Pagina 599 PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TIZIANA PARENTI INDICE Pag. Audizione del dottor Gianni De Gennaro, direttore generale della Criminalpol, e del generale Francesco Valentini, direttore del Servizio centrale di protezione: Parenti Tiziana, Presidente .................... 601, 604 605, 607, 610, 611, 612, 621, 622 623, 625, 626, 627, 630, 631, 632 Arlacchi Giuseppe ......................... 605, 606, 626 Bertoni Raffaele ................ 610, 623, 628, 630, 632 Bonsanti Alessandra ............. 605, 622, 628, 630, 631 De Gennaro Gianni, Direttore generale della Criminalpol ................................. 601, 605, 607 609, 610, 611, 617, 621, 623 625, 626, 627, 628, 630, 631 Di Bella Saverio ........... 614, 615, 620, 625, 626, 631 Caccavale Michele .............................. 604, 605 Campus Gianvittorio .................. 611, 615, 621, 622 Garra Giacomo .................................. 611, 627 Grasso Tano ..................... 608, 611, 612, 614, 627 Meduri Renato .............. 610, 611, 612, 622, 623, 627 Pasetto Nicola ................................. 618, 619 Ramponi Luigi .................................. 611, 626 Scopelliti Francesca ............ 612, 615, 627, 628, 630 Scozzari Giuseppe ............... 608, 609, 610, 611, 622 Simeone Alberto ........................... 625, 626, 629 Tripodi Girolamo ............................... 612, 613 Valentini Francesco, Direttore del Servizio centrale di protezione .................................. 604, 607, 611 612, 613, 614, 619, 620, 621, 626, 630, 631 Pagina 600 Pagina 601 La seduta comincia alle 20,35. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente). Audizione del dottor Gianni De Gennaro, direttore generale della Criminalpol, e del generale Francesco Valentini, direttore del Servizio centrale di protezione. PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Gianni De Gennaro, direttore generale della Criminalpol, e del generale Francesco Valentini, direttore del Servizio centrale di protezione. Ricordo che in data 27 ottobre è stata inviata una lettera al ministro dell'interno avente ad oggetto taluni quesiti sui quali riferiranno questa sera in termini generali i nostri ospiti e rispetto ai quali una risposta più dettagliata ci sarà fornita dal Ministero. Il contenuto della lettera, che sarà quindi l'argomento delle audizioni odierne, attiene alle evoluzioni nel tempo del fenomeno delle collaborazioni e dei relativi sistemi di protezione. In particolare si chiede quali organi abbiano provveduto in passato e quali provvedano oggi alla protezione dei collaboratori, con riferimento a tutti gli aspetti della protezione; quale sistema di protezione sia oggi in atto, con riferimento ai problemi relativi al reperimento e cambiamento di alloggi, all'assistenza ai familiari e all'occupazione lavorativa. Si chiede inoltre se siano intervenuti, e con riferimento a quale tipologia di circostanze, casi di spostamento di sede e di trasferimento di collaboratori di giustizia. Nella lettera si pongono poi domande circa l'adeguatezza delle strutture di cui dispone oggi il Servizio centrale di protezione, anche per quanto concerne il numero di persone assegnate, l'onere economico relativo alla gestione dei collaboratori e dei loro famigliari, unitamente ai criteri di assegnazione dei contributi mensili. Si chiede, inoltre, se esistano casi di revoca dei programmi di protezione e quali siano state le motivazioni alla base di tali revoche; quale sia il numero dei collaboratori che hanno attuato forme di protesta e se si può indicare (magari non in seduta pubblica) quali siano i collaboratori che maggiormente abbiano manifestato insoddisfazione nei confronti del sistema di protezione (mi riferisco, per esempio, alla protesta che vi è stata nel processo di Padova). Chiedo ai nostri ospiti se possano precisare anche questo aspetto, oltre ad indicare quali siano i motivi di tali proteste e i provvedimenti assunti (come nel caso, appunto, della protesta che vi è stata a Padova) o che si intendano assumere a tale proposito. Do subito la parola al dottor De Gennaro. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Signor presidente, mi consenta di ringraziare la Commissione da lei presieduta per questa ulteriore opportunità che viene offerta a noi tecnici del dipartimento della pubblica sicurezza di fornire contributi di conoscenza su una tematica molto delicata. Come ella ha detto, signor presidente, la Commissione antimafia ha rivolto al ministro dell'interno la serie di quesiti da lei illustrati, sui quali è in corso di elaborazione una dettagliata risposta, che perverrà attraverso il Gabinetto del ministro, a cui il mio ufficio e il Servizio centrale di protezione in esso Pagina 602 inquadrato stanno offrendo tutti i contributi possibili perché tale risposta possa essere la più esauriente possibile. Mi consenta, signor presidente, di anticipare, almeno in parte, nella mia breve relazione, alcuni dei temi che formano oggetto della richiesta della Commissione. Naturalmente sia il generale Valentini sia il sottoscritto saremo a completa disposizione per eventuali ulteriori risposte che si renderanno necessarie laddove non fosse stato risposto in modo esauriente a specifiche richieste. Vorrei innanzitutto fornire un contributo conoscitivo per consentire anche la verifica dell'attuale funzionalità del sistema di protezione dei collaboratori di giustizia, cercando di prospettare e delineare le linee di un intervento attuato secondo le direttive impartite dal ministro e dagli altri organi istituzionali ai fini dell'adeguamento della struttura attuale e dell'attuale normativa a quelle esigenze di sicurezza che fossero o risultassero allo stato ancora non completamente soddisfatte. La normativa che disciplina le misure di protezione a favore dei collaboratori della giustizia - lo sottolineo anche per rispondere alla domanda sull'evoluzione nel tempo del fenomeno delle collaborazioni e dei sistemi di protezione - risale a circa quattro anni fa: è stato il decreto-legge n. 8 del 15 gennaio 1991, poi convertito con la legge n. 82 del 15 marzo 1991, a tentare di fornire una risposta soddisfacente alle istanze di sicurezza a favore dei collaboratori che provenivano sia dalla magistratura inquirente, che si trovava ad affrontare questo nuovo fenomeno nella fase dell'istruzione dei processi, sia da parte delle forze dell'ordine, sia dagli stessi collaboratori che via via offrivano il loro contributo alla magistratura. Prima del 1991 la materia, dato il sorgere di queste esigenze, era stata in parte presa in considerazione dal legislatore del 1988. Credo che la normativa adottata nel 1988 rientrasse però in una logica sostanzialmente emergenziale, perché la legge n. 486 aveva attribuito all'ufficio dell'alto commissario il potere di adottare direttamente, o far adottare dagli uffici competenti, misure che fossero idonee per assicurare l'incolumità di soggetti esposti a grave pericolo in ragione della loro collaborazione nella lotta alla mafia. La legislazione del 1991, invece, si muove in una prospettiva più ampia ed estende la sfera di applicazione della norma sia da un punto di vista oggettivo, poiché fa riferimento a tutte le ipotesi di collaborazione in ordine ai delitti previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale, ampliando quindi la precedente dizione "Collaborazione alla lotta contro la mafia", sia da un punto di vista soggettivo, poiché non fa più riferimento soltanto al singolo collaboratore ma anche "ai prossimi congiunti, ai conviventi, a coloro che sono esposti a grave ed attuale pericolo a causa delle relazioni che intrattengono con il collaboratore di giustizia". Al di là di questa normativa primaria, nel contempo sono stati disciplinati anche aspetti procedimentali ulteriori ed è stato previsto, nell'ambito del dipartimento della pubblica sicurezza, e più precisamente della direzione centrale della polizia criminale, affidata adesso alla mia direzione, il Servizio centrale di protezione, che è stato incaricato dal legislatore di attuare uno speciale programma di protezione la cui definizione veniva dalla legge affidata alla commissione centrale di protezione, presieduta da un sottosegretario del Ministero dell'interno e composta da magistrati, funzionari di polizia, ufficiali dell'Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza. Oltre a definire il programma, la commissione stabilisce anche quali sono le misure di tutela e di assistenza in favore sia del collaboratore sia di quanti, in ragione della collaborazione offerta da un determinato soggetto, possono essere a loro volta esposti ad un attuale concreto pericolo per la propria incolumità. Il testo legislativo al quale ho fatto riferimento non ha potuto avvantaggiarsi di alcun tipo di esperienza precedente, né giuridica né operativa; ad ogni modo quel testo è riuscito a delineare un quadro normativo sintonico ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico. Pagina 603 La normativa secondaria, costituita dai due decreti ministeriali del novembre del 1991 e del gennaio del 1993, è stata, invece, improntata ad una disciplina di dettaglio di specifici profili attuativi. In questo caso la carenza di esperienza precedente ha pesato forse in modo maggiore sulla definizione della normativa secondaria. Oltre ad eventuali discrasie che potevano essere ascrivibili alla normativa di attuazione, se ne possono essere aggiunte altre in qualche modo riconducibili ad una non completa adeguatezza della struttura del Servizio centrale di protezione, soprattutto via via che le esigenze crescevano in modo particolarmente rapido. A questo proposito vorrei precisare, richiamando la vostra attenzione e per fornirvi elementi di conoscenza, che la struttura del Servizio centrale di protezione, creata appunto dal legislatore nel periodo che ho indicato, ha subito una prima difficoltà quando è stato sciolto l'ufficio dell'alto commissario, dal momento che in anticipo ha dovuto assorbire tutte le funzioni che erano svolte da quest'ultimo in tema di protezione dei testimoni. Questa struttura, infatti, ha dovuto far fronte all'improvviso, dal 1^ gennaio 1993 anziché a decorrere dal 1^ gennaio 1995 come previsto dal legislatore, ad una serie di oneri riferiti a tutti quei soggetti che erano tutelati dall'ufficio dell'alto commissario. Ho tenuto a sottolineare questo aspetto. Oltre a questo elemento, che forse ha creato un aggravio di lavoro ed una iniziale inadeguatezza del Servizio centrale di protezione, si può aggiungere anche il fatto che l'incisiva azione di contrasto al crimine organizzato svolta in questo periodo ha determinato una progressiva emorragia nei sodalizi criminosi, che hanno visto crescere il numero dei collaboratori in modo particolarmente rapido. La crescita del numero dei collaboratori e dei famigliari ha raggiunto nell'ultimo periodo una dimensione notevole; al riguardo potrei fornire qualche dato: al 1^ novembre 1993 le persone tutelate erano in tutto 2.192, di cui 545 collaboratori e 1.647 familiari; attualmente - cioè a distanza di un anno - i soggetti da tutelare sono 3.853, di cui 921 collaboratori e 2.932 famigliari. Pertanto l'incremento, nell'arco di un anno, è pari rispettivamente al 70 per cento per i collaboratori e al 78 per cento per i famigliari. Partendo da questa prospettiva, credo si possa comprendere come le difficoltà che sta affrontando il Servizio centrale di protezione in questa situazione, che definirei ancora emergenziale, siano notevoli; tuttavia, la struttura ha risposto senza particolari disfunzioni a quelle che erano le esigenze, secondo i meccanismi previsti dalla norma tutt'oggi esistente. Sulla base dell'esperienza svolta in questi tre anni è possibile completare l'opera di revisione e di affinamento degli strumenti sia giuridici, in termini di normativa regolamentare, sia tecnico-operativi. Nell'intento di valorizzare le opportunità offerte dalla legge e di perfezionare ulteriormente la disciplina regolamentare, sono state avviate da tempo delle iniziative, la cui elaborazione è giunta alla fase conclusiva, che dovranno fissare aggiornate modalità di attuazione della normativa relativa alla protezione dei collaboratori. Il raggiungimento di questo obiettivo, di brevissima scadenza, consentirà contemporaneamente di migliorare la tecnica di contrasto al crimine organizzato: si tratta, infatti, di un complesso di regole e di strumenti organizzativi tali da incentivare in prospettiva ulteriori collaborazioni. Nella direzione degli orientamenti ribaditi dal signor capo della polizia ed anche da me, quando ho avuto occasione di essere ascoltato, viaggiano le iniziative giunte alla fase conclusiva. I criteri basilari ai quali è ispirata l'azione migliorativa riguardano innanzitutto la specializzazione ed il decentramento delle strutture, le quali devono essere collocate nell'ambito di un intervento omogeneo sotto la direzione del Servizio centrale di protezione, come ha previsto il legislatore. Il Servizio centrale di protezione è in corso di potenziamento e ristrutturazione proprio perché, sulla base dell'esperienza Pagina 604 acquisita in questi anni di operatività quasi emergenziale, come mi sono permesso di dire, ha consolidato una notevole esperienza ai fini di una casistica su cui fondare la propria operatività futura. Nella disciplina in fase di emanazione verrà formalizzata la posizione di terzietà, rispetto agli investigatori, di chi è addetto alla protezione e all'assistenza dei collaboratori, affinché non vengano in alcun modo distolti dai loro compiti istituzionali di indagine gli organismi investigativi, soprattutto quelli specializzati. Questi, infatti, verrebbero ad essere depauperati in termini di risorse umane, con il rischio di indebolire l'azione di contrasto contro la criminalità mafiosa sotto il profilo investigativo. La normativa e l'organizzazione in via di approvazione saranno ispirate, o tenteranno di ispirarsi, al criterio che fonda l'efficacia del sistema di protezione sulla mimetizzazione delle persone tutelate nel contesto ambientale in cui le stesse sono state inserite. Come ha già avuto occasione di precisare in questa sede il signor capo della polizia, si rivelerebbe altrimenti estremamente oneroso e forse povero di risultati un apparato di protezione imperniato sulla tutela individuale di tutti coloro che usufruiscono del programma. Un sistema così strutturato imporrebbe - come del resto già impone - l'impiego di esorbitanti risorse umane e materiali e l'assunzione di costi sproporzionati rispetto ai benefici, rivelandosi in alcuni casi controproducente. Un enorme dispiegamento di uomini e di mezzi non è detto che garantisca l'assoluta tutela del collaboratore; per converso potrebbe rappresentare un potenziale indice di localizzazione della persona da proteggere, rendendo più elevato il rischio della circolazione di informazioni e notizie che, al contrario, devono rimanere riservate nell'interesse della protezione oltreché per evitare la localizzazione del collaboratore. Oltre che ad esigenze operative e di sicurezza, quali quelle esposte, un programma di protezione basato su questi principi si rivela funzionale all'obiettivo che deve essere insito in un programma di protezione di testimoni e di collaboratori, quello cioè del reinserimento nel tessuto economico e sociale di chi si ritiene possa aver pagato il suo debito nei confronti della collettività collaborando concretamente con l'autorità giudiziaria. Appare evidente che il collaboratore ed il nucleo familiare devono essere inseriti in un programma di protezione tale da rendere possibile lo svolgimento di una normale vita di relazione, così da sottrarli a forme di stress psichico ed a tentazioni di ritorni o reingressi nei circuiti criminali per l'incapacità di gestire la propria vita o la propria attività. In questa prospettiva bisognerà predisporre regole finalizzate a disciplinare e circoscrivere nel tempo le modalità e la misura della corresponsione economica alle persone protette. Ciò allo scopo di impedire il radicarsi di un sistema assistenziale di tipo pensionistico, il quale deve invece favorire solo nella fase di avvio il superamento del trauma dovuto allo sradicamento delle famiglie da un contesto ambientale e di lavoro in cui erano inserite, in virtù di un'esposizione a pericolo. Accolto il sistema di sicurezza ispirato ai canoni cui facevo cenno, e realizzato un impianto normativo - così come si sta facendo - coerentemente orientato, la conclusione consisterà nel rafforzamento dell'efficienza e della funzionalità dell'intero apparato di tutela. Signor presidente, mi fermerei a questo punto. Mi premeva fornire questo quadro di riferimento, fermo restando che sia io sia il generale Valentini siamo a disposizione per qualsiasi richiesta. Grazie. PRESIDENTE. Il generale Valentini vuole aggiungere qualcosa? FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. No, credo sia sufficiente l'esposizione del dottor De Gennaro. MICHELE CACCAVALE. Dottor De Gennaro, vorrei una precisazione. Lei ha parlato di mimetizzazione nel contesto Pagina 605 ambientale in cui sono inseriti i collaboratori di giustizia. Nel mio collegio, comprendente Anzio, Nettuno, Pomezia e Ardea, ma soprattutto nel comune di Nettuno e nella frazione di Lavinio risulta la presenza di diversi collaboratori di giustizia. Questo non risulta soltanto a me, ma anche a moltissimi miei concittadini, forse perché la ricerca degli appartamenti da locare è affidata ad agenzie immobiliari locali. Poiché credo che nessuna norma imponga la riservatezza a queste agenzie, forse la voce passa "di bocca in bocca", tanto che a Lavinio la sorella di un certo Messina, collaboratore di giustizia siciliano, viene indicata quando cammina per strada. GIUSEPPE ARLACCHI. Signor presidente, mi pare si ponga un problema di riservatezza. MICHELE CACCAVALE. Qual è il problema di riservatezza? Ho riferito un fatto palese. GIUSEPPE ARLACCHI. Chiedo che l'audizione prosegua in seduta segreta. PRESIDENTE. Si può evitare di fare i nomi. Ove fosse proprio necessario, si potrebbe disattivare il circuito audiovisivo interno. MICHELE CACCAVALE. Pago l'inesperienza nella partecipazione... ALESSANDRA BONSANTI. Si potrebbe anche fargli cambiare la città. MICHELE CACCAVALE. Ma lo sanno tutti e quindi lo sapranno pure le persone... Forse ho dato una indicazione utile; spero di aver dato un contributo utile. Mi riferisco ad un fatto notorio, ecco perché l'ho detto. PRESIDENTE. Onorevole Caccavale, prosegua. MICHELE CACCAVALE. Vorrei chiederle, dottor De Gennaro, che cosa intenda quando parla di mimetizzazione; se sia a conoscenza di questi fatti e come intendiate adoperarvi per evitare in futuro il ripetersi di tali episodi. PRESIDENTE. Dottor De Gennaro, vuole rispondere immediatamente? GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Sì, signor presidente. Chiedo di rispondere immediatamente perché mi rendo conto di essere stato estremamente infelice nella mia esposizione. Le chiedo scusa onorevole Caccavale se non sono stato puntuale ... MICHELE CACCAVALE. La mia non vuole essere una polemica. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. No, la ringrazio perché mi dà l'opportunità di integrare brevemente quanto intendevo riferire in precedenza e su cui forse non mi sono espresso bene. Intendevo parlare, così come ho fatto, del sistema di protezione che stiamo avviando sulla base delle direttrici e delle direttive fornite dal signor capo della polizia in questa sede, parlando dell'equazione segretezza uguale sicurezza. Si tratta di un cambiamento di indirizzo, per cui sono perfettamente cosciente dell'esistenza di talune discrasie come quelle da lei citate. Posso dirle che in provincia di Novara tutti sanno dove abita il testimone Galasso; è a casa sua, in un castello, circondato da agenti che gli fanno la guardia. Vive lì perché lo ha chiesto ma non so - chiedo scusa se sarò inesatto - se sia in regime di detenzione domiciliare: è un particolare su cui, se necessario, potrei riferire; non è segreto trattandosi di un fatto giudiziario. Il motivo ispiratore della strategia che stiamo tentando di definire (cosa non semplice) è di impedire e di evitare che la sorella di Messina possa essere indicata come persona conosciuta o quanto meno ingeneri sospetto, sia pure in un ambiente ristretto come può essere quello della cittadina laziale da lei indicata. Pagina 606 Uno dei sistemi consiste proprio nel radicale cambiamento dell'identità. Il regolamento sta per essere emanato; è ormai questione di brevissimo tempo. E non è stato agevole predisporlo, dal momento che cambiare completamente l'identità di una persona, dall'atto di nascita al certificato di battesimo, alla patente di guida, non è cosa agevole né avulsa da problematiche connesse, basti solo pensare a quelle di tipo civilistico. Possedendo gli strumenti normativi a disposizione e tramite il sistema di sicurezza, l'obiettivo che intendiamo raggiungere è di impedire che avvenga in qualsiasi posto quanto lei ha riferito. Questo fatte salve le possibilità; possiamo infatti escludere le probabilità, non le possibilità, o tentare di escludere la possibilità. Anche la locazione di un appartamento, se realizzata dal Ministero dell'interno, provoca quantomeno curiosità da parte dell'agenzia che deve fungere da intermediario. Se invece viene fatta da una persona che ha un'identità completamente tutelata, dal codice fiscale a tutto quello che riguarda il vivere civile comune, impedisce l'insorgere di curiosità, soprattutto in contesti ambientali piccoli e limitati dove tutti si conoscono e dove si nota una presenza nuova se non è bene adattata. Una persona che vive e non lavora e bambini che non vanno a scuola ingenerano curiosità, esponendo a rischi. Chiedo ancora scusa se nella mia precedente esposizione non mi sono espresso bene, ma parlavo della impostazione del lavoro al quale, con strumenti e norme in via di predisposizione, cerchiamo di ispirare l'attività conseguente. Mi sia consentito di aggiungere che tutto questo comporta una grossa accettazione del margine di rischio che si può correre. Può darsi infatti che alcune persone vengano riconosciute, ma il rischio è relativo. Certo, mettere degli agenti sotto casa ingenera attenzione, così come collocare delle forze intorno ad un obiettivo crea attenzione, con assoluta naturalezza, e non è detto che la presenza di agenti impedisca un'azione criminale. Tre autovetture blindate e cinque uomini di scorta non hanno impedito la morte del giudice Falcone. Bisogna vedere se l'aggressione diventa, o potrebbe diventare, proporzionale alla difesa. Per questo motivo il capo della polizia, parlando in questa sede, ha parlato di sicurezza uguale segretezza, per tentare di ottenere attraverso la mimetizzazione quel margine di sicurezza. GIUSEPPE ARLACCHI. Proseguendo nel discorso iniziato, e visto che siamo in seduta riservata, vi inviterei ad essere più specifici nell'indicare la strada che si è deciso di imboccare, quella cioè del principio che la migliore protezione è la segretezza anziché la protezione in senso fisico, materiale, visibile e pubblico del collaboratore di giustizia. In proposito vi è la questione - a voi naturalmente nota - della ricostruzione della identità di una persona. In pratica si tratta di inventare e costruire una identità diversa di un essere umano, che ha coordinate di spazio, di tempo, di educazione e di socialità ben precise. E' il problema principale che si incontra lungo la strada da voi intrapresa. Vi chiedo di essere abbastanza specifici e franchi, visto che questa Commissione deve avere davanti l'intero spettro delle problematiche. In materia, infatti, nascono molti dei problemi che si dice incontri l'amministrazione in ordine ai collaboratori di giustizia. Fino a poco tempo fa - ho letto su diversi quotidiani - la presenza di un collaboratore di giustizia (il quale risiedeva in una determinata zona del paese, qualunque essa fosse) doveva essere portata a conoscenza delle autorità locali di pubblica sicurezza. Vi domando se questo principio, questa regola, questa disposizione sia cambiata o se viga ancora. E' evidente infatti che tanto più la segretezza viene garantita quanto minore è il numero delle persone che sono a conoscenza dell'identità e della presenza di un determinato collaboratore in un luogo fisico. La prassi seguita da istituzioni di protezione di altri paesi è che soltanto una persona, all'interno dell'agenzia di protezione, è a conoscenza del luogo ed è a contatto con il collaboratore. Pagina 607 Vi chiedo se intendiate introdurre questo stesso principio, in base al quale un numero ristrettissimo o addirittura una sola persona o un solo funzionario del Servizio di protezione sia a conoscenza della situazione oppure se intendiate percorrere strade diverse, dal momento che possono essere inventate soluzioni diverse. La seconda domanda concerne la vostra posizione circa l'ipotesi di trasformare il Servizio centrale di protezione in una vera e propria agenzia della protezione sul modello del servizio dei marshal degli Stati Uniti. Come sapete, se ne è discusso molto e la fondazione Falcone di Palermo ha dedicato a questo tema un intero convegno, al quale sono stati invitati anche esponenti dei marshal. Vorrei sapere se la vostra istituzione, il Governo o il Ministero dell'interno intendano muoversi lungo questa direzione, o se invece si tratta solo di un'ipotesi allo stadio preliminare. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Il sistema di protezione che in questo momento viene attuato richiede necessariamente, anche in ossequio alle leggi che regolano l'attività del servizio, che il prefetto, in sede di comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, dia mandato di attuare i servizi alle forze di polizia territoriale (alle quali ci rivolgiamo, tramite il prefetto, per la protezione nelle zone protette). Naturalmente le persone che vengono a conoscenza del nome del collaboratore e della località di protezione sono moltissime: basti pensare che il programma di protezione viene proposto dall'autorità giudiziaria competente, arriva alla commissione centrale, quindi a noi; il servizio poi attiva la prefettura ed infine si riunisce il comitato provinciale. Non possiamo modificare le leggi che regolano la nostra attività e quindi non possiamo evitare di far applicare queste misure di tutela nelle località protette. In tempi futuri, come ha detto il prefetto De Gennaro, si tenterà di evitare che i nominativi dei collaboratori e le località in cui risiedono diventino un oggetto noto a tanta gente. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Posso rispondere alla seconda parte della domanda dell'onorevole Arlacchi. Il generale Valentini ha già esposto il sistema attuale ed in questo momento non abbiamo elementi certi per poter illustrare la futura strutturazione del servizio di protezione. In linea di massima quest'ultimo si baserà, come ho accennato nella relazione di apertura, sul principio della specializzazione ma anche del decentramento, in modo tale da istituire sul territorio proiezioni del servizio che consentano di ovviare ai problemi che l'onorevole Arlacchi ha sottolineato e che il generale Valentini ha illustrato nell'attualità. L'esatta definizione del servizio in termini strutturali si avrà nel giro di pochissimo tempo, ispirata al principio dell'assoluta specializzazione del personale che ne fa parte, anche nelle componenti che possano risultare necessarie al di là del personale di polizia (per esempio, assistenti sociali, psicologi o esperti in anagrafe e in cambiamento di generalità): questa è la tendenza ed in questi termini stiamo cercando di adeguare l'ufficio. Il servizio, avendo connotazione interforze, costituisce una sorta di task force che cercheremo di integrare con professionalità le più diverse, tali da poter corrispondere a tutte le esigenze (per esempio di carattere medico) ed a tutte le problematiche connesse al vivere civile di una famiglia attraverso un decentramento sul territorio che consenta di istituire strutture di riferimento che eliminino, nei limiti del possibile, o riducano al minimo il problema della circolazione delle informazioni. PRESIDENTE. Queste strutture di riferimento, in concreto, dove starebbero? Dovrebbero essere visibili? GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Non credo che non debbano essere visibili - abbiamo delle Pagina 608 idee che ora non vorrei anticipare -, ma che, per esempio, potrebbero fare riferimento alle prefetture regionali. Ripeto, non è facilissimo creare proiezioni sul territorio del Servizio centrale di protezione, ma, essendo il problema in fase di studio avanzato, ritengo che in poco tempo saremo in grado di eliminare i problemi che sono stati richiamati, in primo luogo quello di una circolazione di notizie tale da mettere a rischio la tutela dell'individuo. Soprattutto una volta che siano state modificate le generalità del soggetto bisogna essere gelosi custodi della nuova identità, cosa che tra l'altro comporta anche delle spese, perché non si può correre il rischio di una facile vanificazione della misura di protezione per poi ricorrere ad un'ulteriore procedura che possa garantire la forma di anonimato cui si faceva riferimento. TANO GRASSO. Desidero porre un problema che dal punto di vista numerico riguarda in maniera assolutamente marginale il Servizio centrale di protezione ma che, a mio giudizio, dal punto di vista qualitativo interessa moltissimo tutti noi. Si tratta dell'esistenza di collaboratori della giustizia che non sono mafiosi pentiti ma che vengono equiparati, secondo la legislazione vigente, alla condizione del collaboratore di giustizia pentito: di norma si tratta di persone che esprimono un alto livello di coscienza civile e che ricoprono un importante ruolo simbolico nella società, per cui diventano anche volano di immagine della funzionalità dello Stato. La prima questione che le pongo, signor prefetto, è se non sia il caso di pensare in termini legislativi a qualche norma che consenta una gestione diversa di questi soggetti rispetto a quella dei pentiti. Vivo direttamente la vicenda di una di queste persone, un mio carissimo amico sottoposto alla tutela del servizio di protezione e, da osservatore della sua vita, ho avuto l'impressione che non vi sia quella necessaria sensibilità da parte delle strutture, in primo luogo di quelle periferiche, che consenta di mettere a proprio agio il soggetto. Tra gli aspetti paradossali della vicenda di questa persona, che vive in una località sconosciuta del paese, vi è il fatto che viaggia con una macchina targata Caltanissetta. GIUSEPPE SCOZZARI. Comprata a proprie spese! TANO GRASSO. Mi chiedo se esista un margine di discrezionalità che consenta di gestire queste situazioni in stato di emergenza, posto che in Italia non vi saranno più di dieci casi di questo genere, che però hanno un grande valore simbolico. Vi è infatti il rischio di produrre un notevole squilibrio psicologico in questi soggetti che, abituati ad un tenore di vita di un certo livello, non per colpa loro si trovano proiettati in una situazione di assoluta emarginazione. Vi è poi il problema del lavoro: potremo vincere fino in fondo la sfida se riusciremo a reinserire nel tessuto produttivo queste persone; non mi riferisco solo al caso dei testimoni, ma alle 3.800 persone sottoposte a protezione. Lo Stato riuscirà a vincere la sfida non solo appropriandosi del patrimonio informativo di questi soggetti, ma anche dando loro un futuro sulla base dei valori della società civile. Questo, probabilmente, è il vero problema; mi chiedo se si stia pensando, per esempio, a forme di collaborazione con associazioni di categoria. Mi rendo conto che verrebbe compromesso il problema della segretezza, ma so anche che questa è una strettoia da cui bisogna passare. La strada dell'assistenzialismo rischia di essere pericolosa perché è la strada della vacuità del proprio valore, di quel poco di valore che ognuno di noi può avere. Ricordo altresì la questione degli Stati esteri: vorrei sapere se vi sia la possibilità di riconvertire alcuni di questi soggetti all'estero e se siano in studio o in ipotesi accordi bilaterali con altri Stati che non siano soltanto gli Stati Uniti d'America. Quanto alla questione del regolamento relativo al cambio di identità, vorrei sapere su quali linee ci si intende muovere, nella consapevolezza che purtroppo ci Pagina 609 stiamo accingendo con ritardo ad affrontare tale problema. GIUSEPPE SCOZZARI. Desidero porre una domanda ad integrazione di quanto ha detto il collega Grasso, del quale condivido tutte le affermazioni. Devo innanzitutto dire che, essendo il legale della persona di cui ha parlato l'onorevole Grasso, conosco le gravissime difficoltà che egli, come tantissimi altri, sta incontrando in varie direzioni, innanzitutto nei rapporti con lo Stato. Per fare un esempio, queste persone sono costrette a firmare lo stesso contratto che firmano i pentiti mafiosi, anche se si tratta di testimoni non mafiosi, che hanno consentito di mandare alla sbarra decine, se non centinaia, di appartenenti alla malavita organizzata. Questa è una prima considerazione di cui lo Stato deve certamente prendere atto e sulla quale deve, quanto meno dal punto di vista legislativo, fare una certa differenziazione. Come accennava il collega Grasso, il rischio sociale è gravissimo: alcuni di questi soggetti - che io difendo come legale di parte civile in processi delicatissimi - hanno dichiarato che, se le cose continueranno in questo modo, essi, per il bene degli altri commercianti (per lo più si tratta di commercianti), inviteranno con una lettera i loro colleghi a non compiere il tragico e terribile errore che essi stessi hanno fatto, rovinando la propria attività commerciale, la propria famiglia e la propria vita. Ebbene, il segnale lanciato da queste persone è cento volte più dirompente rispetto a quello lanciato dai collaboratori (che comunque è un segnale straordinario) perché proviene da persone oneste e serie che proclamano, in una società difficile come quella siciliana, che bisogna evitare l'omertà e lo stato di soggezione alla mafia. Mi inserisco dunque nella domanda del collega Grasso chiedendo se non si pensi di creare un regime differenziato, anche nella sottoscrizione delle tutele e delle indennità economiche, nonché dei contratti formali che si stipulano con questi soggetti, i quali - lo ribadisco - non sono né pentiti né mafiosi, ma hanno solo denunciato lo stato di soggezione in cui si trovavano. Ricordo un altro problema, che può sembrare stupido, ma che in realtà è gravissimo: questi soggetti, nel momento in cui vengono trasferiti in città segrete del centro-nord o del nord, per rifarsi una vita non accettano di cambiare identità (mi pare che ciò sia giusto) e, continuando a mantenere la propria, hanno il problema del trasferimento delle iscrizioni, per esempio, nell'ufficio di collocamento o dei documenti di identità per l'iscrizione dei propri figli a scuola; addirittura per il cambio di targa vi sono problemi perché, nel momento in cui, per esempio, la motorizzazione di Roma chiede a quella di Agrigento un cambio di targa, vi è il rischio che il funzionario della motorizzazione di Agrigento possa fornire a compiacenti mafiosi il nome della nuova città in cui si trasferirà il collaboratore non mafioso né pentito. Si tratta di difficoltà tecniche gravissime, che creano uno stato di disagio psicologico nei soggetti che hanno deciso di aiutare lo Stato. Un'ultima considerazione riguarda i pentiti in senso stretto. L'esperienza che mi deriva dall'aver assistito qualche collaboratore - ora non li assisto più - mi ha consentito di notare che la commissione si riuniva spesso con estremo ritardo: ciò non riguardava soltanto il riconoscimento dello stato giuridico di collaboratore ai sensi della vigente legge, ma anche le difficoltà di tipo economico che incontrano le famiglie quando non ricevono il contributo necessario per vivere, dal momento che non svolgono più nessuna attività lavorativa. Anche questo è un elemento che va contro gli interessi dello Stato e contro questo nuovo modo di comportarsi in uno Stato civile. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Posso rispondere in parte - lasciando poi la parola al collega Valentini - a cominciare dalle ultime considerazioni: noi proteggiamo la vita umana, che è uguale sia per il collaboratore di giustizia mafioso sia per il Pagina 610 testimone non mafioso. Abbiamo il compito di garantire la sicurezza o di cercare di garantirla e non di discriminare nella sicurezza tra persona e persona. GIUSEPPE SCOZZARI. Non volevo dire questo, assolutamente! La sicurezza è uguale per tutti, ci mancherebbe! La vita è sacra per tutti! GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Il punto è la metodologia. Mi rendo conto che per una persona che non deve scontare nessun tipo di colpa e che non deve riabilitarsi nella società vi possano essere difficoltà veramente gravi. Se un trasferimento può essere un problema, figuriamoci lo stravolgimento di una vita! Non conosco il caso specifico che è stato richiamato, sul quale credo potrà rispondere molto più validamente il generale Valentini, ma ho vissuto l'esperienza del testimone del processo Livatino, che era un normale cittadino che si trovava a passare sul luogo dell'omicidio. Questi ha avuto molti problemi, come il dover lasciare il proprio lavoro, trasferirsi in un'altra città e soprattutto vivere continuamente nel timore, trattandosi di una persona che non è abituata a convivere con il delitto, come può essere il collaboratore che ha responsabilità penali; qualche volta la paura è superiore all'effettivo rischio, ma si tratta di un fattore psicologico. So che esiste un programma di protezione dei testimoni che è uguale per tutti: ecco perché non intendevo certamente fraintendere la sua domanda, ma mi riferivo al tecnicismo. Se, per esempio, da un punto di vista tecnico, si deve cambiare la targa, non si può non farlo; ed è chiaro che se si è stati testimoni, in un contesto piccolo come può essere quello della città di Agrigento, per il caso dell'omicidio del giudice Livatino, il fatto di essere residenti in quella città comporta che non sia difficile lasciare una traccia già nel momento in cui si cambia la targa dell'automobile. Ecco perché le necessità ulteriori di cambiare le generalità e di mimetizzarsi sono una regola che può valere per tutti, proprio per raggiungere l'obiettivo di tutelare la vita umana, qualunque sia la persona e qualsiasi sia la sua posizione nel contesto sociale. Vorrei aggiungere soltanto un'osservazione: per quanto riguarda il lavoro, è chiaro che soltanto il cambiamento completo delle generalità comporta la possibilità di un reinserimento nel mondo del lavoro, anche perché lo stesso datore di lavoro trova enormi difficoltà in relazione ai rischi che si corrono nell'assumere una persona che rappresenta un potenziale pericolo per tutti. Anche questo, quindi, è un momento importante del reinserimento, come mi ero permesso di osservare nella relazione iniziale, anche al fine di evitare l'assistenzialismo. Per quanto riguarda il trasferimento all'estero, abbiamo già dei casi concreti. La seduta è segreta... PRESIDENTE. Dottor De Gennaro, la seduta non è segreta: se lo desidera, però, possiamo procedere in seduta segreta. GIUSEPPE SCOZZARI. Veramente avevo capito che la seduta era rimasta segreta. PRESIDENTE. La seduta può essere segreta soltanto in relazione a circostanze speciali: ho interrotto il dottor De Gennaro, infatti, quando ho capito che non era chiaro che la seduta era pubblica. RENATO MEDURI. Signor presidente, a mio avviso, è bene mantenere segreta l'intera seduta, dato che ciascuno di noi può fare riferimento a casi che è bene rimangano riservati. PRESIDENTE. La Commissione può decidere che l'intera seduta rimanga segreta. Non mi sembra, però, che vi siano elementi particolari per giungere a tale decisione. RAFFAELE BERTONI. Signor presidente, sono contrario a mantenere l'intera seduta segreta; se qualcuno desidera dire qualcosa che ritiene debba rimanere segreta, può farlo presente. Pagina 611 LUIGI RAMPONI. Ritengo che sia meglio che la seduta non sia segreta. PRESIDENTE. Sono d'accordo: quando vi è qualcosa che si ritiene debba rimanere segreta, lo si può chiedere. RENATO MEDURI. Signor presidente, ma quando, per esempio, il collega fa riferimento a persone che ha difeso, è facile poi verificare di quali persone si tratti e la segretezza va a farsi benedire. PRESIDENTE. Ritengo che la Commissione debba votare sulla segretezza della seduta. GIACOMO GARRA. Sarei favorevole a mantenere segreta l'intera seduta solo per riguardo al prefetto De Gennaro. GIANVITTORIO CAMPUS. Possiamo sapere se il prefetto De Gennaro preferisce che la seduta sia segreta? PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta che la rimanente parte della seduta sia segreta. (E' respinta). Prosegua, dottor De Gennaro. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Signor presidente, stavo dicendo che per quanto riguarda la possibilità di trasferimento all'estero vi sono stati casi in cui questa via è stata perseguita, dove le condizioni lo consentivano, per cui certamente tale possibilità viene tenuta in considerazione. PRESIDENTE. Riprendendo la domanda, non ho capito bene, però, se è in previsione una normativa differenziata per i testimoni oppure no; se cioè tutti sono sottoposti alla stessa normativa in previsione del regolamento futuro o se invece si prevedono trattamenti diversi. TANO GRASSO. Anche rispetto all'esperienza degli altri paesi. PRESIDENTE. Facevo riferimento alla situazione attuale. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Signor presidente, la normativa vigente non prevede un trattamento diverso: si tratta di una norma di legge, non regolamentare. Se verrà approvata una legge che prevederà una differenziazione di procedure, naturalmente i regolamenti attuativi delle norme saranno redatti in modo tale da poter garantire quanto il legislatore avrà disposto. GIUSEPPE SCOZZARI. I contratti, però, sono il frutto di una norma regolamentare: a questo proposito, si sta pensando ad una diversificazione oppure no? FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Il programma di protezione, che ha anche un aspetto contrattuale, non è fatto per i collaboratori e per i testimoni: è un modello unico. Se ho ben compreso le domande degli onorevoli Grasso e Scozzari, credo di dover ribadire che il problema essenziale sta proprio nell'impossibilità di dare nuove generalità ai collaboratori di giustizia e, quando occorre, anche ai testimoni, che non sono pochi, onorevole Grasso, visto che sono 68. Evidentemente, il legislatore non ha pensato di prevedere due distinte discipline. Abbiamo dovuto necessariamente porre in essere qualche surrogato: non possiamo dare le nuove generalità, perché non ci è consentito, in quanto non disponiamo degli strumenti legislativi per farlo. Diamo invece i documenti di copertura, che naturalmente non sono ben graditi dai collaboratori di giustizia per un complesso di motivi. Posso citarne qualcuno: il primo motivo è che non si è iscritti in nessun ufficio dell'anagrafe; il secondo (ma frequentemente, negli ultimi tempi, mi è capitato di imbattermi in questa problematica) è che sulla carta d'identità che riusciamo ad avere vi è il classico timbro : "Non valida per l'espatrio". Quando si tratta di figli di collaboratori di giustizia che desiderano andare all'estero sorgono molti problemi, così come sorgono problemi quando cerchiamo di avviare al lavoro qualcuno. A Pagina 612 questa domanda mi sembra abbia risposto in maniera precisa il prefetto De Gennaro e pertanto non credo di dover aggiungere altro. L'iscrizione alla scuola dei figli dei collaboratori di giustizia viene sempre fatta nostro tramite sotto falso nome. Naturalmente non è il Servizio centrale di protezione che provvede all'iscrizione dei bambini che devono andare a scuola; provvediamo tramite i referenti locali all'iscrizione nelle scuole di ogni ordine e grado (medie, superiori ed anche università) assumendocene il relativo onere. Vorrei concludere rispondendo al problema della targa. Si è fatto riferimento ad un teste con il quale ho ampiamente dialogato e al quale ho dato notizie telefoniche il giorno successivo. Per cambiare la targa, come lei mi insegna, è necessario avere una residenza diversa da quella di provenienza. TANO GRASSO. Si può dare una targa di copertura. PRESIDENTE. Non è previsto. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Di reati ne commettiamo tanti nell'interesse della giustizia (Commenti del deputato Grasso)... RENATO MEDURI. E' un falso problema. Si vende la macchina! TANO GRASSO. Si tratta di una macchina blindata, dal costo di 100 milioni, pagato dall'interessato! PRESIDENTE. Lasciamo parlare il generale Valentini. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Onorevole Grasso, conosco anche la macchina. Non possiamo rilasciare targhe di copertura. Se dovessimo dare una targa di copertura a ciascun collaboratore di giustizia munito di macchina, dovremmo prevedere un altro tipo di servizio, non certo di protezione. Ma non possiamo neppure fornire un'autovettura a tutti i collaboratori di giustizia che dovessero avanzare una simile richiesta. A qualcuno diamo dei prestiti, cerchiamo di aiutarlo, quando è possibile. Naturalmente tutto deve inquadrarsi in esigenze di sicurezza per il collaboratore di giustizia. Ho dato un suggerimento al teste parificato collaboratore di giustizia... FRANCESCA SCOPELLITI. Quello che sta dicendo è segreto? FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. No. Ho suggerito al teste di far ricorso ad un procuratore speciale. Avrebbe potuto cambiare il numero di targa della macchina e fare tutto quello che più si confaceva alle sue esigenze di sicurezza. Come ha indicato prima il prefetto De Gennaro le esigenze di sicurezza sono quelle che dobbiamo necessariamente privilegiare rispetto a tutte le altre sfaccettature della problematica. GIROLAMO TRIPODI. La legge sui collaboratori di giustizia è stata da tutti considerata uno strumento incisivo nella lotta contro la criminalità organizzata. Negli ultimi tempi questa conquista legislativa ha subito una serie di attacchi diretti a delegittimarla. Ciò ha provocato una serie di prese di posizione, così almeno abbiamo letto sulla stampa, da parte dei collaboratori di giustizia. Molti collaboratori di giustizia negli ultimi tempi si rifiutano di collaborare o hanno smesso di dare il loro contributo. Si parla di un centinaio di persone che hanno iniziato una specie di sciopero nel senso che non forniscono più il loro apporto alle indagini. Vorremmo sapere se queste notizie siano vere e se queste manifestazioni di protesta siano il risultato del mutato clima determinatosi nei confronti dei collaboratori di giustizia in ordine alla protezione e alla erogazione dei sussidi. Qualche mese fa la corte di assise di Reggio Calabria si è recata a Padova per ascoltare Riina. In quell'occasione un collaboratore di giustizia (l'ho già detto in un'altra occasione ma voglio ripetere la domanda approfittando dell'autorevole Pagina 613 presenza del prefetto De Gennaro e del generale Valentini) si è lamentato del fatto di essere stato costretto a sostenere di tasca propria le spese di viaggio. Naturalmente fatti di questo genere destano preoccupazione circa la reale tenuta delle norme attualmente esistenti. Alcuni suggerimenti sono stati già dati in ordine ad eventuali modifiche per offrire maggiori garanzie ai collaboratori di giustizia e ai testimoni. Vorrei avere qualche risposta più esplicita sulle soluzioni che si intendono adottare per risolvere il problema. Vorrei inoltre sapere se ritenete che le norme relative ai collaboratori di giustizia debbano essere difese e mantenute. Per concludere, vorrei porre un'ulteriore domanda sui tempi e sulle procedure concernenti l'erogazione dei sussidi ai familiari dei pentiti e dei testimoni, perché anche su questo versante ci sono molte lamentele. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Il numero dei collaboratori che - ripeto quello che ha detto lei - ha scioperato per manifestare il proprio disagio non è arrivato a cento unità e speriamo tutti che non ci arrivi. GIROLAMO TRIPODI. Quanti sono? FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Le persone che hanno protestato sono state dieci. Prima risponderò alla sua domanda, poi le riferirò circa lo screening che abbiamo fatto ed infine parleremo anche del tipo di proteste. Per quanto riguarda il collaboratore di giustizia recatosi a Padova il problema non è quello. Per esigenze di giustizia è stato costretto a soggiornare in quella città un giorno in più rispetto al previsto. Del resto anche se ci avesse attivato prima di questo evento non avremmo fatto in tempo a provvedere al pagamento. Tornato nella sede protetta si è visto rimborsare le spese di permanenza. Il biglietto di andata e ritorno è un'altra cosa; non fa parte di queste proteste. In ordine all'istituto non credo che sia possibile mettere in dubbio la validità e l'importanza del contributo dato dai collaboratori di giustizia alla lotta contro la criminalità organizzata e alla mafia in particolare. Relativamente alla questione dei tempi lunghi nell'erogazione dei sussidi, faccio presente che il Servizio centrale di protezione dà dei contributi mensili, una specie di stipendio che viene erogato attraverso gli istituti di credito, e che viene spedito dal Servizio centrale nei primi giorni del mese. Le lungaggini possono essere causate, per esempio, dalla presenza di un giorno festivo in mezzo ad uno feriale o da altri problemi, comunque non imputabili a noi che - a giorni fissi, tutti i mesi - facciamo questi versamenti. In ogni caso esistono lamentele relativamente all'aspetto economico, e si riferiscono alle spese varie, il cui rimborso ci viene periodicamente richiesto con istanze dirette a noi o alla commissione centrale. In proposito è necessario fare una valutazione, perché non possiamo corrispondere a tutte le aspettative dei collaboratori di giustizia. Tra l'altro amministriamo soldi dello Stato e quindi bisogna farlo con la massima oculatezza. Naturalmente l'assistenza viene tenuta in debito conto, così come lo sono tutte le esigenze che comunque concorrono ad una maggiore o migliore protezione del collaboratore in sede protetta. Quanto alle lamentele avanzate dai collaboratori di giustizia, mi sia consentito in questo momento di fare ricorso soltanto alla mia memoria. Vi assicuro che ho avuto modo di leggere tantissime lettere. In una di esse si parla del "vezzo che ha la televisione italiana di trasmettere immagini che lo riguardano". Questo collaboratore si dice dunque preoccupato non soltanto per sé ma anche per i propri familiari. In un'altra lettera, per esempio, un soggetto, la cui posizione giuridica è quella di detenuto (magari agli arresti domiciliari), lamenta la presenza di personale delle forze di polizia, che svolge i controlli in uniforme. Se confrontiamo quanto sto dicendo Pagina 614 con quello di cui si è detto prima, in ordine a ciò che si vuol fare in prospettiva, non vi è dubbio che è da preferirsi quello che ci proponiamo di fare, perché il personale in uniforme evidenzia l'obiettivo protetto. In altri casi ci si lamenta che nei frequenti movimenti dalle località protette ai luoghi di provenienza in cui si celebrano i processi si viene scortati da personale delle forze di polizia, che ha dei turni, cioè non è sempre lo stesso. Poiché tutto va a scapito della segretezza e della riservatezza, non possiamo che essere d'accordo con i collaboratori che protestano. Altre lamentele - e sono la maggior parte - riguardano l'impossibilità di avere documenti con nuove generalità. I collaboratori sanno infatti benissimo che questa è l'unica strada che consente loro non soltanto di possedere un'autovettura ma anche l'ingresso nel mondo del lavoro, per loro e per i propri figli. Alcuni hanno sollevato il problema dei figli che stanno per completare un ciclo di studi. Un diploma di laurea o di scuola media a chi viene dato? A quell'essere inesistente che ha presentato i documenti che gli abbiamo fatto avere noi, violando alcune volte la legge o inducendo altri a violarla? Naturalmente esistono altri tipi di protesta. Se mi è consentito, vorrei riferirne una di un collaboratore, il quale ha attivato l'organo referente facendo presente quanto segue: ho un figlio di diciotto anni e un cognato di ventidue, i quali sono abituati ad andare in discoteca tutti i sabati; entrambi, sabato scorso, hanno avuto l'impressione di essere stati riconosciuti da ragazzi che si trovavano lì, perché sono stati guardati insistentemente. Voi mi dovete allora garantire la scorta e l'accompagnamento di questi due ragazzi, anche all'interno della discoteca, fuori dalla provincia di competenza, non soltanto per sabato prossimo ma anche per quelli successivi. Abbiamo detto di no all'organo referente, il quale si è fatto parte diligente facendo capire che la predisposizione di un servizio minimamente sicuro non poteva essere assicurato all'interno di una discoteca. Vi sono dunque proteste di questo tipo per cose piuttosto amene; credo di aver comunque indicato prima tutte le proteste riguardanti fatti seri. TANO GRASSO. Lei ha detto che i soldi si mandano via banca? FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Si danno, tramite referente, in contanti, oppure attraverso vaglia postali e assegni circolari. TANO GRASSO. Avevo capito attraverso la banca. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Sono tre sistemi. Se potessimo avere le coordinate bancarie di ciascun collaboratore, faremmo tutti questi versamenti nel giro di ventiquattr'ore; ma non abbiamo questa possibilità. SAVERIO DI BELLA. Vorrei iniziare il mio intervento evidenziando la perplessità che in me suscita la questione del cambiamento totale di identità. Ci sono problemi di carattere psicologico che riguardano gli interessati. Da tale punto di vista vorrei sapere se questi vengano seguiti anche da psicologi, soprattutto quando hanno bambini per i quali questo tipo di adattamento e di sradicamento dall'ambiente rischia di divenire un trauma aggiuntivo rispetto a quelli "normali" che si verificano in determinate situazioni. Ma vi è un altro motivo che intendo sottolineare. Quando ciò che ho appena detto riguarda centinaia o addirittura migliaia di persone, si rischia di mettere in piedi una macchina mostruosa di falsificazione dei documenti. Qui, se vogliamo essere coerenti, dovremmo dire che bisogna falsificare documenti di stato civile, documenti scolastici, documenti ecclesiastici (atti di battesimo e di matrimonio), documenti dei tribunali, documenti universitari. E' assolutamente inaccettabile che ci si possa mettere su questo piano proprio perché ciò vorrebbe dire creare una situazione - lo ripeto - mostruosa, in quanto ciò riguarderebbe non una, due o tre persone ma migliaia di persone. Si potrebbe Pagina 615 dire che la critica è facile e chiedere quale sia la nostra proposta. Direi che dobbiamo tenere conto di un fatto, che in questo caso può essere utile. Chiunque vada a prendere l'elenco telefonico, per esempio, di Palermo, di Locri o di Gioia Tauro (cito alcune città notoriamente "immuni" dalla mafia), si renderà conto che i cognomi si ripetono, per cui abbiamo i Mazzaferro mafiosi ma anche centinaia di Mazzaferro che non sono mafiosi. Secondo me, bisogna giocare su questo aspetto: se le forze dello Stato lavorassero bene, la comunanza di cognomi permetterebbe probabilmente di raggiungere l'obiettivo della mimetizzazione senza bisogno di ricorrere ad un meccanismo difficile da gestire che, richiedendo tutta questa serie di passaggi, implicherebbe troppe complicità che resterebbero difficilmente segrete oppure la creazione di una macchina falsificatrice da parte dello Stato, che non è concepibile né accettabile, per quanto mi riguarda. Il secondo aspetto è rappresentato dal lavoro. Francamente credevo che fosse il problema più facile da risolvere, perché se uno Stato decide di offrire lavoro ha una serie di opportunità di farlo in proprio, senza ricorrere a terzi, magari attraverso l'utilizzazione di tali persone all'interno di strutture produttive dello Stato, ad esempio nei cantieri navali, come inservienti nelle caserme della polizia o dei carabinieri, vi sono amministrativi che lavorano e dipendenti che debbono avere anche qualità professionali di un certo tipo; quindi, da questo punto di vista, se effettivamente si volesse affrontare e risolvere il problema, esisterebbe una possibilità molto maggiore di quanto non venga... FRANCESCA SCOPELLITI. Forse non sono disposti a fare gli inservienti! SAVERIO DI BELLA. C'è chi lo può fare; io ho parlato anche di posti di responsabilità. E' chiaro che il laureato, su richiesta, a volte può anche fare l'inserviente, ma è preferibile che non lo faccia. FRANCESCA SCOPELLITI. Non lo vuole fare! SAVERIO DI BELLA. Sì, ma è giusto dargli un lavoro di natura diversa. Anche l'avvocatura dello Stato, tanto per fare esempi pratici, per quanto riguarda le droghe, potrebbe affidare le consulenze a tali persone - se fossero dei laureati in chimica e sempre che avessero le necessarie competenze professionali - invece che ad altri esperti. FRANCESCA SCOPELLITI. Scusa, Di Bella, tu fai i mafiosi tutti laureati! SAVERIO DI BELLA. Se ragioniamo così, non ci possiamo capire! GIANVITTORIO CAMPUS. Facciamo le perizie giurate! SAVERIO DI BELLA. Sto facendo un esempio per dimostrare che lo Stato, se vuole, può assorbire competenze in qualunque direzione. Se disponiamo di medici non dirò una sciocchezza affermando che potremmo utilizzarli negli ospedali militari. Diamo risposte, ripeto, ad ogni esigenza, proprio perché lo Stato ha la possibilità di impiegare dal ragioniere al laureato in elettronica, se vuole; se poi non vuole, è un altro discorso. Diciamo che lo Stato non vuole, allora, e scusate la digressione! A Palermo è accaduto un fatto gravissimo, che credo conoscerete tutti dalla cronaca. Una signora, moglie di un pentito collaboratore di giustizia ucciso, aveva una macelleria; i suoi due bambini furono avvicinati da spacciatori e per punizione resi tossicodipendenti; si ordinò, inoltre, al quartiere di non acquistare carne in quella macelleria. Mi sapete dire perché lo Stato non ha fatto in modo che le caserme esistenti a Palermo (carabinieri, polizia, finanza, esercito) si servissero di tale macelleria in maniera da dare una risposta concreta, che non sarebbe costata una lira in più all'erario e che avrebbe fatto capire alla gente che lo Stato, quando vuole, sostiene anche economicamente le attività produttive? Un altro esempio è rappresentato da quella famosa azienda che produceva tessuti, che ha chiuso: quante migliaia di divise consumiamo ogni anno? Costava Pagina 616 molto o non c'era la fantasia necessaria per capire che se lo Stato, dovendole acquistare, invece di farlo dalla Lebole le avesse comprate da questa azienda le cose sarebbero andate diversamente, per Palermo e per l'Italia? Queste cose ce le dobbiamo dire, altrimenti sembra che i problemi non possano essere affrontati; se si vuole, si possono affrontare e risolvere. Veniamo qui alla sicurezza vera di questo tipo di persone: essa è nell'impressione che non dobbiamo avere noi della Commissione antimafia o quelli che hanno maggiore coscienza ma che deve avere il cittadino comune, quello che ha paura di uscire di casa. Lo Stato nei confronti della mafia ha una sola politica, quella di costringerla alla resa, non ci sono spazi per altro; se riusciremo a dare quest'impressione, nei quartieri di Palermo non saranno più minacciati né i preti né i volontari, non saranno più distrutte le lapidi che ricordano i caduti nella lotta alla mafia, e probabilmente saranno tutelati meglio non solo i collaboratori di giustizia ma anche i parenti che restano lontani. Infatti, qui facciamo finta di dimenticare un'altra cosa tragica: vi debbo ricordare io l'abitudine inveterata delle cosiddette vendette trasversali? Non riusciremo mai - dico mai -, tenendo conto delle estese parentele e visto che ormai uccidono anche i cugini in quindicesimo grado, a tutelare tutti, se non attraverso una politica che riesca a far capire che la mafia viene combattuta e che i mafiosi vengono messi in galera senza misericordia. Noi abbiamo strani modi di applicare le leggi. Ve ne cito uno solo. Se non ricordo male, la Costituzione italiana vieta l'associazione armata segreta. Cos'è la mafia? Quante armi ha? Perché non mettiamo in galera tutti i mafiosi di cui abbiamo conoscenza? Sono migliaia, gli elenchi sono stati pubblicati anche dai giornali, da Epoca a tutti gli altri, e comunque qualunque maresciallo vi sa dire quali siano, nel proprio circondario, nella propria stazione. Mi si potrebbe obiettare che ciò potrebbe configurare un'esagerata utilizzazione della forza: ma noi non li arrestiamo neanche quando sono colpevoli di delitti! Infatti, poi vengono liberati perché vengono effettuate delle scelte che sono ancora una volta falsamente a tutela del cittadino. Ognuno dice quello che pensa. Io sono tra coloro che sono stanchi di vedere uno Stato debole, che a parole dice di voler combattere la mafia e che in realtà dà alla popolazione l'impressione di fare esattamente l'opposto. Ripeto, il giudizio non lo dovete chiedere a me e agli altri che siedono qui; siete mai andati a parlare con il pastore di Capizzi o di San Luca, con il pastore non mafioso di San Luca (non quello complice, colluso e 'ndranghetista)? Avete mai parlato con le casalinghe, che aspettano con ansia il ritorno del figlio che si reca in campagna, nelle zone di latitanza dei mafiosi, e che non sanno se e in quali condizioni rientri a casa la sera? I messaggi, quindi, vanno mandati a queste persone, perché gli altri sono messaggi per i giornali o per chi in fondo si trova in condizioni diverse da quelle dei cittadini che si trovano a vivere quotidianamente in situazione di emergenza. Finché non riusciremo a parlare con loro, inviandogli segnali importanti e necessari e che ritengo tutti vogliamo dare, vorrà dire che qualcosa non va, nel senso che alla nostra volontà non corrisponde uno strumento efficace che si traduca immediatamente nella percezione di tali cittadini in un messaggio inequivocabile di fermezza e di continuità in questa lotta. Vorrei sottolineare un altro aspetto, che però non so se sia di vostra competenza. Per quanto riguarda la distinzione tra i pentiti e coloro che sono infiltrati della mafia all'interno dei pentiti, con quali cautele viene effettuata? Siete riusciti ad individuarli o comunque avete posto l'attenzione necessaria per cercare di capire tale aspetto del problema, coadiuvando in questo la magistratura e le altre forze di repressione? Per ciò che concerne l'adeguamento dei fondi, vista la crescita esponenziale che tra il 1992 e il 1994 emerge dalle cifre, esso è automatico o occorre una normativa che da questo punto di vista aiuti lo Stato a disporre degli strumenti giuridici e dei Pagina 617 finanziamenti indispensabili per andare avanti? Oppure, anche su questo terreno, almeno da quanto mi è sembrato di capire, esistono - chiamiamoli così - ritardi involontari, nel senso che purtroppo a volte le cose vanno più veloci delle istituzioni, per cui poi si verificano contrattempi che nessuno desidera e che tuttavia possono pesare sulla capacità pratica di gestire questo settore essenziale del servizio? Mi interesserebbe inoltre sapere, proprio alla luce della delicatezza anche psicologica di alcuni di questi aspetti, se il personale che lavora presso questo servizio riceva un addestramento particolare per quanto riguarda non solo le capacità professionali sul terreno militare ma anche quelle di raccordo umano necessarie in questi casi, avendo a volte a che fare con donne e bambini e con persone impaurite. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Signor presidente, mi preme ribadire, se è possibile, che il cambiamento dell'identità è il dato base essenziale, assoluto per poter garantire a queste persone la sicurezza. Infatti, soltanto il cambiamento dell'identità, soprattutto in un paese come il nostro, ad alta densità di popolazione e contraddistinto da spazi territoriali sufficientemente ristretti, può garantirci nell'attuazione dei sistemi di sicurezza. Non vi è alcuna possibilità diversa, soprattutto per quel complesso di motivi che abbiamo cercato di esporre, e questa è la vera problematica sollevata adesso dai collaboratori della giustizia. Infatti, oltre a dare un documento di copertura, come ha spiegato in precedenza il generale Valentini, è assolutamente prioritario poter offrire tutti gli altri strumenti come, per esempio, il codice fiscale o quant'altro possa servire all'avvio di un'attività lavorativa o ad un reinserimento totale nel contesto sociale. Mi permetto di ribadire che nell'arco di pochissimo tempo si arriva alla definizione del regolamento, con tutte le complicazioni che, come ha rilevato il senatore Di Bella, esistono in una problematica così complessa. Per quanto riguarda il lavoro, si tratta naturalmente di un fatto conseguente: la possibilità di avere un'identità diversa facilita l'inserimento nel mondo del lavoro. I fondi sono sempre stati sufficienti e di fronte alle esigenze sono stati automaticamente adeguati con i meccanismi previsti dal Ministero del tesoro. Vorrei permettermi di fare un'osservazione: fino a oggi non vi è stata - lo cito come dato oggettivo - alcuna esposizione a rischio o a pericolo per nessuno dei testimoni che sono stati protetti, per cui, nonostante le deprecabili, e qualche volta considerate non sufficientemente adeguate, condizioni di operatività del servizio di protezione delle forze di polizia italiane, ad oggi non si registra alcuna lesione o aggressione diretta in danno di un testimone né di un suo familiare. Tra l'altro, devo dire che, tranne due casi, che si sono risolti entrambi in tempi abbastanza rapidi (quelli di Ierinò e di Di Matteo), non si sono verificate neanche evasioni in numero notevole da parte di detenuti in condizioni di detenzione extracarceraria, tenuto anche conto che quel tipo di detenzione tende a privilegiare la tutela del detenuto e non la garanzia che non evada. Peraltro, le carceri, che sono costruite in modo tale da impedire l'evasione, registrano comunque evasioni, per cui quei due casi specifici verificatisi non devono rappresentare un dato particolarmente preoccupante. La possibilità che vi siano falsi testimoni o testimoni infiltrati, come ha detto il senatore Di Bella, è un problema che riguarda l'attività investigativa e non quella di sicurezza; finora abbiamo riferito in ordine ai sistemi di protezione, ossia alla polizia di sicurezza, non alla polizia investigativa. Quello è un contesto meramente processuale, che deve vedere impegnato il magistrato che svolge l'attività inquirente e la polizia giudiziaria che svolge per suo conto attività di indagine sulle dichiarazioni testimoniali. Infine, quello che presta la propria opera nel Servizio centrale di protezione è Pagina 618 personale di polizia; nel caso specifico (rispondo con questo alla domanda riguardante la specializzazione con riferimento all'aspetto della psicologia), i medici di polizia psicologi, per esempio, svolgono la loro attività anche al servizio di questa struttura. NICOLA PASETTO. Mi scuso se mi limiterò a porre domande molto precise e tecniche senza lasciarmi andare a considerazioni più generali che ci porterebbero molto lontano. La prima domanda è la seguente: vorrei sapere se esistano categorie diversificate di pentiti e di collaboratori o familiari sotto tutela, ovvero se essi siano gestiti tutti dal Servizio centrale oppure se esistano determinate categorie (cito l'esempio concreto di Verona, la mia città) di collaboratori che non sono gestiti dal Servizio centrale. Recentemente a Verona... PRESIDENTE. Se c'è qualcosa di riservato... NICOLA PASETTO. Non farò assolutamente nomi di collaboratori, ma la questione è apparsa su tutti i giornali, per cui non rivelo alcun segreto. La magistratura ha condotto una grossa operazione nell'ambito della lotta al traffico di stupefacenti, nel corso della quale sono state arrestate oltre 110 persone (si tratta dell'operazione "Arena"). Vi sono stati diversi collaboratori che tra l'altro hanno mandato in tilt la questura di Verona (ecco perché pongo questa domanda, anche in relazione alla dipendenza del personale). Infatti, numerosissimi agenti della polizia di Stato sono stati impiegati per la tutela di questi collaboratori a discapito dei servizi di ordinaria sicurezza: in questa fase, a Verona gira una volante di notte e due o al massimo tre durante il giorno a causa di questa emergenza. Mi domando allora se esistano categorie diverse o se anche questi collaboratori siano gestiti direttamente dal servizio centrale. Desidero inoltre conoscere il rapporto, se esiste, tra personale impiegato e persone tutelate: infatti, vorrei sapere che cosa significhino 3.853 persone in termini di impiego di personale e se siano impiegate tutte le armi, ossia l'Arma dei carabinieri e la Guardia di finanza oltre alla polizia di Stato. In rapporto a questo, vorrei sapere come vengano individuati i soggetti impiegati in questo tipo di servizio: vi è una rotazione fra tutto il personale? C'è una determinata categoria? Vi sono agenti che presentano una domanda specifica per partecipare a questo tipo di servizio? Tale aspetto si collega al problema della conoscenza del fatto da parte di un numero sempre maggiore di persone: infatti, da quanto ho compreso, sempre con riferimento a questa vicenda specifica, veniva impiegato di fatto a rotazione un po' tutto il personale della questura di Verona. Ciò implica di fatto una propagazione indubbiamente gigantesca di tutte queste notizie. Desidererei inoltre sapere quale sia la distribuzione per regione di questo fenomeno, se è possibile quantificarlo, nonché quanti di questi soggetti restino nella regione di appartenenza e quanti invece siano trasferiti in altra regione. Non so, peraltro, se esista un criterio di individuazione del luogo di accoglimento: alcuni di loro sono alloggiati in strutture della polizia o comunque delle forze dell'ordine (mi è capitato di incrociarne uno nel corso di una visita che ho effettuato recentemente) ed altri sono invece collocati in abitazioni normalissime. Vorrei quindi sapere se esista al riguardo un criterio riferito, per esempio, al grado di giudizio o al livello di collaborazione che questi soggetti stanno prestando con le autorità. Per quanto riguarda il criterio relativo al cambiamento di identità, desidero sapere se siano già determinati o saranno determinati i tempi e i criteri di individuazione del momento in cui ciò deve avvenire. Non credo infatti che appena una persona comincia a collaborare gli sia già assicurato il cambiamento di identità; ritengo che vi sia una selezione, anche perché immagino che vi sarà un momento di verifica del tipo di collaborazione che questa persona presta, per cui la fattispecie non riguarderà tutti quelli che arrivano ma si seguirà una certa gradualità. Vorrei Pagina 619 quindi sapere se esista questo tipo di criteri. Desidero inoltre sapere, se è possibile entrare nel dettaglio, come si sviluppi la fase successiva alla collaborazione processuale, ossia il momento nel quale il collaboratore esaurisce la propria funzione processuale di collaborazione: con una sentenza passata in giudicato viene meno la funzione relativa a quella determinata vicenda in ordine alla quale il collaboratore è a conoscenza dei fatti, per cui egli esce completamente dalla fase di collaborazione. Che tipo di rapporto e di collegamento egli continua ad avere con la struttura nella fase successiva? In prospettiva, quando questo regolamento verrà perfezionato, con che modalità resterà collegato con la struttura di protezione dello Stato? Sappiamo che attualmente esiste una mimetizzazione per così dire relativa ed a volte addirittura controproducente perché i casi di servizio prestato in divisa o con auto della polizia sono così frequenti da vanificare qualsiasi tipo di segretezza. Vorrei infine sapere se nella definizione di questo regolamento si è fatto riferimento ad esperienze straniere, in quale misura e con quale possibilità di raccordo con il nostro sistema, considerata la differenza di queste realtà rispetto a quella italiana. Aggiungo solo due brevi considerazioni. A mio avviso, più si va verso un sistema che garantisca il minor numero di persone collegate ai collaboratori più la loro sicurezza è garantita. Anche per quanto riguarda il caso citato dal senatore Di Bella, è vero che il signor X nella sua realtà, a Locri, è mimetizzato in termini di cognome, però è bene identificato in termini di personalità; ma lo stesso signor X, trasferito a Verona, viene facilmente individuato proprio perché è inserito in una realtà diversa. A mio avviso, perciò, sarebbe consigliabile un cambiamento radicale di identità. Mi scuso per aver posto una serie di domande precise alle quali, se possibile, vorrei avere risposte altrettanto precise. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Non so cosa intenda l'onorevole Pasetto quando si riferisce a categorie diversificate di collaboratori. NICOLA PASETTO. Vorrei sapere se la gestione dei collaboratori è sempre fatta direttamente ed esclusivamente dal Servizio centrale di protezione o se dipende, per esempio, dal questore. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Il Servizio centrale di protezione, in attuazione di una legge del 1982, si fa carico di attuare un programma di protezione che ha due aspetti, uno di carattere tutorio, uno di carattere assistenziale. Per quanto riguarda il primo aspetto, il Servizio centrale si avvale delle forze di polizia esistenti nelle varie provincie le quali, coordinate dal prefetto e in sede di comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, hanno l'incarico di attuare i servizi di tutela. In periferia, a Verona per restare ad un caso a lei noto, i servizi di protezione vengono svolti dalle tre forze di polizia in un quadro di coordinamento disposto dal prefetto. Se il prefetto di Verona dà mandato ad una forza di polizia di predisporre ed attuare i servizi di protezione, chiede alla stessa forza di polizia la nomina di un referente, un funzionario o un ufficiale, che poi corrisponde con il Servizio centrale di protezione ed al quale il collaboratore si rivolge per le sue richieste ed i suoi problemi. Ciò non vuol dire che il collaboratore vede il proprio referente solo quando ha bisogno di qualcosa, perché spesso il referente di propria iniziativa cerca di contattare in maniera più o meno concordata il collaboratore di giustizia ed i suoi familiari, se è necessario. Quindi, non è il servizio con proprio personale che attua in tutto il territorio nazionale la protezione, ma provvede tramite i referenti ad attuare anche la seconda parte del mandato che è quella assistenziale. Per quanto riguarda il rapporto tra i collaboratori ed il personale del Servizio Pagina 620 centrale di protezione, è facile ricavare il dato numerico: i collaboratori sono 921 ed il personale del servizio conta, me compreso, 191 unità. Bisogna però tenere conto di tutte le strutture periferiche coinvolte in questa attività, cioé le questure, i comandi provinciali dell'Arma dei carabinieri e spesso anche della Guardia di finanza di tutto il territorio nazionale. I criteri di assegnazione dei collaboratori nelle diverse località protette sono dettati da una serie di esigenze; alcune volte ci vengono segnalate problematiche particolari dagli stessi magistrati inquirenti, altre volte siamo noi che ci facciamo parte diligente e cerchiamo, per esempio, di non mandare un calabrese in Piemonte o in una certa zona della Liguria, perché sappiamo che in queste zone i calabresi da molto tempo svolgono certe attività. In Lombardia, invece, vi sono sacche in cui operano diversi siciliani di una determinata provincia, in Emilia vi sono sacche in cui operano siciliani di un'altra provincia, anzi prevalentemente di un comune salito quest'anno agli onori della cronaca perchè è il paese d'origine di Totò Riina. Quindi evitiamo di mandare i siciliani dove stanno i loro corregionali, comprovinciali o compaesani. Naturalmente, a volte incontriamo difficoltà. Quando comandavo la regione Marche - per citare un esempio concreto - per incarico del Servizio centrale di protezione (di cui ancora non facevo parte) abbiamo dovuto rapidamente spostare un collaboratore e la sua famiglia poiché questi aveva segnalato al suo referente di aver incontrato suoi concittadini che si erano recati ad Ascoli Piceno a far visita al figlio che lì prestava servizio militare e più precisamente il primo periodo, quello del CAR. A volte siamo costretti a ricorrere a strutture alberghiere, anche in considerazione del poco tempo di cui disponiamo per trasferire un collaboratore e la sua famiglia. In un'occasione il trasferimento ha coinvolto 26 persone più il collaboratore per il quale, essendo ancora detenuto, vi era una struttura protetta di altro tipo, e siamo dovuti intervenire nel giro di 48 ore. Naturalmente ci siamo appoggiati a strutture alberghiere, anche se cerchiamo di ricorrere a soluzioni di questo genere solo per pochi giorni. Alla fine, sono stati tutti sistemati in appartamenti presi in affitto dal Ministero dell'interno a questo scopo, quindi con i problemi di cui si è parlato prima. La questione del cambio delle generalità è ancora in divenire; le sue considerazioni verranno senz'altro tenute presenti e credo che le problematiche sollevate siano comunque già sottoposte all'attenzione di altri. E' senz'altro nostro interesse che chi ne ha la competenza ponga la massima attenzione possibile a questi aspetti, perché così facendo, probabilmente, avremmo strumenti molto più precisi di quelli di cui attualmente disponiamo e potremmo svolgere le nostre funzioni con maggiore soddisfazione da parte nostra e da parte dei collaboratori di giustizia, il che ci consentirebbe di rendere un migliore servizio allo Stato. Per quanto riguarda la mimetizzazione dei collaboratori, vorrei aggiungere un solo particolare: noi dobbiamo fare affidamento anche sulla condotta dei singoli collaboratori, altrimenti i nostri sforzi, senatore Di Bella, non servono a nulla. Cito per esempio il caso di un collaboratore di giustizia di grosso spessore che, nel giro di tre mesi scarsi, è stato necessario spostare tre volte, perché non perde occasione per evidenziarsi. Altri soggetti dicono un po' a tutti di essere collaboratori di giustizia, quasi fosse una benemerenza o un mestiere. Quindi, la protezione fa affidamento anche sulla consapevolezza del pentito di dover essere egli stesso il primo custode della sua vita, dei suoi beni e dei suoi familiari. SAVERIO DI BELLA. Proprio per questo il cambio di identità totale mi sembra pericoloso. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Su questo non intervengo, perché ne ha parlato ampiamente il prefetto De Gennaro, per cui chiedo che mi sia consentito di astenermi dal rispondere a queste obiezioni. Pagina 621 PRESIDENTE. Si sta parlando, in questo momento, al passato, o già per ciò che si prevede per l'immediato futuro? FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Io ho parlato sempre del presente. PRESIDENTE. Quindi non si prevede, per l'immediato futuro, la possibilità di cambiamenti? FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Io non ne ho parlato. PRESIDENTE. A parte il fatto che ne abbia parlato o meno, è possibile che ci siano cambiamenti di qualche tipo, oppure no? FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Sono quelli delineati dal prefetto De Gennaro. PRESIDENTE. Vorremmo allora qualche precisazione in proposito. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Signor presidente, il generale Valentini, nelle sue risposte, ha fatto riferimento puntuale e preciso agli accadimenti attuali. Per quanto riguarda Verona, sono a conoscenza del caso di cinque collaboratori che, in quel momento contingente, erano in detenzione extracarceraria. Per quanto riguarda, appunto, la detenzione extracarceraria, non verrà mai eliminato il dispendio di risorse in termini di custodia, perché quest'ultima è prevista dalla legge. Può essere soltanto effettuata una valutazione da parte del magistrato, nel momento in cui fa richiesta espressa di quel tipo di detenzione per motivi di sicurezza. Mi permetto, quindi, di distinguere: il regime attuale del modello di sicurezza si basa, come ha ben precisato il direttore del servizio, sull'interazione tra le procedure applicative del programma di protezione fissato dalla commissione attraverso il Servizio di protezione, che poi viene espletato sul territorio dalle forze di polizia. Questo sistema è quello al quale possiamo apportare delle modifiche, cercando quanto più possibile, anche attraverso strumenti quali il cambio delle generalità, di evitare una conoscenza diffusa dell'identità del soggetto, che non ha bisogno, perciò, di una presenza fisica di protezione. Diverso è il caso, invece, del detenuto non assoggettato a regime carcerario, perché essendo necessaria per legge la custodia è chiaro che non si potrà eliminare la vigilanza fisica nei confronti di tale soggetto. Tanto meno si può pensare, in quella fase, all'applicazione di una modalità diversa, perché quest'ultima, intesa come reintegrazione nel contesto sociale, può avvenire soltanto quando vi sia la restituzione ad una vita normale e non da detenuto. Vorrei, in particolare, integrare la risposta del generale Valentini all'onorevole Pasetto: il sistema di protezione scatta dopo che sia stato approvato dalla commissione il programma di protezione. Giustamente, infatti, è stato chiesto quando vengano adottate le misure di protezione vera e propria, compresa l'eventuale modifica delle generalità: ebbene, ciò avviene quando la commissione centrale di protezione, accolta la richiesta del magistrato del pubblico ministero in ordine all'opportunità di assoggettare a protezione un testimone o un collaboratore (il che significa che ne è stata verificata l'attendibilità), decide in merito all'applicabilità del programma di protezione. Soltanto a quel punto scatta la competenza dell'organo esecutivo ad adottare le misure consentite dalla legge. GIANVITTORIO CAMPUS. Data l'ora, non mi dilungherò nei ringraziamenti ai nostri due ospiti, anche perché, per quanto riguarda il dottor De Gennaro, ho già avuto modo di rivolgergli i miei ringraziamenti non tanto per la sua precisa esposizione, quanto per ciò che fa nel combattere la mafia, che credo sia molto più importante. Desidero muovere da una brevissima premessa, che mi piace sottolineare, dato Pagina 622 il clima che si è creato, in cui, chissà perché, si vuole sempre far aleggiare l'incubo che qualcuno voglia fermare la lotta alla mafia. Il trend positivo, cui voi stessi avete accennato, facendo riferimento all'aumento del 70 per cento dei collaboratori di giustizia, credo sia uno degli indicatori più marcati di una nuova sicurezza, di una nuova morale e - credo di poter dire -, di un rinato senso dello Stato con la S maiuscola. Questo credo sia già qualcosa di positivo che sta avvenendo in Italia ed io so a cosa può essere dovuto, anche se alcuni continuano a negarlo. Per quanto riguarda, più specificamente, la vostra presenza in questa sede, credo che in tutte le vostre risposte ed anche in tutte le domande dei colleghi sia stato rimarcato un aspetto, che investe la funzione principale che la nostra Commissione deve svolgere, ossia quella di trait d'union tra voi, che siete impegnati direttamente sul campo, ed il Parlamento. La nostra funzione è quindi quella di fornirvi gli strumenti normativi, modificando le leggi vecchie e proponendone di nuove, che vi diano la possibilità di essere incisivi nella vostra azione. Il generale Valentini ha giustamente ricordato che i tecnici non possono modificare le leggi vigenti, per cui il pentito passa attraverso varie fasi - tipo atti notori - ed il suo nome viene diffuso a vari livelli dell'amministrazione dello Stato. Ebbene, se vi è la necessità di una legge in proposito ditecelo: voi siete i tecnici, noi il potere legislativo, quindi siamo obbligati (moralmente, oltre che per l'impegno assunto nei confronti dei nostri elettori, quindi dei cittadini) a proporre queste leggi al Parlamento, il quale ha il dovere di portarne a conclusione l'iter. Credo quindi sia questo l'aspetto più importante delle audizioni che stiamo svolgendo. Chiaramente, nessuno pensa che possiate venire in questa sede con la "lista della spesa" - anche se sarebbe auspicabile, perché guadagneremmo del tempo -, però è opportuno che tra voi e la Commissione antimafia si instauri un rapporto di collaborazione, più che un clima di inquisizione, che molto spesso ho sentito aleggiare in quest'aula, per cui si è detto che, più che di audizioni, spesso si tratta di udienze in tribunale, con i giudici da una parte e gli imputati dall'altra... ALESSANDRA BONSANTI. Basta, faccia la domanda, questo è un comizio! PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, abbiamo consentito a tutti di parlare. ALESSANDRA BONSANTI. Due comizi sono troppi! GIUSEPPE SCOZZARI. Dopo due comizi, faccia pure la domanda! ALESSANDRA BONSANTI. Faccia "aleggiare" la sua domanda. PRESIDENTE. Colleghi, per cortesia: a tutti è stato dato il tempo per intervenire tranquillamente. Senatore Campus, la prego di concludere il suo intervento (Commenti dei deputati Bonsanti e Scozzari). GIANVITTORIO CAMPUS. Per dovere di ospitalità e di correttezza verso chi effettivamente lavora, mi fermo qui. Grazie... GIUSEPPE SCOZZARI. Ma la domanda? GIANVITTORIO CAMPUS. Preferisco non farla. RENATO MEDURI. Rivolgerò ai nostri interlocutori alcune brevi domande, accompagnate da alcune considerazioni, anch'esse brevissime. Nella gestione dei collaboratori di giustizia, a loro garanzia, occorrono segretezza e sicurezza: si possono conciliare tali esigenze con casi come quelli ricordati dall'onorevole Caccavale di un collaboratore di giustizia ospitato in un piccolo paese del Lazio (mi pare Lavinio)? PRESIDENTE. Non occorre ripeterlo. RENATO MEDURI. Personalmente, non conoscevo neanche il nome di questo paese, per cui credo che si tratti davvero di un piccolo centro. La mia prima domanda, Pagina 623 quindi, è la seguente: non sarebbe il caso di pensare sempre ad un'allocazione dei collaboratori di giustizia in grandi città? Ritengo, infatti, che più grande è il centro abitato, più è difficile la localizzazione di una persona. Sempre a proposito della segretezza e con riferimento alla certezza che quanto si dice corrisponde a verità, quanto può durare la gestione di un collaboratore di giustizia in termini reali? Voglio dire: è possibile che una di queste persone scopra delle verità a distanza, per esempio, di un anno, o di sei mesi, dall'inizio della sua collaborazione? Ritengo che la collaborazione si debba estrinsecare globalmente in tempi accettabili, prima di tutto perché è dubbio che si possa ricordare una verità dopo tanto tempo e in secondo luogo perché più è prolungato il periodo della gestione, più diventa difficile mantenere la segretezza della persona e della sua localizzazione. A mio avviso, il problema del cambio di targa è davvero molto riduttivo: si può vendere la macchina e ricominciare daccapo. E ritengo che si debba ricominciare daccapo, non vi è dubbio, con il cambio totale delle generalità, e in qualche caso, credo, anche dei connotati (possibilmente non per le botte!) (Si ride). A parte i sorrisi di qualche collega, il problema si evidenzia in base a quanto è stato precedentemente detto, per esempio in relazione alle persone che si possono incontrare. Non credo, poi, che si possa pensare di sfruttare le tante omonimie, come ipotizzava il collega Di Bella: il discorso potrebbe anche avere una sua validità, ma quanto è spesso accaduto ci fa pensare che mantenere l'identità delle generalità sia assolutamente sconsigliabile, ed addirittura negativo. Tra l'altro, non sempre tutti coloro che sono preposti all'amministrazione della giustizia e sono chiamati a far rispettare la legge sono assolutamente ineccepibili: può accadere, ed è accaduto, qualcosa di diverso. E' anche avvenuto che, per omonimie, persone dabbene sono andate a finire in galera e ci sono rimaste per tanto tempo: e non sempre si è trattato di errori. Ho un amico, che si chiama Andrea Ruga (il collega Di Bella, che conosce bene i cognomi, sa che questo nome e cognome sono a grande rischio in un paese come Monasterace): ebbene, il mio povero amico, non mafioso ma omonimo di un capo mafia, ha addirittura marcito nelle carceri per due mesi, fino a quando la Corte di cassazione non ha chiarito l'equivoco. Un altro giudice, fazioso quanto il primo (perché si è trattato di giudici faziosi e, in qualche caso, di faide fra giudici), ha addirittura assunto un'altra iniziativa contro l'amico Andrea Ruga, a causa dell'omonimia, mandando una perquisizione in un certo periodo, per cui ha distrutto la salute della moglie... PRESIDENTE. Qual è la sua domanda? RENATO MEDURI. Riguarda la conferma della mia opinione che sia un grave errore pensare di mantenere invariate le generalità dei collaboratori di giustizia. PRESIDENTE. Mi sembra che vi sia già stata una risposta sul problema del cambiamento di nome; comunque, se il dottor De Gennaro vuole aggiungere qualcosa, può farlo. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Signor presidente, a questo proposito non posso che confermare il concetto già espresso. Vorrei sottolineare un aspetto: la grande città, naturalmente, offre delle possibilità migliori di mimetizzazione, ma non è sempre detto, perché sono stati riscontrati determinati problemi per la protezione anche nelle grandi città. Ogni caso, quindi, è contingente e questo conferma la necessità del cambio delle generalità: vi sono casi nei quali esso è assolutamente necessario. Vivere in una grande città comporta qualche volta l'interazione con istituzioni pubbliche e con qualsiasi altra forma di comunicazione con l'esterno, per cui soltanto generalità diverse garantiscono la possibilità di ridurre - non eliminare - il rischio. RAFFAELE BERTONI. Sono d'accordo con il senatore Campus, quando afferma Pagina 624 che è opportuno che funzionari come De Gennaro e Valentini sottopongano alla nostra attenzione le loro idee su eventuali modifiche legislative: una è proprio quest'ultima in materia di cambio delle generalità, nel cui ambito, secondo la loro impostazione, è necessario un intervento legislativo. Analogamente, vi potrebbero essere anche altre proposte. Vorrei dire alcune cose con la franchezza che deriva dall'ammirazione che ho per De Gennaro e Valentini (con quest'ultimo ho collaborato tanti anni fa) di cui conosco la lealtà verso lo Stato e l'impegno antimafia che ambedue svolgono e in cui entrambi credono. Ho rilevato davanti a questa Commissione, così come è avvenuto in occasione di audizioni di altri funzionari, un tantino di... renitenza (non di reticenza, per l'amor di Dio) nel dire tutto quello che si sta facendo e che si vorrebbe fare, come se la Commissione antimafia non fosse un interlocutore privilegiato, istituzionale a cui dovreste doverosamente rispondere con franchezza su tutti i quesiti che vi vengono posti e che rientrano nell'ambito delle vostre competenze. Si è parlato del regolamento che si sta predisponendo (il prefetto De Gennaro ha detto che è questione di pochi giorni), ne avete indicate le linee, ma non siete entrati su alcuni problemi specifici, che pure vi sono stati posti dai commissari, come se la Commissione potesse rappresentare un ostacolo alle elaborazioni che spettano al potere esecutivo. Non è così! Ad esempio, non avete detto con chiarezza se nel regolamento, come potreste fare, intendete operare una distinzione tra il collaboratore, il pentito ed il testimone. E' una distinzione importantissima sotto tutti i profili che sono stati segnalati. Inoltre, non avete risposto ad una questione che avreste potuto affrontare con il regime normativo vigente, come è stato segnalato dai colleghi Di Bella, Grasso, Scozzari. Di fronte a testimoni che perdono la loro vita normale nel momento in cui sono esclusi dal circuito produttivo in cui operano, che vedono messi in pericolo se stessi e gli altri, che non possono uscire nemmeno di casa perché indicati a vista come esseri pericolosi invece che persone che aiutano veramente lo Stato senza aver fatto nulla di male, dovete dirci ciò che vi proponete di fare o che potete fare o che non potete fare perché qualcuno ve lo impedisce. Un'indicazione, ad esempio, potrebbe essere quella di invitare a fare i propri acquisti nella macelleria di cui parlava il senatore Di Bella tutte le persone a disposizione dello Stato (militari e altri), per far capire alla gente che quel negozio dovrebbe essere privilegiato e non escluso. Su questo, francamente, non mi sembra che in questa sede... Mi rendo conto che dipendete dal Governo e non dal Parlamento; tuttavia, avremmo voluto sentire con la massima franchezza e libertà ciò che vi proponete di fare e perché non lo fate. Anzi, se posso essere più esplicito, direi che avete il dovere di farlo perché la Commissione antimafia non è una sede colloquiale. Certamente non siete testimoni ma persone che ricoprono un determinato ruolo e per questo siete ascoltati dalla Commissione, che non deve essere considerata una sede colloquiale dove si può dire e non dire o dire fino a quando si ritiene di dover dire. Vi sono state poste domande specifiche e purtroppo reiteratamente non avete risposto. Su due questioni desidero tornare. Secondo il vostro giudizio (mi rivolgo in particolare al prefetto De Gennaro) attualmente, non nell'ultimo anno, la curva dei pentiti è in ascesa, è ferma o secondo il vostro parere tende a diminuire? Questa è una domanda specifica che vi è stata rivolta dal collega Tripodi, alla quale non è stata data risposta. Si tratta di un giudizio, ovviamente, ma proprio perché non siete testimoni, un giudizio lo avreste potuto esprimere. La seconda questione si riferisce al problema degli infiltrati. Il pentito infiltrato dalla mafia - Valentini lo sa meglio di me - può essere utilizzato dalla mafia stessa per screditare i pentiti a proprio vantaggio, ma può rappresentare anche uno strumento che viene propagandato come possibile per screditare i pentiti non da parte della mafia ma da chi non considera Pagina 625 bene i pentiti. Faccio l'esempio di Tiziana Maiolo. Il prefetto De Gennaro queste cose le conosce e può parlarcene, sia pure riservatamente. Vi risulta l'esistenza di pentiti che, al di là del fatto di essere considerati inattendibili, poco credibili, parzialmente credibili, siano stati inviati dalla mafia per ricoprire questo ruolo? PRESIDENTE. Accogliendo la richiesta del dottor De Gennaro, se non vi sono obiezioni proseguiamo i nostri lavori in seduta segreta. Dispongo la disattivazione del circuito audiovisivo interno. (La Commissione procede in seduta segreta). PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori in seduta pubblica. Dispongo la riattivazione del circuito audiovisivo interno. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Se mi è consentito, vorrei precisare che non vi è né da parte mia né tanto meno da parte del generale Valentini alcuna forma di renitenza a rispondere. Naturalmente, le risposte che possiamo offrire concernono fatti concreti e attuali dei quali abbiamo una conoscenza immediata e diretta. In virtù delle funzioni istituzionali che svolgo ho una conoscenza immediata e diretta del fatto che il regolamento è in fase di definizione e che verrà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Si tratta di un decreto ministeriale adottato, di concerto, dai Ministeri dell'interno e di grazia e giustizia. Da tempo se ne sta occupando un gruppo di lavoro. Vi sono dei tecnici, compresi quelli naturalmente del Ministero dell'interno, i quali stanno offrendo la loro collaborazione (vi sono anche dei magistrati) per la definizione del suddetto regolamento, che è in fase di ultimazione. Non ho un'immediata conoscenza del contenuto di tale regolamento, di cui comunque può essere richiesta copia, visto che si tratta di un documento pubblico e non riservato. In questa materia, senatore Bertoni, molte cose sono riservate perché correlate alla necessità di tutela dell'incolumità delle persone che ne beneficiano. Però, per quella piccola parte di competenza che mi è stata data, ho sostenuto che, nei limiti del possibile, le norme debbono essere pubbliche perché si deve sapere come si applica il meccanismo di protezione, proprio per non lasciare dubbi interpretativi. Ciò che invece è riservato attiene ai fatti più specifici, quale, per esempio, quello relativo alle modalità con cui apporre le generalità su un documento. A tale riguardo, il generale Valentini ha menzionato alcuni dei problemi esistenti. Al quesito formulato dal senatore Di Bella rispondo che non è un problema nostro quello di risolvere concretamente alcune problematiche. Ripeto, da parte nostra, come servizio di protezione, i mezzi di soccorso e di aiuto per persone che hanno subìto... SAVERIO DI BELLA. Il Ministero dell'interno comanda decine di caserme in tutta Italia. Questa è una direzione di tipo amministrativo... GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Senatore, le chiedo scusa ma in questo momento non sono a conoscenza di come funzionino i magazzini, però probabilmente ci sono delle procedure, delle norme, dei contratti di appalto; c'è la contabilità di Stato. Insomma vi è tutta una serie di normative che credo debbano essere... SAVERIO DI BELLA. I mafiosi lo sanno meglio di noi perché molte delle caserme sono servite da mafiosi. ALBERTO SIMEONE. Lo denunci! SAVERIO DI BELLA. Lo sto denunciando. Cos'è questo? Stiamo chiacchierando? ALBERTO SIMEONE. Lo denunzi nelle forme più efficaci (Commenti). PRESIDENTE. Scusate, ma questo non dipende dal prefetto De Gennaro. Pagina 626 ALBERTO SIMEONE. Va denunciato all'organo giudiziario e non ad una Commissione che è di natura diversa, di natura politica e non giudiziaria. SAVERIO DI BELLA. Ma questa è una Commissione d'inchiesta. Chiedo formalmente che la Commissione, attraverso la presidenza, compia - quando lo riterrà opportuno, spero presto - un'indagine per quanto riguarda forniture e servizi a tutti gli organi dello Stato: da quelli militari a quelli civili. PRESIDENTE. Va bene. LUIGI RAMPONI. A proposito di questa inchiesta, ricordo che in materia di appalti esiste la certificazione antimafia. SAVERIO DI BELLA. Non serve a niente! LUIGI RAMPONI. Se non serve a niente allora non serve a niente nemmeno l'inchiesta. Trovavo giustissimo quello che stavi dicendo, ossia di aiutare in qualche modo, anche al di fuori o meno delle regole sull'appalto... ma fare una inchiesta nei confronti di coloro che hanno vinto gli appalti... Ci troviamo di fronte a tutta una serie di dichiarazioni di non coinvolgimento. Quindi faremmo questa inchiesta per scoprire che cosa? GIUSEPPE ARLACCHI. La certificazione antimafia è stata negata in un numero ridottissimo di casi. E' uno strumento notoriamente inutile. LUIGI RAMPONI. Allora, se è così, dovremmo fare l'inchiesta su chi rilascia le certificazioni. PRESIDENTE. Discuteremo in un altro momento su come fare questa inchiesta. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Ho fornito i dati sul numero dei testimoni che collaborano anche se non ho fatto un diagramma per stabilirlo esattamente. Non so se su questo punto il generale Valentini abbia dei dati più puntuali, però tra il 1^ novembre 1993 e il 1^ novembre 1994 si registra un incremento del 70 per cento. Posso comunque fornire tutte le indicazioni (anche perché abbiamo le date precise): il Servizio di protezione è in grado di offrire, momento per momento, un diagramma esatto. PRESIDENTE. Ce lo farà avere con la relazione. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Nella relazione, che sarà puntuale in ordine alle diverse e precise domande che sono state formulate dai membri della Commissione, vi sarà sicuramente anche questa risposta. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Al 1^ gennaio 1994 i collaboratori erano 610; al 1^ novembre 1994 sono 921. Vi è quindi una crescita. Facendo riferimento alla mia personale esperienza da quando ho assunto la direzione del servizio, ovvero dal 1^ agosto ad oggi, l'incremento è stato pari, negli ultimi 3 mesi, a 30 collaboratori al mese. PRESIDENTE. Vorrei tornare per un momento su una domanda che è già stata fatta, se cioè sia vero che esistono alcuni problemi di reticenza o - come si è detto - di renitenza e che vi siano altre cose che si possono dire ma che non lo sono state. In particolare, questo regolamento - di cui ha già parlato il ministro dell'interno - è un atto di cui potete parlare, illustrandone alcuni aspetti, oppure non è possibile farlo fino a quando esso non venga emanato? Lo chiedo perché altrimenti rimane una certa ambiguità su questa futura normativa di cui sentiamo parlare ormai da quasi due mesi. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Signor presidente, il regolamento deve essere emanato ai sensi dell'articolo 9 della legge del 1991. Tale articolo - se ben ricordo, visto che non ho con me la relativa documentazione - prevede espressamente un regolamento concernente la modifica delle generalità, Pagina 627 il sistema di funzionamento del servizio di protezione e della commissione. Per quanto riguarda la modifica delle generalità, ripeto ancora che le norme (che sono disposizioni attuative) stabiliscono che ci debba essere un registro, le relative modalità di redazione, da chi debba essere tenuto, l'esimente di natura di diritto sostanziale, che naturalmente deve essere prevista per chi produce un documento falso. E' tutta una serie di norme - che ora sto citando a memoria - che in linea di massima è già stata approvata nella prima stesura dal Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica (è questo il motivo per cui il ministro ne ha già parlato); sono stati apportati ulteriori correttivi di natura puramente tecnica dal gruppo di lavoro che si riunisce una volta alla settimana e che terrà la seduta finale, se non erro, venerdì prossimo, dopodiché dovrà essere inviata alla commissione centrale di protezione per l'approvazione definitiva e poi pubblicata. GIACOMO GARRA. Mi pare che il parere del Consiglio di Stato sia obbligatorio per legge. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Le chiedo scusa, non vorrei rifare l'esame di diritto amministrativo... PRESIDENTE. Tra poco lo sapremo. GIACOMO GARRA. Fate un regolamento che può essere "infilzato" dal primo pretore che capita! GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Signor presidente, la commissione è composta da giuristi, è presieduta da magistrati che hanno una grossa esperienza. TANO GRASSO. Alcuni regolamenti sono fatti in deroga. PRESIDENTE. Sarà un problema di chi fa il regolamento. RENATO MEDURI. Avevo posto una domanda che forse non è stata ben capita: avevo chiesto ai nostri interlocutori se ritenessero di dover definire in un certo arco di tempo il periodo entro il quale il collaboratore pentito debba dire tutto quello che sa. La domanda non è peregrina. Vi sono state polemiche asperrime, velenosissime, all'interno della magistratura reggina, per esempio, tra magistrati di vari gradi, tra magistrati che si occupano di pentiti ed altri che, a distanza di cinque o sei mesi dall'inizio del pentimento, si vedevano accusati di collusione dal pentito. Non devo fare nomi, perché lei è un magistrato, presidente... PRESIDENTE. No, non li facciamo. RENATO MEDURI. ...e conosce bene i nomi. Posso dire che il primo presidente della corte d'appello è stato invischiato in queste polemiche. La mia domanda aveva un senso preciso, perché questi fatti sono venuti alla mente del pentito sei mesi dopo aver cominciato a parlare. Allora il magistrato che si è sentito chiamato in causa ha pensato di dover delegittimare il magistrato che interrogava il pentito suscitando nella gente la convinzione che nessuno più sia attendibile. La mia domanda - ripeto - aveva un senso preciso: ritengono i nostri interlocutori che debba essere definito uno spazio di tempo entro il quale il pentito deve parlare per dire tutto ciò che sa, per cambiare poi le proprie generalità e scomparire? Altrimenti ognuno lo può utilizzare come e quando vuole nell'arco di decenni. PRESIDENTE. Non mi pare che ciò attenga al tema della sicurezza. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Esiste un codice di procedura penale, e a tale codice bisogna attenersi. Non si possono fare valutazioni sulle norme esistenti; esiste una procedura penale, c'è un magistrato che l'applica, per cui personalmente non ritengo di poter rispondere diversamente a questa domanda. FRANCESCA SCOPELLITI. Credo che il prefetto De Gennaro abbia dato una grossa delusione al senatore Bertoni nel Pagina 628 momento in cui ha parlato di un incremento del 70 per cento del numero dei pentiti... RAFFAELE BERTONI. L'ha detto all'inizio, tu non c'eri. Non è questo che ho domandato! FRANCESCA SCOPELLITI. In questo modo, infatti, il senatore Bertoni non può dare all'imputato Governo Berlusconi anche la colpa di aver ucciso i pentiti. Da qui l'insistenza della sua domanda, da qui la delusione per la risposta che lei ha dato. ALESSANDRA BONSANTI. Lo ha detto all'inizio! RAFFAELE BERTONI. Lo ha detto nella relazione! FRANCESCA SCOPELLITI. Però, poiché io mi baso più sulla qualità che sulla quantità (che credo sia la cosa più importante), la domanda che vorrei porle, prefetto De Gennaro, è la seguente: lei ha detto prima che il programma di protezione viene applicato al collaboratore di giustizia nel momento in cui la commissione stabilisce l'esistenza di un riscontro probatorio sulle accuse mosse, cioè l'esistenza di un valore delle loro accuse e del loro contributo. Fino a quel momento però vi è una fase di collaborazione: da chi viene controllato il pentito in questa prima fase, se non da voi? In secondo luogo, un collaboratore che rientra nel programma di protezione viene a conoscere voi, i vostri agenti, le vostre strategie, i vostri strumenti, gli ambiti in cui vi muovete: se si dovesse rivelare un falso collaboratore, questa persona sarebbe a conoscenza di qualcosa che non dovrebbe sapere o che perlomeno è pericoloso che sappia; non potrebbe poi utilizzare queste conoscenze come ritorsione contro gli organi preposti al controllo? GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Per quanto riguarda la prima domanda, devo aggiungere una cosa, che forse non ho detto prima: il programma di protezione viene approvato dalla commissione ma è proposto sempre dal magistrato; l'organo proponente della magistratura è il procuratore della Repubblica (una volta era anche il giudice istruttore). In attesa che la commissione centrale si pronunci possono essere adottati, per motivi di sicurezza, alcuni provvedimenti di urgenza, sempre su richiesta del procuratore della Repubblica, quale quello della detenzione al di fuori del carcere. Faccio questa precisazione perché si tratta sempre di una decisione assunta dall'organo giudicante: è sempre il giudice per le indagini preliminari, a cui si sottopone la decisione, a disporre che ciò avvenga. Da chi viene effettuato il controllo? Il problema, in questo caso, è rappresentato dalla detenzione extracarceraria; nelle more dell'attuazione di un programma di protezione, se si tratta di detenuto, sono degli agenti a vigilare sulla detenzione, con aggravio per gli organismi territoriali di polizia in termini di risorse umane, al punto che, come sottolineava prima l'onorevole Pasetto, vi è la necessità di impiegare spesso quasi tutte le risorse di una questura; infatti, come nel caso di Verona, vi è stato veramente un esoso impiego di risorse. In questo caso, sono degli agenti di polizia o dell'Arma dei carabinieri, più raramente della Guardia di finanza, a svolgere il compito di vigilanza e di custodia del detenuto al di fuori del regime carcerario. Per quanto riguarda le conoscenze - almeno per quanto ne so - acquisite dal collaboratore nella fase in cui è detenuto non all'interno del carcere ma in un luogo diverso, sono di tipo ambientale. Possono essere certamente conoscenze di tipo ambientale, di cui nessuno può impedire al soggetto in questione di prendere cognizione, relative alle persone addette alla sua custodia e vigilanza, persone che peraltro si alternano proprio in virtù di un sistema di rotazione dei turni di vigilanza; le altre sono cognizioni che riguardano soltanto la sua posizione processuale e, naturalmente, il magistrato. Queste cognizioni non possono esporre a rischio o pericolo la struttura di sicurezza nella misura in cui si limitano a Pagina 629 queste conoscenze di tipo ambientale che riguardano, per esempio, le modalità di svolgimento dei turni; questo può avvenire, per esempio, nel contesto di una caserma: ricordo con certezza che il collaboratore di giustizia Vittorio Ierinò, che era detenuto in un contesto ambientale di caserma, aveva cognizione di questo luogo ed aveva la possibilità di riconoscerlo. In realtà, egli è stato arrestato di nuovo dopo 48 ore, per cui non si sono potuti verificare rischi per tali uffici. ALBERTO SIMEONE. Signor presidente, rimango davvero perplesso, se non sconcertato, dal modo in cui opera questa Commissione, ossia dal modo in cui vengono poste le domande e si sviluppa il dibattito o il rapporto tra chi pone le domande stesse e chi risponde. Ritengo, infatti, che si faccia pura accademia e si tralasci completamente il problema principale. Anche questa sera il dottor De Gennaro ha parlato delle tecniche di contrasto alla criminalità organizzata, ma ritengo che la tecnica di contrasto sia una sottospecie della lotta alla criminalità o un suo particolare aspetto; che sia un particolare aspetto lo dimostra il dibattito finora svolto, nel modo in cui si è sviluppato, nel corso del quale si è parlato del collaboratore di giustizia. Sono quindi portato a pensare che potremmo trovarci di fronte ad una nuova figura, quella del collaboratore di professione, per cui, oltre alle forze dell'ordine, potremmo arruolare anche un esercito di pentiti. Credo che il pentitismo sia un problema particolare che riguarda una sparuta minoranza di persone, quelle cioè che riescono a liberarsi di determinate remore di ordine psicologico, morale e anche umano in senso lato, e assicurano la loro collaborazione trasmettendo le proprie conoscenze alle forze dell'ordine. La Commissione antimafia dovrebbe vagliare e studiare il fenomeno nella sua interezza e non si dovrebbe, in questa sede, parlare di curva dei pentiti o di diagrammi, come se fosse da ascriversi a questo Governo il fatto che le cose vanno male o che la criminalità organizzata si è organizzata ancora meglio (mi si perdoni la cacofonia) per combattere uno Stato che fino a qualche tempo fa non era certamente in grado di rispondere in maniera efficace alla lotta che essa era riuscita a portare al cuore dello Stato stesso. Gli esempi sono tanti e talmente rilevanti da non richiedere commenti da parte mia. Come dicevo, queste tecniche di contrasto, prefetto De Gennaro, sono naturalmente limitate, perché il problema è quello di combattere la mafia non mediante tecniche particolari ma attraverso un modo di vedere il problema in tutta la sua essenza e in tutta la sua vasta portata. Allora, se dobbiamo combattere questo fenomeno malavitoso, dobbiamo farlo tenendo presenti non altre possibili tecniche (la tecnica, come dicevo prima, è una sottospecie della lotta alla criminalità), ma nell'ambito di una lotta che comprenda in maniera globale un modo di interpretare il fenomeno mafioso. La Commissione antimafia ne è l'interlocutore naturale, ma certamente alcuni modi di operare vanno esaminati e scelti non tramite le consultazioni ma attraverso i contatti diretti che le forze di polizia possono stabilire o avere con il fenomeno malavitoso. Questo modo di combattere dovrebbe andare, quindi, oltre e abbracciare tante tecniche, non soltanto quella dei pentiti. Si dovrebbe allora - lo ripeto - andare molto al di là, anche attraverso una rivisitazione degli strumenti offerti dall'ordinamento penitenziario, il quale andrebbe completamente rivisitato, oltre che nelle sedi competenti, anche nell'ambito delle forze dell'ordine, che attraverso quegli strumenti, modificati o resi più attuali ed efficaci, potrebbero controllare meglio questo fenomeno. Oltre tutto, le forze dell'ordine potrebbero svolgere un ruolo ancora più determinante se riuscissero ad avere una presenza sul territorio intesa in senso globale, anche come presenza fisica, perché a volte anche la presenza fisica può dare la sensazione (e non si tratta soltanto di una sensazione) della presenza dello Stato. Quindi, le tecniche si devono affidare ad un progetto molto più vasto, di cui rappresentino Pagina 630 soltanto il mezzo più fine per combattere un fenomeno che ha assunto toni e vastità davvero impensabili fino a qualche anno addietro. PRESIDENTE. Mi sembra che questa fosse una constatazione, non una domanda. ALESSANDRA BONSANTI. Noi siamo molto contenti del fatto che i mafiosi continuino a pentirsi e dei dati che il prefetto De Gennaro ci ha fornito in apertura della sua relazione, come forse non si è accorto qualcuno che è arrivato tardi. Proprio perché siamo molto contenti che i mafiosi continuino a pentirsi, vorrei chiedere (ritengo di non averlo compreso del tutto) se lo strumento legislativo attuale sia sufficientemente chiaro e non troppo farraginoso, per cui si possa avere un regolamento sufficientemente efficace in rapporto a quello che voi ritenete necessario, ossia il cambio di identità, oppure se, a vostro avviso, vi sia nella legge qualcosa che potrebbe essere modificato o semplicemente rivisto. Vorrei inoltre chiedervi se i collaboratori della giustizia siano in qualche modo collegati tra loro e, nel caso in cui tale collegamento esista, se riteniate utile che qualcuno di loro possa venire in Commissione a raccontarci direttamente che cosa significhi pentirsi di mafia e vivere la vita del pentito. FRANCESCA SCOPELLITI. La domanda sul numero dei pentiti è stata posta dal senatore Bertoni; forse, quindi, è stato lui ad arrivare tardi. RAFFAELE BERTONI. Non hai capito: avevo chiesto un giudizio prognostico, non quanto il dottor De Gennaro aveva già detto; altrimenti, sarei cretino: tutto sono, fuorché cretino! (Commenti del senatore Scopelliti). Avevo chiesto - lo ripeto - una prognosi, non quello che il dottor De Gennaro aveva già detto all'inizio del suo intervento. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. L'onorevole Bonsanti ha chiesto se gli strumenti legislativi che abbiamo oggi a disposizione ci consentano di attuare il programma di protezione. Certo, per qualche aspetto hanno dimostrato alcune carenze: manca, per esempio, la possibilità di attribuire ai collaboratori di giustizia nuove generalità, possiamo dotarli solo di documenti di copertura che però, come ho detto prima, non servono a molto. GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. L'onorevole Bonsanti chiedeva se lo strumento legislativo attuale sia efficace come norma primaria per poter dar luogo alle norme secondarie. FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Mi pare di no; per il regolamento di cui ha parlato prima il prefetto De Gennaro sarà emanato un decreto, quindi probabilmente riusciremo a risolvere le problematiche che adesso ci troviamo frequentemente di fronte. Per quanto riguarda la possibilità che i collaboratori di giustizia vengano in Commissione per raccontare le loro esperienze, non saprei fornire indicazioni, ma mi pare che qualche collaboratore abbia chiesto al presidente Parenti di essere convocato. PRESIDENTE. Non è esattamente così: c'è stata qualche lamentela dal carcere di Spoleto... FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. Sì, ma quelli non sono collaboratori. Non saprei, comunque, indicare chi è disponibile a venire a riferire alla Commissione. ALESSANDRA BONSANTI. Presidente, è possibile proseguire in seduta segreta? PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni, proseguiamo i nostri lavori in seduta segreta. Dispongo la disattivazione del circuito audiovisivo interno. (La Commissione procede in seduta segreta). Pagina 631 PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori in seduta pubblica. Dispongo la riattivazione del circuito audiovisivo interno. Questa sera la discussione si è forse un po' sfilacciata: la Commissione ha bisogno di conoscere la tipologia del collaboratore nelle problematiche successive. Ad esempio, si è parlato di lauree, anche se non credo ci siano molti collaboratori laureati, che possano accedere ad elevati gradi di professionalità successivi. Comunque noi dobbiamo occuparci dei problemi personali di questi soggetti nel bene e nel male, dai paradossi - e so che ce ne sono molti - alle cose giuste. Il generale Valentini ha indicato esempi che sono senz'altro significativi, ma noi abbiamo bisogno di una sintesi che definisca la tipologia del collaboratore di giustizia, altrimenti, se ascoltiamo dei pentiti che si lamentano, non abbiamo un metro di giudizio per valutare se le loro proteste siano fondate o meno. E' necessaria una casistica sintetica sì, ma nello stesso tempo piuttosto estesa. ALESSANDRA BONSANTI. Magari non si lamentano affatto, anzi! GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della Criminalpol. Dagli atti del Servizio di protezione, abbiamo conoscenza di una serie di disfunzioni, in parte fisiologiche, in parte eliminabili, che hanno rappresentato - l'ho detto nella relazione - delle anomalie per questa fase di gestione dell'attività di sicurezza, anomalie dovute a carenze normative, in termini di norme secondarie non primarie; ho detto anche che vi sono stati fatti emergenziali che hanno acuito queste discrasie e queste apparenti disfunzioni (mi consenta, presidente, di sottolineare il termine apparenti, poiché nessuno di questi collaboratori ha subìto danni tali da compromettere la sua sicurezza), delle quali noi come rappresentanti delle istituzioni non abbiamo fatto mistero. Le lamentele più ricorrenti, al di là di quelli che lei giustamente ha indicato come paradossi, sono quelle derivanti da un sistema di imperfetto reinserimento nel contesto sociale, che provoca tutta una serie di conseguenze: dalla difficoltà di acquistare un'autovettura e doverla intestare a proprio nome, al fatto di avere un documento di copertura temporaneo e non possedere il codice fiscale per trovare un lavoro. Sono queste le disfunzioni alle quali stiamo cercando di porre rimedio e lo strumento essenziale è costituito dalla possibilità di un cambiamento di identità. Questo mi sono sentito di riferire alla Commissione, proprio per offrire una casistica in termini sintetici delle problematiche lamentate. Ciò anche in relazione all'episodio verificatosi a Padova, dove alcuni collaboratori hanno ritenuto di evidenziare in un contesto pubblico - perché lì gli è stato possibile farlo - quali erano le loro problematiche per le quali richiedevano una soluzione definitiva in termini di maggiore urgenza. PRESIDENTE. Sono molti quelli che si lamentano, oppure sono una minoranza? FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di protezione. I casi più eclatanti sono dieci, ma le persone interessate sono molte di più. PRESIDENTE. Non vi sono altri colleghi che intendono porre domande. SAVERIO DI BELLA. Presidente, non si può continuare in un equivoco: io vorrei che, almeno qui, avessimo chiara la distinzione tra Governo e Stato. Chi vi parla è tra coloro che, da anni, si sono schierati contro i governi sul terreno della mafia, ma è anche da anni tra coloro che cercano di difendere lo Stato nell'Italia meridionale. Vorrei, allora, che questa distinzione venisse mantenuta, altrimenti creiamo degli equivoci, perché non si può confondere la gente che ha sempre rappresentato l'antimafia nell'Italia meridionale a proprio rischio (e ce ne sono decine, qui e fuori di qui) con coloro i quali dello Stato non hanno mai tenuto conto oppure hanno deciso di essere neutrali. Qui c'è gente che ha difeso lo Stato e lo difende, distinguendo tra Stato e governi. Se questo Governo farà meglio degli altri, saremo tra Pagina 632 quelli che gliene daranno atto e ne saranno felici. RAFFAELE BERTONI. Intervenendo sui lavori della Commissione, invito il presidente a richiedere al Governo la trasmissione dello schema di regolamento sui collaboratori di giustizia prima della sua approvazione, affinché la Commissione possa esprimere, in sede riservata, un parere. PRESIDENTE. Ringrazio il dottor De Gennaro e il generale Valentini. Ricordo che giovedì prossimo alle 8,30 è convocato l'ufficio di presidenza della Commissione. La seduta termina alle 23,50.