che, alla data dell'inoltro della richiesta di autorizzazione a procedere da parte della Procura della Repubblica di Roma, il Sen.Andreotti era già indagato per il delitto di che trattasi in quanto, come si evince dalla lettura del suddetto atto (pag.1), in data 14 aprile 1993 il suo nominativo era stato iscritto nel registro delle notizie di reato.
La pendenza del procedimento prescinde dall'esercizio successivo dell'azione penale e di conseguenza, con specifico riferimento al contenuto dell'art.12 c.p.p., cioè ai fini della operatività dell'istituto della connessione, sin dal momento della iscrizione della notizia di reato nel registro scatta la disciplina della competenza determinata dalla connessione ex artt.15 e 16 c.p.p. (Cfr. Cass. Sez.I sent. n.4575 del 14 gennaio 1993, c.c. 6 novembre 1992, confl. comp. in proc. Gonzaga).
Alla data di presentazione della richiesta di autorizzazione a procedere (8 giugno 1993), dunque, pendeva già il procedimento penale a carico del Sen.Andreotti, indagato per l'omicidio Pecorelli.
Deve altresì rilevarsi come già dalla lettura della suddetta richiesta di autorizzazione a procedere (contenente, come si è detto, ex art.111 D.Lgs. 28 luglio 1989 n.271, gli elementi sui quali la richiesta si fonda) emergevano elementi idonei e sufficienti per ipotizzare una connessione tra quel procedimento e l'altro già pendente dinanzi l'A.G. di Palermo per i reati associativi.
E' sufficiente al riguardo rilevare come lo stesso esame dell'ipotesi di reato formulata dal P.M. di Roma in sede di richiesta di autorizzazione a procedere, già evidenziava, secondo la prospettazione accusatoria, un concorso nella deliberazione dell'omicidio di Pecorelli Carmine, tra il Sen.Andreotti e, tra gli altri, alcuni tra i più importanti ed autorevoli esponenti della commissione di Cosa Nostra dell'epoca, quali Stefano Bontate (successivamente deceduto) e Calò Giuseppe, nonchè Salvo Ignazio e Salvo Antonino, indicati come uomini d'onore (anch'essi successivamente deceduti), e Gaetano Badalamenti.
Risulta altresì dalla lettura della richiesta di autorizzazione a procedere (pagg.76, 83 e ss.) che il Sen.Andreotti, già in data 25 maggio 1993, avendone fatto richiesta, era stato interrogato dal P.M. di Roma ex art.343, comma 2, ultima parte, c.p.p., negando radicalmente l'addebito (pag.83).
A ciò si aggiunga che, in epoca successiva all'interrogatorio, e precisamente il 2 giugno 1993 il difensore dell'indagato, Avv.Coppi, aveva depositato una memoria scritta (pag.87 della richiesta di autorizzazione).
A prescindere dunque dalla configurabilità o meno delle ipotesi di connessione tra i due procedimenti prefigurate dalla difesa ai sensi dell'art.12 lett.a) e b) c.p.p., quel che preme qui sottolineare è che la difesa stessa era dunque in condizione, sotto il profilo sostanziale, avendo avuto conoscenza sia del contenuto della richiesta di autorizzazione a procedere, sia della pendenza del procedimento a carico del Sen.Andreotti, peraltro già interrogato dall'A.G. procedente, di potere eccepire, tempestivamente, cioè nel termine previsto dall'art.21 commi 2 e 3 c.p.p., l'incompetenza derivante da connessione investendo il giudice dell'udienza preliminare della relativa questione.
Anche sotto tale profilo, dunque, l'eccezione proposta va dichiarata inammissibile.
visti gli artt.8, 12, 15, 16, 21, 23, 187, 491 c.p.p.; 111 disp. att. c.p.p.; 6 e ss. legge costituzionale 16 gennaio 1989 n.1; 1 e ss. legge 5 giugno 1989 n.219;
rigetta le eccezioni di incompetenza per territorio, per materia e funzionale;
dichiara inammissibile l'eccezione di incompetenza derivante da connessione.
Dispone la restituzione alle parti degli atti acquisiti, ai limitati fini della decisione sulle eccezioni dedotte, con ordinanze del 26 settembre e del 6 ottobre 1995, per l'inserimento nel fascicolo del P.M..
Palermo 6 ottobre 1995