Pagina 633 PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TIZIANA PARENTI INDICE Audizione del dottor Giancarlo Caselli, procuratore della Repubblica, e del dottor Guido Lo Forte, procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo: Parenti Tiziana, Presidente ............... 635, 640, 644 648, 655, 660, 666, 678, 681, 682 Arlacchi Giuseppe .............................. 657, 669 Ayala Giuseppe ............................ 655, 657, 659 Bertoni Raffaele ..................... 652, 654, 655, 674 675, 676, 681, 682 Bonsanti Alessandra .................................. 678 Brutti Massimo .............. 650, 663, 670, 674, 675, 680 Caccavale Michele .............................. 671, 678 Caselli Giancarlo, Procuratore della Repubblica di Palermo ................................ 635, 642, 645, 647 651, 655, 657, 659, 660, 662, 663, 664, 665 666, 667, 672, 674, 675, 676, 678, 681, 682 Garra Giacomo ................... 676, 679, 680, 681, 682 Grasso Tano .......................................... 679 Imposimato Ferdinando .......................... 644, 647 Lo Forte Guido, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo ............................ 641 642, 648, 652, 654, 660, 668, 670, 678 Manconi Luigi ........................................ 679 Scivoletto Concetto .................................. 676 Scozzari Giuseppe ..................... 654, 657, 660, 663 665, 666, 667, 681 Pagina 634 Pagina 635 La seduta comincia alle 19. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente). Audizione del dottor Giancarlo Caselli, procuratore della Repubblica, e del dottor Guido Lo Forte, procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Giancarlo Caselli, procuratore della Repubblica di Palermo, accompagnato dal procuratore aggiunto, dottor Lo Forte. Come già programmato dal gruppo di lavoro 1, l'audizione del procuratore della Repubblica di Palermo viene svolta dalla Commissione plenaria sul tema generale dei collaboratori di giustizia e, più in particolare, sulla problematica che si apre con riferimento alla loro gestione. Il dottor Caselli farà un'introduzione che verrà completata dal dottor Lo Forte, cui seguiranno le domande dei commissari: mi raccomando, ovviamente, che le domande siano formulate in maniera tale da consentire ai nostri ospiti di rispondere, anche con riferimento ai tempi. Do la parola al dottor Caselli. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Quello odierno è per noi un esordio, almeno da quando lavoro negli uffici della procura di Palermo: è un esordio che riteniamo molto importante e significativo, di cui non possiamo che ringraziare la Commissione tutta ed il suo presidente. Consideriamo infatti da sempre estremamente importante ed utile il rapporto con la Commissione parlamentare antimafia, pur naturalmente nella diversità delle nostre competenze, per avere indicazioni, s'intende non di carattere tecnico-giuridico ma di supporto generale al nostro intervento, e per poter offrire da parte nostra indicazioni che nascano dall'esperienza e possano servire al vostro lavoro. Avrebbe dovuto essere insieme a noi anche il dottor Aliquò, il procuratore aggiunto che, nella ripartizione dei compiti all'interno del nostro ufficio, si occupa un po' più degli altri delle problematiche relative ai pentiti, ma a Palermo serpeggia una gravissima forma influenzale, di cui ho personalmente qualche segno indosso, mentre il dottor Aliquò è addirittura allettato e quindi nell'impossibilità di essere presente in questa sede. Cercheremo, comunque, per quanto possibile, sulla base della nostra esperienza, di supplire alla sua assenza. In alcune delle cose che diremo, vi saranno a volte accenti critici per disfunzioni o per meccanismi che avrebbero potuto, o dovrebbero, o potrebbero funzionare meglio: sia chiaro fin da subito, non come clausola di stile o come esercizio di retorica, ma come convinzione autentica, che non vi sarà mai l'intenzione di criticare Pagina 636 i singoli operatori di un determinato servizio, di una determinata struttura, di un determinato settore. Chi deve curare, seguire, realizzare la sicurezza e l'assistenza dei pentiti e dei loro familiari - credo che sia persino banale ricordarlo - deve assolvere a un compito estremamente difficile, con mezzi molto scarsi, considerato il numero dei pentiti e dei loro familiari, con una preparazione specifica che a volte è quella che è per la mancanza d'integrazione di altri saperi: per esempio, gli assistenti sociali, gli psicologi, che sarebbero estremamente importanti in questo tipo di lavoro, probabilmente, sono non numerosissimi, se non del tutto assenti. Non saranno mai, quindi, critiche ai singoli, od osservazioni in qualche modo collegabili al comportamento di questo o quel soggetto, di questo o quel funzionario: saranno semmai considerazioni da proiettare sempre ed unicamente sul meccanismo, sull'articolazione obiettiva del sistema di protezione così come delineato dall'attuale disciplina legislativa e regolamentare. Va peraltro tenuto conto, in ogni caso, che, benché sia passato un po' di tempo, per quanto riguarda l'esperienza del nostro paese, siamo pur sempre in una fase iniziale, che se non è propriamente di rodaggio è quanto meno di sperimentazione, anche se ormai avanzata e protratta; ma proprio perché ancora, per certi profili, di sperimentazione, è una fase che fisiologicamente ed inevitabilmente non può non comportare esigenze di assestamento, e quindi anche momenti di disfunzione. Per rendere assolutamente insopportabile questa premessa, aggiungo un altro capitolo, sempre introduttivo e preliminare: in ogni caso, la nostra conoscenza di magistrati, ancorché del pubblico ministero e della procura di Palermo, relativa ai problemi legati alla sicurezza e all'assistenza è parziale. Credo di potermi spiegare ricorrendo alla mia passata esperienza di quando, in qualità di giudice istruttore a Torino, mi occupavo principalmente di inchieste su fatti di terrorismo: di pentiti e di problemi di sicurezza ce ne sono stati moltissimi anche allora, anche se si trattava di problemi lontani mille miglia da quelli che si devono affrontare con la criminalità organizzata di tipo mafioso. Personalmente non ho mai voluto sapere - ed ancora oggi non so e spero di non sapere mai - per esempio dove viva Patrizio Peci, perché, secondo me, sono cose che, non rientrando nella sua competenza, il magistrato non deve sapere. Poiché tali elementi sono pertinenti alla sicurezza del pentito, il magistrato non è tenuto a conoscerli, ed anzi, se non li conosce, dal mio punto di vista è meglio sia per lo stesso magistrato sia per tutti. La nostra conoscenza del modo in cui tali fenomeni vengono disciplinati e tali problemi vengono o non vengono risolti è soltanto parziale, e molte volte risente delle componenti patologiche, delle tensioni: il magistrato viene coinvolto in queste problematiche quando le cose non funzionano, quando è necessario rivolgersi ad un soggetto terzo per vedere se si riesce a farle funzionare meglio, ma non è assolutamente detto che nel momento in cui ci si rivolge al magistrato la campana che suona sia obiettiva; soprattutto non è assolutamente detto che facendo suonare contemporaneamente altre campane il concetto complessivo non finisca per essere diverso da quello che la conoscenza parziale - ribadisco la parzialità della nostra conoscenza - finisce per attribuirci. Esaurita questa premessa, per entrare subito nel tema che la presidente ci ha proposto, credo che si debbano ricordare le forti tensioni che si sono manifestate nello scorso mese di settembre. Ci sembra che i problemi siano in fase di sostanziale superamento, pur se le notizie che abbiamo in merito al loro avvio a soluzione sono frammentarie; credo che spetti principalmente alla Commissione - anche se non tocca sicuramente a me indicare cosa quest'ultima debba o non debba fare -, poiché essa ha i poteri, le competenze ed i mezzi, registrare la situazione di malessere che si è verificata a settembre ed appurare se i problemi che l'avevano determinata siano in fase di irreversibile soluzione. Pagina 637 Le nostre considerazioni sono incentrate nella realtà di Cosa nostra perché la nostra esperienza di lavoro è ad essa circoscritta (ammesso che si possa parlare di un lavoro circoscritto a proposito di Cosa nostra); è anche vero che quest'ultima rappresenta - dico cose che loro certamente sanno meglio di me - un unicum nel panorama complessivo della criminalità organizzata. Questo non perché consideriamo Palermo come l'ombelico del mondo o la procura di Palermo come l'ombelico degli uffici giudiziari; forse qualche volta, inconsapevolmente, ci capita di ragionare in questi termini, ma sicuramente, al di là di quella che può essere una sorta di ipervalutazione di noi stessi, Palermo rappresenta una realtà, anche per quanto riguarda i problemi dei pentiti, che purtroppo non ha eguali in nessun'altra città d'Italia e forse del mondo. E' a Palermo che si sono registrati tutti gli omicidi cosiddetti eccellenti: magistrati, prefetti, carabinieri, poliziotti, politici e, da ultimo, sacerdoti; è soprattutto a Palermo che si è verificata una preoccupante quantità di omicidi trasversali nei confronti di parenti di pentiti, a cominciare da Buscetta per proseguire con Marino Mannoia, e riteniamo che purtroppo questa tecnica di intervento criminale non si sia esaurita. Mi riferisco esclusivamente alle notizie che sono state pubblicate anche dalla stampa, perciò a notizie considerate pubbliche ed alla prospettazione che di questi fatti è stata data - e conseguentemente alla pubblicità di questi fatti mi richiamo -, citando un fatto qualificabile come di lupara bianca ai danni di un certo Rendo (se non ricordo male il cognome), che è stato prospettato da alcuni organi di stampa come possibile, forse probabile, vendetta trasversale nei confronti di un pentito, per così dire, dell'ultima generazione, un pentito di primaria importanza. Anche di recente molti giornali hanno parlato, sia pure per incidens, delle vicende del figlio di Di Matteo Mario Santo, che è sicuramente stato, e probabilmente si trova ancora, in una situazione strumentalmente usata dalla mafia ai fini di suo esclusivo interesse criminale. E' su Palermo che c'è stata questa concentrazione vuoi di omicidi eccellenti, che fanno di Cosa nostra un unicum anche da questo punto di vista, vuoi di vendette trasversali nei confronti dei familiari dei pentiti: intere famiglie decimate o abbattute proprio perché nel pentitismo Cosa nostra ha sempre visto, e sicuramente continua a vedere, un nemico esiziale della sua compattezza, della sua solidità e della sua capacità di rimanere forte e con quella caratteristica di espansività che ne fa uno dei punti di forza e di caratterizzazione rispetto alle altre organizzazioni criminali. Questa specialità, questo essere un unicum che caratterizza Cosa nostra fa sì che i pentiti siano anche loro di qualità particolare: sarebbe persino ipocrita non ricordarlo nel momento in cui si affronta il capitolo dei rapporti fra mafia e politica, tutto da verificare. I giudizi devono ancora cominciare oppure sono ancora di là da venire perché le indagini preliminari sono ancora in corso, ma si tratta di un capitolo che i pentiti di Cosa nostra hanno aperto. Anche i problemi di sicurezza posti dai grandi pentiti di Cosa nostra - grandi per il contributo, sia pure tutto o in parte da verificare o in corso di verifica - sono sicuramente speciali, senza volersi assolutamente considerare l'ombelico del mondo, né togliere nulla all'importanza, alla delicatezza ed alla complessità dei problemi che i pentiti pongono ovunque altrove. Ho ricordato il disagio e la tensione registrati nello scorso mese di settembre: c'è stato un momento in cui le preoccupazioni si moltiplicavano in misura tale che si era deciso di farne un piccolo dossier, che poi non abbiamo utilizzato, se non per nostra conoscenza interna, perché ci è sembrato che i problemi stessero avviandosi a soluzione, anche soltanto prospettandoli verbalmente o discutendone con le autorità competenti, alle quali erano ben presenti, e per i quali esse per prime si preoccupavano di trovare una soluzione. Leggendo una pagina a caso in cui si parla di disagio, tra le tante che erano state redatte in quel periodo, vediamo che le principali lamentele erano: inadeguatezza delle misure di protezione (in questa specifica fase, che, Pagina 638 come vedremo, era di transizione, con problemi che ora sostanzialmente dovrebbero essere in via di soluzione); eccessiva burocraticità del rapporto con i responsabili del servizio; lentezza nell'affrontare alcuni problemi; il problema del cambio di generalità costantemente irrisolto; difficoltà di inserimento scolastico dei figli dei collaboratori; lungaggini nelle procedure di rimborso delle spese sostenute dai medesimi. Se volessimo far parlare, nel linguaggio certamente non particolarmente colto, ma forse più significativo, uno di questi soggetti, ascolteremmo frasi come "assoluta irrisolutezza di tutti i miei problemi", oltre al riferimento a delusione, a interventi tampone e non organici, a spostamenti nel corso dei quali la tutela viene assicurata da due soli uomini senza molta esperienza, alla mancanza di un'auto blindata, in particolare in aeroporto, e così via. Vi è poi soprattutto, reiterato, insistito - rappresenta praticamente una costante - il riferimento alla mancanza di documenti di copertura oppure a documenti di copertura non particolarmente utilizzabili, oltre al problema, che è sullo sfondo, del cambio di identità. Questo malessere - definiamolo così - del settembre 1994 si ricollegava ad un momento di ristrutturazione delle concrete modalità di funzionamento del Servizio centrale di protezione, ristrutturazione che comportava anche un decentramento; parlo - lo ripeto - per grandi linee, perché, per i motivi che ho premesso, non conosco analiticamente e specificamente i particolari. Parlando per grandi linee, ci è sembrato di capire che il nuovo schema fosse non più quello del servizio che va dal collaborante, dal pentito, ma che in una certa misura fosse quest'ultimo a dover andare verso le strutture periferiche, verso i terminali periferici del Servizio; ciò significa che il pentito doveva portarsi personalmente presso commissariati, caserme dei carabinieri, uffici, appunto, periferici e, recandosi personalmente in questi luoghi, affrontare e risolvere i suoi problemi, con tutta una serie di conseguenze obiettive che i pentiti non facevano difficoltà ... Ricordiamo (chiedo scusa se mi permetto di usare questo linguaggio) che un dato obiettivo assolutamente ineludibile quando si fanno queste riflessioni sul problema del pentimento con riferimento a Cosa nostra è rappresentato dal fatto che i pentiti di tale organizzazione sono condannati a morte, sanno di esserlo, conoscono Cosa nostra, sanno che essa aspetta anche dieci anni, come nel caso di Leonardo Vitale, ma alla prima occasione esegue la condanna a morte. Essi sono vissuti in Cosa nostra, l'hanno praticata, si sono identificati con essa per anni e anni commettendo svariati omicidi; la loro identità è quella dell'uomo d'onore che da Cosa nostra ha avuto tutto; essi conoscono le regole di Cosa nostra, le hanno vissute, praticate e applicate come nessun altro e le ricordano ancora anche nel momento in cui si sono dissociati; sanno quindi di essere dei condannati a morte e sono consapevoli che, non appena vi siano gli spazi tecnici, oltre che la decisione di carattere tattico o strategico, questa condanna a morte sarà eseguita. Essi allora vivono costantemente in una situazione che li rende particolarmente avvertiti e sensibili, qualche volta anche ipersensibili (questo si può anche capire, dal punto di vista psicologico), ai rischi ed ai problemi che corrono, all'aumento del tasso di rischio e di pericolo a causa della mutata situazione di sicurezza, di protezione, di rapporto con il Servizio di protezione. Il fatto che sia lo stesso pentito a dover andare presso la struttura, sia pure periferica, del Servizio, dovendosi così esporre di più a causa della necessità di frequentare persone che non sono sempre le stesse, ma magari diverse di volta in volta, e a dover frequentare strutture frequentate anche da terzi, anche da gente che va in quegli uffici per le sue normali esigenze, uffici - me lo sono sentito dire molte volte - in cui lavorano anche ragazzi di leva, che quindi sono sottoposti ad una selezione ben diversa da quella propria di un servizio centrale di protezione, tutto questo è sembrato anche a noi non un fatto campato in aria, inventato, né frutto di Pagina 639 suggestione, ma un problema reale e obiettivo che si traduce in un aumento del tasso di rischio. Consentitemi di fare riferimento a una certa esperienza che ho maturato come giudice istruttore a Torino quando mi occupavo di inchieste sul terrorismo. Per dire come queste cose siano obiettivamente, effettivamente pericolose e non si tratti soltanto di paure e sensazioni individuali, ricordo che mi porto dentro un'esperienza che mi pesa ancora, tanto per fare un po' di autocoscienza (così si dice): capitò a me e ad altri colleghi di Torino, giudici istruttori e pubblici ministeri, di interrogare un ragazzo militante di Prima linea ed in quel momento sapevamo ancora pochissimo di tale organizzazione. Questo ragazzo ci disse delle cose che in quel momento letteralmente non capimmo: parlò di un tizio - fummo in grado di capirlo soltanto dopo mesi - rivelandocene anche il nome di battaglia; era un comandante di livello molto alto nell'ambito di Prima linea, uno dei capi principali dell'organizzazione. Non avevamo però, in quel momento, elementi di conoscenza e dati sufficienti per capire quanto questo ragazzo ci aveva detto; sapevamo di una sua posizione marginale e conseguentemente, come le carte processuali (per usare questo orribile linguaggio burocratico, visto il seguito della storia) ci imponevano, gli concedemmo - se non ricordo male - la libertà provvisoria o comunque egli recuperò una situazione di libertà, con obbligo di presentazione periodica in una caserma dei carabinieri o in un commissariato di polizia. Prima linea, che in realtà sapeva benissimo che cosa egli avesse detto e quali chiavi di lettura, in progresso di tempo, avremmo potuto utilizzare, lo considerò un pentito, anche se non lo era; proprio perché obiettivamente, se non soggettivamente, pentito, in quella fase di primo affacciarsi di pentimenti sul versante del terrorismo, l'organizzazione decise di punirlo e potè colpirlo facilmente proprio utilizzando l'obbligo, che noi gli avevamo imposto, di presentarsi periodicamente, con la conseguente facilità nel seguirne i percorsi e nel tendergli un agguato che, nel caso di specie, fu mortale. Voglio dire che l'obbligatorietà, la burocratizzazione, in una certa misura, di tutto ciò che direttamente o indirettamente influisce sulla sicurezza diminuisce la sicurezza medesima. Quello che ho ricordato del militante di Prima linea è sicuramente un caso limite, ma l'ho ricordato soprattutto per cercare di sottolineare e di rendere quanto più possibile evidente che se, anziché instaurare il rapporto inverso, ossia del Servizio che avvicina riservatamente, sempre e soltanto con gli stessi uomini, il soggetto, si obbliga invece il soggetto stesso ad andare verso il Servizio, che magari può essere ogni volta diverso nelle sue articolazioni, questo può rappresentare un problema, soprattutto se il fatto di doversi recare al Servizio si collega alla mancanza di documenti di copertura (il discorso ritorna) e di una nuova identità; ne deriva quindi un'automatica esposizione di sé, per esempio, come Giancarlo Caselli o Guido Lo Forte di fronte a coloro che di Giancarlo Caselli e Guido Lo Forte, residenti e domiciliati in quella certa zona, cittadina o città, nulla dovrebbero sapere, perché non facenti parte del Servizio centrale di protezione. Il problema principale della sicurezza dei pentiti, cioè la mimetizzazione, finisce per essere posto a rischio, reso assai più difficile e ostacolato con questo tipo di ristrutturazione. A nostro avviso, il cardine fondamentale di tutta questa problematica resta quello del cambio di identità; tutti i paesi del mondo che hanno dovuto affrontare e affrontano problemi di questo tipo, di collaboratori di giustizia da proteggere, con un servizio che può chiamarsi marshal o in qualunque altro modo, risolvono preliminarmente e mettono da parte il problema del cambio di identità, perché ciò è conditio sine qua non per poter poi procedere seriamente. Se non si risolve questo problema tutto diventa più difficile, più complicato e, se non insolubile, particolarmente intricato. Detto tutto questo e fattolo risalire a non molto tempo fa (al settembre scorso), Pagina 640 va detto che vi sono molti segnali, anche se - lo ribadisco - da noi frammentariamente conosciuti, i quali ci inducono a ritenere che la situazione sia sostanzialmente in fase di rasserenamento e che quello stato di malessere, di disagio, quanto meno di timore circa una diminuita sicurezza, sia in gran parte sostanzialmente rientrato. Dovrebbe essere avviato a soluzione il problema della disciplina con un apposito regolamento del cambio di identità e dovrebbe essere stato realizzato, dovrebbe essere in atto un forte impegno, un forte sforzo da parte del Servizio centrale di protezione di razionalizzazione e quanto meno di eliminazione delle punte più spigolose, più pericolose del sistema, ricollegabile soprattutto alla fase di transizione, alla fase di nuova strutturazione, alla fase di ricerca di nuovi schemi di intervento per la tutela e la sicurezza dei pentiti. Un po' presuntuosamente, perché insegnare agli altri che cosa fare e che cosa non fare è davvero molto presuntuoso - loro sanno che i magistrati soffrono di delirio di onnipotenza, o per lo meno vengono accusati di delirio di onnipotenza o di straripamento continuo -, vorrei permettermi (fuor di scherzo, perché non c'è molto su cui scherzare in questa materia) di ricordare come, già ai tempi di Falcone, la questione del cambio di identità, ad esempio, fosse prospettata come ormai risolta, come questione la cui soluzione era ormai questione di giorni, se non di ore, ai fini della sua traduzione in cifra legislativa o regolamentare, e come, viceversa, siamo ancora qua, e due anni dopo Capaci, a porci questo problema, per noi davvero fondamentale, il problema cardine di tutta la problematica della sicurezza dei pentiti. Credo allora che la Commissione debba essere sempre noiosa, sempre petulante, sempre alla ricerca di costanti verifiche che questo discorso, che questo problema - se naturalmente fosse condivisa, come mi auguro, l'importanza che noi connettiamo al problema del cambio di identità - sia non soltanto avviato a soluzione, ma definitivamente e irreversibilmente ridotto. Se questo, infatti, dovesse avvenire, allora uno strumento che consideriamo molto complesso e molto difficile, per il quale si devono esercitare tutta la nostra attenzione, il nostro scrupolo, la nostra verifica quasi maniacale di ogni dichiarazione, di ogni risvolto di ciascuna dichiarazione e di tutti gli interstizi che tra dichiarazione e dichiarazione possono presentarsi, con tutte queste difficoltà, con tutte queste complessità, che sono il nostro mestiere (per alcuni di noi, se non da sempre, da parecchi anni a questa parte), rimarrà uno strumento insostituibile allo stato degli atti, soprattutto con riferimento a Cosa nostra, laddove, essendo essa prima di ogni altra cosa un'organizzazione particolarmente efficiente, soltanto chiavi di lettura del suo assetto organizzativo e quindi interne all'organizzazione ed offerte dai pentiti in quanto già militanti dell'organizzazione stessa ed in quanto trovatisi in condizioni tali da potersi impadronire dei suoi meccanismi di funzionamento interno, soltanto con questo contributo è possibile - allo stato degli atti - impostare una seria strategia di risposta a Cosa nostra. Mi fermerei a questo punto, se quanto ho detto appare sufficiente, restando a disposizione per rispondere alle domande che loro riterranno di porre. PRESIDENTE. A noi interessa, anche al fine di completare quanto lei ha detto con l'apporto del dottor Lo Forte, ascoltare proposte sul sistema di protezione nel suo complesso, e quindi fin dall'inizio. Inoltre, alla Commissione e più specificamente al primo gruppo di lavoro (che si interessa delle verifiche normative in materia di legislazione antimafia) interessa l'eventuale indicazione di collaboratori di giustizia che possano essere significativi relativamente a problematiche che si possano porre e che non siano ancora sufficientemente note. Resta inteso che, se dovessero essere trattati argomenti non ancora pubblici, potrà essere sospesa l'attivazione del sistema audiovisivo a circuito chiuso. Pagina 641 GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo. Credo che il fatto che questo problema, cioè la realizzazione di un efficace e moderno sistema di protezione dei pentiti, dei collaboratori di giustizia in Italia, non sia di facile soluzione derivi di per sé da un fatto assolutamente positivo: è inutile ripetere che la moltiplicazione quantitativa delle dissociazioni dalle organizzazioni criminali costituisce un fatto di grandissima importanza nel progresso della strategia di contrasto dello Stato contro la criminalità organizzata. Oggi possiamo veramente dire che, se rimangono saldamente ferme determinate condizioni del quadro legislativo ed istituzionale generale, è possibile cominciare a parlare non più di una strategia di contenimento e di contrasto, ma addirittura di una strategia di attacco al crimine organizzato. Lo Stato è passato all'offensiva e deve assolutamente continuare e proseguire in una strategia d'attacco e non di semplice contrasto: deve intensificare ed affinare l'offensiva per far sì che in tempi ragionevoli il fenomeno del crimine organizzato in Italia, in particolare quello di Cosa nostra, si riduca quanto meno nei limiti fisiologici di una moderna società occidentale. Non è possibile certamente eliminare il crimine dalle società moderne, dalle società democratiche, ma è certamente possibile ridurre il fenomeno criminale ad un fatto per così dire fisiologico, ad una realtà che sia soltanto criminale e non sia invece capace, com'è adesso, di inquinare, attraverso la disponibilità di enormi capitali, il tessuto economico e civile e, virtualmente, anche istituzionale di uno Stato. Non a caso, gli Stati europei, ad esempio la Francia e la Germania in particolare, sono molto preoccupati ed attenti alla evoluzione della fenomenologia del crimine organizzato in Italia ed alle strategie di contrasto che si attuano in Italia, non perché ovviamente in Francia o in Germania qualcuno pensi di temere un radicamento o la possibilità di un radicamento territoriale della criminalità organizzata analogo a quello che noi abbiamo nelle regioni meridionali, ma perché si teme, e fondatamente, l'enorme capacità di inquinamento del mercato finanziario ed economico, sapendo che questo altererebbe il regime della libera concorrenza e sarebbe virtualmente capace di inquinare anche il rapporto, che in quei paesi non ha mai presentato particolari margini di rischio, tra fenomeni criminali e tessuto istituzionale. Noi abbiamo attualmente qualcosa di più di 900 collaboratori di giustizia ed alcune migliaia di congiunti da tutelare. Il dato quantitativo, che è un dato molto importante e positivo - perché significa che stiamo abbastanza avanti nel processo di disarticolazione delle organizzazioni criminali - crea però un problema che non trova situazioni analoghe in nessun paese del mondo, neanche negli Stati Uniti. Si tratta di un problema quantitativo. Evidentemente, il concepire l'organizzazione di un efficace sistema di protezione a fronte di un dato quantitativo di tale tipo (dobbiamo peraltro auspicare, far sì, creare le condizioni, mantenerle e rafforzarle, perché il numero dei collaboratori cresca; il numero dei collaboratori non deve certamente preoccuparci ed anzi occorre far di tutto perché aumenti) fa sì che il problema non possa essere affrontato con una sorta di omogeneità burocratica, senza pensare al metodo di lavoro e a un dato qualitativo. Cosa intendiamo per metodo di lavoro? Inutile dire che non è possibile prevedere dei sistemi di sicurezza attivi (vetture blindate, vigilanza continua, scorte e così via) come metodo generale del sistema di protezione. Naturalmente questo dovrà realizzarsi allorché vi siano particolari e contingenti condizioni di rischio, che possono essere neutralizzate soltanto con un sistema di protezione attiva. Non dico nulla di nuovo quando affermo che la strada da seguire è quella dell'assoluta segretezza del mutamento di identità, quella che oggi si chiama mimetizzazione del pentito e dei suoi familiari. Non si tratta più di un problema quantitativo; la realizzazione efficace di un tale obiettivo non presuppone la predisposizione di un corpo Pagina 642 con 10 mila o 100 mila uomini, ma l'adozione di un metodo di lavoro, un determinato tipo di preparazione, l'acquisizione e l'interiorizzazione di una cultura professionale ed un certo regime giuridico di autonomia all'interno dell'organizzazione dello Stato. Voglio fare l'esempio concreto del sistema dei marshal tipico degli Stati Uniti. Quando si va ad interrogare un collaboratore di giustizia che risiede negli Stati Uniti, naturalmente in regime di rogatoria internazionale, quindi con l'assistenza e sotto la direzione o di un procuratore distrettuale, come è accaduto diverse volte, ovvero addirittura di un rappresentante del dipartimento di giustizia, a seconda della sede in cui avviene l'interrogatorio, posso affermare, sulla base della mia esperienza diretta (mi riferisco ai casi di Marino Mannoia e Tommaso Buscetta) che neppure il procuratore distrettuale presso il quale deve svolgersi la rogatoria, fino al preciso momento della presentazione del collaborante accompagnato dai marshal, sa dove si trovi, da dove provenga e quando arriverà il collaboratore. Il procuratore distrettuale degli Stati Uniti - ripeto - ignora totalmente, fino all'ultimo minuto, quale sia il programma di viaggio, i tempi ed altre informazioni connesse, perché il corpo dei marshal non gli fornisce assolutamente alcuna informazione dalla quale lo stesso procuratore possa anche indirettamente desumere la durata del viaggio e la distanza presumibile del luogo di residenza del collaborante da quello in cui deve svolgersi l'audizione. Peraltro il procuratore distrettuale non si meraviglia affatto che i marshal non gli dicano nulla, perché questo rientra nel tipo di cultura esistente negli Stati Uniti (forse difficilmente comprensibile dal punto di vista italiano), per cui nessuno si offende se le informazioni vengono tenute riservate per ragioni di sicurezza. E' questo il dato importante: sebbene il sistema dei marshal sia inquadrato sostanzialmente nel dipartimento di giustizia, il vincolo di segretezza, lo scrupolo ossessivo della segretezza, vale anche per i rappresentanti del dipartimento di giustizia. In altre parole, pur essendovi un incardinamento organico del corpo all'interno del dipartimento di giustizia, esiste una riconosciuta e praticata autonomia in funzione della massima sicurezza. Mentre si svolgono gli interrogatori alla presenza costante del procuratore distrettuale (cito esperienze vissute), o del rappresentante del dipartimento di giustizia, due uomini o donne del corpo dei marshal non si allontanano, neppure per un istante, dalla sede dell'audizione, quindi non perdono di vista neanche per un momento la persona della cui sicurezza sono responsabili. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Fanno finire l'interrogatorio. GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. C'è di più. Addirittura - e di questo vi è traccia in un interrogatorio di Tommaso Buscetta svoltosi a Washington nel settembre del 1992 - l'ufficio della procura di Palermo dava atto che l'interrogatorio poteva durare soltanto tre ore perché i marshal, per necessità di sicurezza dovevano portar via il collaboratore. Sebbene il rappresentante del dipartimento di giustizia fosse certamente disponibile, nello spirito di collaborazione, a consentire la prosecuzione dell'interrogatorio alla sua presenza, egli si è dovuto arrendere alle esigenze di sicurezza dei marshal. Ho voluto riportare tale esempio per richiamare non tanto le regole, che pure sono codificate, quanto lo spirito di quel sistema, basato su una preparazione professionale assolutamente eccezionale degli addetti al corpo dei marshal, sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista delle tecniche di sicurezza, sia da altri punti di vista. Tale preparazione è talmente elevata che i marshal sono considerati negli Stati Uniti, nel loro genere e per i loro compiti, uno dei corpi di massima specializzazione. Si evidenzia, quindi, innanzi tutto la preparazione ed anche la cultura della segretezza che implica l'aspetto della responsabilità della sicurezza del collaborante; al Pagina 643 riguardo negli Stati Uniti, come in tutti i paesi di moderna cultura occidentale, vige il principio della responsabilità personale. Pertanto, se accade qualcosa (che non deve accadere) riguardante il collaborante, ne risponde non una istituzione o una categoria in generale, ma la persona, o le due persone, investite specificamente della responsabilità della sicurezza. Vi è, quindi, una riconosciuta autonomia all'interno dello stesso dipartimento di giustizia. Credo che per risolvere il problema sul piano del metodo, posto che la mimetizzazione e la sicurezza rappresentano in generale le uniche soluzioni per risolverlo, sia necessario creare un corpo specializzato; ma non occorrono numeri esorbitanti, bensì la qualità delle persone, la loro responsabilità e il riconoscimento, in diritto e in fatto, della cultura della segretezza, in funzione della sicurezza. Sempre affrontando la questione in termini qualitativi e non quantitativi, pongo l'accento su un altro versante. Non si può disconoscere che, nell'ambito di più di 900 collaboratori di giustizia, vi siano situazioni profondamente diverse; non alludo assolutamente all'ipotesi di pentiti di serie A, B o C: ciascun soggetto che decide di collaborare con la giustizia e di fornire un contributo per la sconfitta di una organizzazione criminale, moralmente e giuridicamente merita la tutela e il riconoscimento dello Stato nei limiti delle leggi in vigore. Tuttavia, non si può disconoscere l'importanza del contributo, la sua durata nel tempo, l'effetto oggettivo del contributo sull'organizzazione criminale di appartenenza ed un rischio che cambia a seconda della variazione di questi fattori. Per fare un ulteriore esempio pratico, se a collaborare con la giustizia è un soggetto appartenente ad una associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, ma non di carattere mafioso o comunque non organicamente integrata in un'organizzazione di tipo mafioso, evidentemente il contributo è importante, il risultato giuridico è altrettanto importante, però quell'organizzazione ha una vita limitata nel tempo. Lo stesso vale per un'organizzazione di per sé dedita al traffico di stupefacenti e per tutte le organizzazioni criminali comuni: si tratta di organizzazioni che si scompaginano e dalle quali, pertanto, in progressione di tempo i rischi di reazione vengono meno. Vi è poi l'organizzazione criminale paramafiosa - per "paramafiosa" intendo non un'organizzazione storica, cioè insediata storicamente su un territorio, bensì un'organizzazione criminale che ha adottato strutture, regole e modelli di comportamento di tipo mafioso - la quale è una organizzazione transeunte, non permanente. Certamente è capace di reazioni violente, ma si tratta comunque di un'organizzazione che può avere una fine, che può essere disarticolata in breve tempo e le cui capacità di reazione sono minori. Altra cosa è evidentemente Cosa nostra, altra cosa è la 'ndrangheta, altra cosa sono le organizzazioni facenti parte della storia di un territorio o di una regione, le quali costituiscono una istituzione illegale, nel senso che controllano quel territorio con una struttura capillare, con gerarchie, competenze e così via. Di conseguenza, quando un collaborante fornisce un contributo notevole contro quella organizzazione, non soltanto questa non verrà sgominata e continuerà sempre ad esistere - ci auguriamo che si arrivi ad una svolta su questo versante, ma nessuno si illuda che vi sia la possibilità di annullare o annientare queste organizzazioni in tempi brevi - ma oltretutto avrà una capacità di reazione enormemente superiore a quella delle comuni organizzazioni criminali. Perché? Innanzitutto in quanto la capacità di reazione può essere esercitata non soltanto dai soggetti organicamente inseriti nell'organizzazione, ma anche da un numero molto superiore di fiancheggiatori dell'organizzazione medesima. Possono altresì essere acquisite informazioni e notizie perché un'organizzazione del genere ha possibilità di infiltrazione, di corruzione e di collusioni con i settori sociali ed istituzionali; è in grado - come l'esperienza dimostra - di acquisire una serie di informazioni che possono più facilmente consentire di colpire l'obiettivo. Pagina 644 Inoltre, è un'organizzazione che deve applicare la sua sanzione. Il procuratore Caselli diceva giustamente un attimo fa che rispetto alla sentenza di condanna emessa, il problema sta nel momento della sua esecuzione. Le sentenze di condanna sono già state emesse: erano state emesse per i prefetti, per i giudici, per i funzionari di polizia, per i carabinieri e sono state emesse anche per i pentiti. La sentenza di condanna a morte per il collega Falcone era stata emessa nel 1984 a seguito del mandato di cattura Buscetta, ma è stata eseguita nel 1992. La sentenza di condanna a morte del pentito Leonardo Vitale, emessa nel 1973, è stata eseguita nove anni dopo; la sentenza di condanna a morte del dottor Cassarà era stata emessa allorché Cassarà si sforzò di impostare organicamente un serio programma di cattura dei latitanti. Cosa vuol dire che in questo momento - come sento dire talvolta - nessuno viene colpito? Cosa nostra decide di colpire non solo quando ci sono gli spazi tecnici per farlo, ma anche quando c'è l'opportunità "politica" (dal punto di vista della sua politica), allorché può colpire con il massimo dei vantaggi ed il minimo dei danni. Quindi, sono le condizioni politiche, sociali, culturali e civili generali ad agevolare o ritardare l'esecuzione della condanna. Normalmente, come l'esperienza dimostra, quando vi è una grande e forte coesione delle istituzioni e della società contro la criminalità organizzata, la condanna non viene eseguita; quando invece Cosa nostra avverte la sensazione che non vi sia una forte coesione delle istituzioni e della società civile contro di lei, quando ritiene che possano verificarsi dei processi di graduale isolamento, la condanna viene più facilmente eseguita. Questa è la lezione che si può trarre dai dati conoscitivi acquisiti in tanti processi, soprattutto con riferimento agli omicidi eccellenti. I pentiti sono condannati a morte ed il fatto che allo stato la sentenza non venga eseguita dipende sia dagli spazi tecnici per l'esecuzione della sentenza che non sono ampi, perché lo Stato è impegnato a garantire la protezione - abbiamo dei servizi che fanno il possibile e va dato atto che se non si colpisce è gran parte merito delle istituzioni addette alla protezione, le quali adempiono il loro dovere nel miglior modo possibile, nelle condizioni attuali -, sia perché Cosa nostra aspetta migliori opportunità per eseguire la sentenza. PRESIDENTE. Passiamo alle domande dei colleghi. FERDINANDO IMPOSIMATO. Desidero innanzitutto ringraziare il procuratore della Repubblica Caselli e il procuratore aggiunto Lo Forte per le puntuali e interessanti relazioni. Passo immediatamente alle domande: vorrei sapere se la cattura e l'arresto di alcuni vertici di Cosa nostra abbiano comportato l'individuazione, il sequestro e la confisca dei beni di cui questi erano titolari, oppure se i patrimoni sono sfuggiti alla confisca, per cui tali persone hanno conservato intatta la loro capacità di corruzione nei confronti di pubblici ufficiali o di politici. Vorrei altresì sapere se dalle dichiarazioni dei pentiti emerga la permanenza di un rapporto tra mafia e politica che sia attuale e se vi siano delle resistenze, delle perplessità da parte di alcuni pentiti nel parlare di questo rapporto. La domanda si collega ad un altro quesito: numerose persone a più riprese hanno evidenziato la necessità di imporre una regola in base alla quale i pentiti debbono essere posti nelle condizioni di rendere le loro dichiarazioni a scadenza fissa, cioè entro un termine fissato addirittura per legge. L'esperienza dimostra che in passato vi sono stati dei casi - quello di Buscetta è il più clamoroso - in cui il pentito non ha reso dichiarazioni sui rapporti tra mafia e politica perché purtroppo alcuni politici dei quali doveva parlare potevano essere al vertice del potere politico o perché il funzionario di polizia o il magistrato ai quali ci si riferiva erano, in qualche modo, coinvolti nelle indagini. Non citerò casi particolari in quanto tutti sanno che vi sono stati dei procedimenti penali riguardanti alcuni uomini Pagina 645 politici, alcuni funzionari di polizia e qualche magistrato. Ciò detto, ritenete opportuno prevedere per legge che un pentito debba rendere dichiarazioni subito oppure entro un termine fissato per legge? O che rispetto a certe situazioni, vi sia l'esigenza di giustificare il ritardo con cui il pentito rilascia le dichiarazioni? Vorrei chiedere, inoltre, se vi sia la possibilità di ascoltare alcuni pentiti sui rapporti tra mafia e politica, ovviamente senza che questo comporti un pregiudizio per le indagini in corso. Infine, vorrei sapere se siate a conoscenza del fatto che vi sono ordinamenti giuridici di altri paesi in cui addirittura il reato di riciclaggio non è previsto dalla legge, per cui non è possibile inseguire alcuni patrimoni nei paesi nei quali questo reato - come del resto quello di associazione per delinquere di stampo mafioso - non è previsto. Vorrei sapere se sia possibile svolgere un'indagine su questi paesi, al fine di consentire alla Commissione antimafia di sollecitare le Nazioni Unite o altri organismi internazionali ad invitare tali paesi ad introdurre forme di sanzione, a prevedere questo reato, che è il più grave che attualmente viene commesso e che non è perseguito - secondo me - proprio perché gli strumenti legislativi e anche le strutture giudiziarie non sono in grado di inseguire i capitali mafiosi nei vari luoghi dove si rifugiano. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Proverò a rispondere ad alcune delle domande del senatore Imposimato e poi Guido Lo Forte interverrà per rispondere a quelle che avessi tralasciato o che non avessi sufficientemente trattato. Mi sembra di ricordare che la prima domanda fosse: i vertici di Cosa nostra arrestati sono stati attaccati anche sul versante dei patrimoni? La risposta è sostanzialmente affermativa, almeno per quanto riguarda i patrimoni che siamo riusciti ad intravvedere e conseguentemente ad aggredire. La procura di Palermo si è strutturata formando anche una sezione cosiddetta delle misure di prevenzione, che è coordinata dal collega Ignazio De Francisci, uno dei colleghi più validi sia per anzianità di servizio sia per professionalità sia per dedizione (non sono qui per tessere le lodi di nessuno ma Ignazio De Francisci è, credo, personaggio sulla breccia da troppo tempo perché si possa pensare che voglia parlarne bene per qualunque altro motivo che non sia puramente e semplicemente il fatto che è bravo). Questa sezione misure di prevenzione è una delle più attive - almeno se è consentito giudicarsi dall'interno di un certo ufficio - del nostro ufficio. Per Riina, per Ganci, per Graviano e per quanti altri siano stati in questo biennio arrestati, sempre, accanto all'accertamento propriamente penale, si è sviluppato l'accertamento patrimoniale per le misure di prevenzione, con risultati che, per quanto riguarda Riina e Ganci (per quanto Graviano credo che siano ancora in corso), possono essere ritenuti - naturalmente, non tocca a noi giudicarci - abbastanza significativi. E' ovvio che la procedura è in itinere; tutto questo dovrà poi eventualmente portare ad un provvedimento di confisca. Quindi i provvedimenti di sequestro ottenuti dal tribunale delle misure di prevenzione costituiscono procedure in corso. Naturalmente sono tutte sub iudice, perché le nostre sono indagini preliminari; credo che non sia neanche intervenuta la richiesta di rinvio a giudizio. Su questo versante, estremamente significativa è stata - naturalmente dal punto di vista dell'ipotesi di accusa, dell'impostazione di una ricerca di elementi di accusa - un'inchiesta che riguarda una serie di imprenditori, soprattutto edili, considerati molte volte nell'ipotesi di accusa, nell'impostazione di accusa - sottolineo la parzialità e provvisorietà, ovviamente, di questa prospettiva - prestanome o comunque collegati o strettamente intrecciati con personaggi di vertice della mafia. Quella di cui parlo è una delle inchieste (se non ricordo male, avviata poco prima dell'estate), a nostro modo di vedere - nostro di rappresentanti dell'accusa, si intende, e quindi è necessario attendere le necessarie verifiche dibattimentali da parte degli organi Pagina 646 giudicanti a ciò deputati -, più significative proprio sul versante dell'attacco, dell'aggressione tecnico-giuridica al profilo patrimoniale di Cosa nostra, oltre a tutte quelle che man mano, arresto per arresto, si avviano quasi meccanicamente. L'arresto di personaggi di speciale rilievo comporta immediatamente la ricognizione dei beni posseduti e l'intervento, così come la legge consente di fare, su questi beni. Permanenza di un rapporto attuale fra mafia e politica. Ferdinando Imposimato ha fatto il giudice istruttore per tanti, tantissimi anni e sa sicuramente - e non è piaggeria - meglio di noi che il nostro compito è un po' di archivisti, il nostro compito è di ricostruire fatti del passato. Accertare quel che stia attualmente ed eventualmente accadendo o quel che si stia articolando con possibili concretizzazioni domani o dopodomani più che compito del giudice è compito del sociologo o del giudice che domani dovrà, dei fatti che oggi sono dinamicamente in evoluzione, occuparsi. L'unica cosa che ad un magistrato, ad un procuratore della Repubblica, ad un rappresentante dell'accusa credo sia consentito dire con riferimento a questa domanda è forse la seguente: la mafia, Cosa nostra in particolare, non costituisce soltanto un'organizzazione criminale, non è soltanto un problema di ordine pubblico, è qualcosa di più e di diverso, è il risultato dell'interazione di molti fattori, politici, economici, finanziari. Cosa nostra in particolare è forte, è diventata sempre più forte, è diventata un problema - noi riteniamo - anche per il regolare funzionamento delle regole democratiche, perché è riuscita, con intelligenza criminale molte volte sofisticata, ad intrecciarsi con pezzi e con segmenti della società civile, con pezzi e con segmenti della politica, con pezzi e con segmenti dell'economia, con pezzi e con segmenti della finanza. In questo intrecciare sé con pezzi o segmenti di ciò che rappresenta complessivamente la legalità sta una delle ragioni di forza, una delle ragioni che caratterizzano come un unicum di speciale pericolosità Cosa nostra rispetto alle altre organizzazioni criminali anche mafiose. Se questa è una caratteristica di Cosa nostra, difficile pensare che essa abbia improvvisamente subito una mutazione genetica per cui non sia più alla ricerca di questo tipo di collegamento, di questo tipo di rapporto con pezzi e con segmenti che caratterizzano un po' tutta la sua storia e che sono elemento di forza. Alla domanda se ci sia resistenza o perplessità da parte dei pentiti nel parlare di questo rapporto è difficile rispondere perché non esiste, secondo me, la categoria dei "pentiti". Ciascun "pentito" - usiamo questo termine per abitudine ma è assolutamente improprio - è storia a sé. C'è chi si pente - questo discorso vale per i pentiti di terrorismo come per i pentiti di mafia - perché è davvero in crisi, davvero non si riconosce più in un certo passato, in determinati valori, in un'identità che si era data militando in certi gruppi, in certe formazioni, raccordandosi con determinate persone; c'è chi invece si pente puramente e semplicemente perché sta facendo dei calcoli molto concreti, molto solidi, sulla maniera migliore per uscire con il minor danno da una situazione di difficoltà nella quale è venuto a trovarsi per effetto dell'arresto, per effetto della detenzione. Ma tra questi due poli ci sono mille gamme intermedie, in cui le motivazioni sono le più diverse, questa o quell'altra prevalente, o altre ancora, di carattere individuale, familiare, collegata anche alle persone con le quali da ultimo si è parlato e che possono aver fatto scattare determinati meccanismi. Esistono motivazioni che formano una specie di mélange irripetibile per un altro, valido soltanto per quel singolo pentito preso in considerazione. Dunque, nel caso di un collaboratore di giustizia che sia informato di questioni che possano anche interessare sotto il profilo del rapporto tra mafia e politica, la domanda se ci siano resistenze nel parlare non consente, secondo me, una risposta di carattere generale; il problema è squisitamente individuale, collegato al modo di formazione e di maturazione del pentimento del soggetto. Pagina 647 Per quanto riguarda le dichiarazioni "a rate", so che Guido Lo Forte ha scritto un capitolo, che personalmente giudico molto convincente, di un nostro documento; lascio quindi che sia lui a parlarne. Poiché ancora una volta si tratta di cose pubbliche e davvero, come magistrati, abbiamo una mania incorreggibile, devo dire che non è del tutto vero che Buscetta a suo tempo non abbia parlato. Recentissimamente un quotidiano italiano ha pubblicato l'intervista - che non mi risulta sia stata smentita - resa da un pubblico ministero americano molto autorevole e conosciuto, il quale afferma che già nel 1985 Buscetta aveva fatto un certo nome. FERDINANDO IMPOSIMATO. Non con Falcone, però. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Certo. Comunque, questo ci porterebbe del tutto fuori strada. Scusatemi, non avrei neanche dovuto cominciare a parlare di queste cose. Mafia e politica, pregiudizio per le indagini in corso: ferme restando tutte le considerazioni di carattere generale che ho fatto prima, non avverto, allo stato degli atti, pregiudizio per le indagini in corso. Credo che nella fase storica che stiamo vivendo le indagini abbiano il loro regolare corso. FERDINANDO IMPOSIMATO. Il disagio dei pentiti, però, nasce da questo. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Sì, sì, ma il pregiudizio per le indagini è cosa diversa dal disagio dei pentiti. Una delle cose che molte volte ci siamo chiesti, e per la quale, in fondo, non abbiamo risposte sicure, essendoci una serie incredibile di variabili (riteniamo che si debba fare un discorso molto più ampio e possiamo farlo anche dopo) è perché da qualche tempo a questa parte, d'improvviso, senza alcuna ragione che obiettivamente lo giustificasse, il problema dei pentiti anziché essere affrontato soltanto sotto l'aspetto tecnico-giuridico, con la freddezza e razionalità che uno strumento di lavoro investigativo esigerebbe, è tornato ad essere affrontato da parte di alcuni come già era accaduto in passato: più come guerra di religione, come contrapposizione tra posizioni filosofiche diverse - a volte addirittura a livello di litigio tra tifosi da stadio - che non, ripeto, con la freddezza di analisi e di messa a punto delle varie componenti del problema per trovare, razionalmente e tecnicamente, la soluzione migliore. Nel momento in cui questo è successo, nel momento in cui è stato sollevato il problema del pentimento, del suo valore, della sua portata, da parte di alcuni della necessità di un suo ridimensionamento, di una sostanziale revisione della legislazione e dei benefici da questa previsti, tutto ciò ha indubbiamente determinato preoccupazione e disagi nei pentiti già tali. E' chiaro che nelle sedi formali, nelle sedi di interrogatorio, quesiti a questo riguardo sono stati posti da parte dei pentiti e preoccupazione dei magistrati è stata quella di tranquillizzare, tra virgolette, affermando che non c'è nulla di concreto, al di là delle polemiche anche forti, se non progetti ed intenzioni. Si è detto che, riguardo a questi progetti ed a queste intenzioni, ci sarà da parte di coloro che la pensano diversamente, sia all'interno sia fuori dalla magistratura, la contrapposizione di altre idee e di altre opinioni per cui alla fine, come sempre succede, si vedrà chi ha più ragione, più spago da tessere. Ci siamo anche chiesti se il numero dei pentiti che avrebbe teoricamente potuto esserci senza queste polemiche, queste perplessità e queste tensioni, sarebbe stato superiore a quello che si è obiettivamente avuto pur in presenza di queste polemiche e, qualche volta, di questa guerra di religione. Di nuovo è impossibile rispondere, perché ogni pentimento è storia a sé e quel che può valere per Tizio, non vale per Caio, per Mevio o per Sempronio. Quindi, se in una situazione meno tormentata dal punto di vista delle polemiche ci sarebbero stati più o meno pentiti di quanti non se ne siano avuti è assolutamente impossibile dirlo. Un dato di fatto è che, se si sono Pagina 648 sentiti in difficoltà coloro che già si erano pentiti (che quindi erano titolari, per così dire, di diritti acquisiti), non dovrebbe essere del tutto azzardato pensare - è psicologismo di bassa lega, se vogliamo, ma forse ci si può azzardare anche in queste forme di psicologismo - che chi stava in quel momento decidendo se pentirsi o meno, visto l'infuriare di determinate polemiche, ci abbia pensato molto più approfonditamente di quanto avrebbe fatto in una diversa situazione. Se poi qualcuno si sia pentito lo stesso e se qualcun altro non lo abbia fatto a causa delle polemiche credo proprio sia impossibile dirlo. Non voglio affermare che le polemiche non ci debbano essere: è chiaro che debbono esserci quando sono in buona fede e finalizzate a trovare le migliori soluzioni. Di fatto, però, le polemiche, e soprattutto quelle che prefigurano soluzioni nettamente penalizzanti, rispetto alla legislazione vigente, per chi compia la scelta di pentirsi, non aiutano di certo il pentimento. Si tratta di un dato psicologico di un'ovvietà persino banale, e chiedo scusa se lo prospetto. Per quanto riguarda l'ordinamento di paesi nei quali il reato di riciclaggio non sia previsto, credo che Guido Lo Forte abbia più dati di esperienza professionale di quanti ne possieda io. PRESIDENTE. Mi pare che il senatore Imposimato le abbia chiesto anche di attuali pentiti in materia di mafia e politica. Preciso che, se lo ritiene opportuno, possiamo interrompere la trasmissione audiovisiva a circuito chiuso della seduta; poiché un gruppo di lavoro della Commissione si occupa di questo argomento, approfitteremmo della sua presenza per avere alcune indicazioni, naturalmente ove sia possibile e procedendo in seduta segreta. GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. Per quanto riguarda le cosiddette dichiarazioni a rate non esiterei a dire (cercherò poi di spiegare il senso dell'affermazione) che questo è assolutamente un falso problema o un problema non correttamente impostato, per un duplice ordine di motivi. Innanzitutto, il metodo di lavoro: cos'è un collaborante? E qui bisogna ancora una volta distinguere tra collaborante e collaborante, cioè tra un soggetto che ha vissuto un'esperienza criminale, sia pure organizzata, limitata nel tempo ed un soggetto che, invece, come nel caso degli appartenenti a Cosa nostra, alla 'ndrangheta e ad altre organizzazioni territoriali storiche, è vissuto all'interno di una società criminale le cui attività sono molteplici e si adattano nel tempo. Ebbene, ciascun soggetto di questo secondo tipo è in primo luogo portatore di un vissuto criminale in cui la commissione di delitti, dai più gravi come gli omicidi alla routine delle estorsioni e del traffico di stupefacenti, costituisce normale attività quotidiana che, in quanto tale, non rimane particolarmente impressa nella memoria con dati o particolari di eccezionalità. Questi sono i soggetti con i quali noi trattiamo; quindi, già da questo punto di vista si comprende come sia abbastanza teorico presumere di poter raccogliere e completare la ricostruzione di un'esperienza criminale di questo tipo in tempi limitati o precostituiti. La cosa più importante, che si tende a dimenticare, è rappresentata dall'individuazione della tecnica che presiede alle indagini condotte dal pubblico ministero. Nel momento in cui si verifica un fenomeno di dissociazione, il ruolo del pubblico ministero non è quello di un "intervistatore" o di una persona chiamata a scrivere un romanzo: il pubblico ministero, proprio perché ha il dovere di fare il magistrato e di porre in essere un'attività di repressione penale nell'interesse della società, si pone invece obiettivi gerarchicamente individuabili. Innanzitutto, deve cercare di acquisire il massimo di informazioni possibili sui fatti criminosi più gravi rimasti impuniti: questa è la prima priorità. In secondo luogo, il pubblico ministero si deve preoccupare di acquisire il massimo di informazioni sulla struttura militare, ai fini dell'individuazione dei killer in libertà, i quali si muovono giorno Pagina 649 per giorno. Si pone quindi l'esigenza fondamentale di individuare e, se possibile, di catturare gli assassini che operano indisturbati per le nostre strade. Sotto questo profilo, non credo si tratti di una valutazione di ordine pubblico ma, piuttosto - di questo siamo convinti -, di una giusta graduazione dell'urgenza legata all'esigenza di repressione, a sua volta connessa all'interesse sociale. Ulteriore obiettivo è quello di individuare la situazione, il più possibile aggiornata, dei quadri di comando - situazione, naturalmente, in continua evoluzione - giacché sarebbe inutile eliminare il killer se si lasciasse intatto il cervello o il cuore dell'organizzazione. Un altro obiettivo consiste nell'individuazione delle fonti economiche di approvvigionamento, in pratica della forza economica dell'organizzazione: a tale riguardo, l'indagine deve essere mirata sulle estorsioni, sui suoi autori, sui settori colpiti, sul traffico degli stupefacenti, sui fatti di riciclaggio. Se quella descritta è una corretta tecnica di indagine, si può facilmente notare come il semplice approfondimento di tutti gli obiettivi indicati in ordine gerarchico di priorità richieda un tempo ben superiore a quello che si potrebbe immaginare. Vanno considerati, tra gli altri, i limiti di resistenza umana; in particolare, vi è l'assoluta necessità di evitare che vi siano ricordi imprecisi, sovrapposizioni di ricordi, oppure che la stanchezza o l'assillo possano inquinare inconsapevolmente la genuinità dell'informazione. Vi è, insomma, l'esigenza tecnica di non assumere in maniera continuativa una messe di informazioni, apparendo più opportuno verificare le stesse di volta in volta, in modo graduale, per accertare costantemente l'attendibilità del collaborante e per acquisire ulteriori elementi utili all'indagine. Se questa è e deve essere la tecnica investigativa del pubblico ministero, è facile immaginare che vi possano essere tempi fissi entro i quali occorre raccogliere tutto il patrimonio di conoscenze e di informazioni di un collaborante, ma bisogna riconoscere che questo orientamento è abbastanza teorico e non si confà assolutamente alle tecniche professionali di indagine. Possiamo parlare di un falso problema anche da un diverso punto di vista. A prescindere dal fatto che, sotto il profilo giuridico, la previsione di un limite temporale alle dichiarazioni di un collaborante sarebbe certamente in contrasto con il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, si potrebbe configurare addirittura un contrasto con le esigenze del diritto di difesa. Cosa accadrebbe, ad esempio, se tra i mille ricordi dell'esperienza criminale di un collaborante ne affiorasse casualmente uno - si tratta, del resto, di un'ipotesi che abbiamo riscontrato nella realtà - che portasse a scagionare un imputato condannato ingiustamente? Ebbene, di tale dato, ai fini di una possibile revisione del processo, non dovremmo tener conto? Pensiamo, inoltre, all'ipotesi di un'informazione ricordata a distanza di tempo e poi oggettivamente riscontrata: in questo caso non dovremmo tenerne conto e non dovremmo esercitare l'azione penale? Al di là di questo, ciò che conta è la oggettiva, scrupolosa e puntuale verifica, secondo tutte le possibilità e nei limiti offerti dalla tecnica investigativa, delle dichiarazioni del collaborante. Non importa se tali dichiarazioni siano rilasciate il giorno iniziale del rapporto di collaborazione o dopo cento giorni da quel momento. Andrebbe considerata, a tale riguardo, l'evoluzione psicologica di un collaborante nella progressione del suo rapporto di affidamento agli interlocutori istituzionali; quel che conta sotto il profilo processuale, tuttavia, è se l'informazione fornita sia riscontrata oppure no, a prescindere dal momento in cui essa è stata fornita (non cambia nulla se ciò sia avvenuto il primo o il millesimo giorno). D'altra parte - a tale riguardo dico subito che vi sono elementi che possono essere tratti dal diritto comparato -, negli Stati Uniti un problema del genere non si è mai posto (in considerazione dello spirito pragmatico degli investigatori e dei magistrati statunitensi) proprio perché in quel paese quella dei collaboranti è considerata alla stregua di una questione di mera tecnica investigativa. In sostanza, essendo l'interesse concentrato Pagina 650 sull'obiettivo delle indagini, si evita ogni ricostruzione storica della vita del pentito, limitandosi ai riscontri utili ai fini delle indagini. Ciò che conta è, appunto, se una certa informazione sia o meno riscontrata: questo è l'unico metodo affidabile. In definitiva, ritengo che il problema non sia riferibile alle dichiarazioni cosiddette a rate ma sia piuttosto riconducibile alla professionalità delle indagini ed all'accuratezza nella ricerca dei riscontri. MASSIMO BRUTTI. Vorrei rivolgere alcune domande al dottor Caselli e al dottor Lo Forte. Anzitutto, vorrei fosse trattato il problema della struttura di Cosa nostra, che in qualche modo si collega alla questione dei collaboratori di giustizia. In sede giudiziaria abbiamo constatato più volte l'emergere di notizie concernenti l'esistenza di strutture segrete all'interno di Cosa nostra, fin dall'epoca della vecchia organizzazione risalente al periodo precedente alla fine degli anni settanta. Sembra, per esempio, che i cugini Salvo avessero un particolare tipo di affiliazione che non li rendeva noti come mafiosi alla gran parte degli uomini d'onore. Questo tipo di struttura segreta all'interno di Cosa nostra è cresciuto e si è sviluppato? Qual è l'analisi che oggi formulate al riguardo? E' evidente che una struttura segreta rappresenta un'utile risposta al pericolo e al rischio della collaborazione con la giustizia e della defezione. Vorrei inoltre porre una domanda, diciamo così, di scenario, che naturalmente non è volta ad acquisire informazioni che siano oggetto di indagini o coperte da segreto. In particolare, vorrei conoscere la vostra valutazione circa il rapporto esistente tra Cosa nostra e le associazioni di tipo massonico coperte, particolarmente riservate. Vi chiedo di fornirci, insomma, una risposta di carattere molto generale con riguardo al punto in cui sono le rilevazioni e le indagini sul problema cruciale del rapporto tra due tipi di organizzazioni eversive: Cosa nostra da un lato e le organizzazioni occulte dall'altro. I collaboratori di giustizia sono attualmente circa 900. Quali sono le identità dominanti e le tipologie di queste persone? Appartengono tutti al settore "militare"? Sono tutti riconducibili alla tipologia di collaboratori che conosciamo perché la Commissione antimafia li ha ascoltati nella precedente legislatura oppure vi è una diversificazione di collocazione all'interno dell'organizzazione? Vi sono collaboratori di giustizia - diciamo così - con il colletto un po' più bianco, che non siano direttamente partecipi dell'organizzazione militare e che rappresentano qualcos'altro e quanti sono? Vorrei poi porre alcune questioni brevissime che riguardano più specificamente il tema dei collaboratori di giustizia. Ho l'impressione - correggetemi se sbaglio - che impostare il problema della protezione, in particolare dell'ammissione al programma speciale di protezione, dei collaboratori di giustizia a partire dal tema attendibilità del pentito sia fuorviante, che si tratti cioè di uno pseudoproblema, nel senso che non esiste - credo - la possibilità (non mi sembra legittimo, e non è la sede giudiziaria né altra sede quella opportuna per farlo) di formulare una valutazione complessiva sull'attendibilità del pentito. Il problema non è questo, il problema è quello dell'attendibilità riscontrata attraverso l'indagine giudiziaria, facendo leva sulla professionalità dei giudici, delle singole dichiarazioni accusatorie che il pentito formula. Ricordo che in un'audizione davanti alla Commissione antimafia venne rivolta a Mutolo una domanda su chi avesse fatto la strage di Portella delle Ginestre: è evidente che Mutolo non poteva far altro che ripetere una vecchia storia legata alla tradizione orale all'interno dell'organizzazione mafiosa, ma non aveva nessuna conoscenza diretta, nel senso che sul tema della strage di Portella delle Ginestre egli era completamente inattendibile; ma il punto è che su altre cose, invece, era attendibile. Un altro pentito, Spatola, su questioni relative al traffico di droga mi risultava essere considerato da Borsellino come un collaboratore attendibile, mentre su altre questioni lo stesso Borsellino lo considerava meno attendibile. Pagina 651 Allora, l'ammissione al programma speciale di protezione non muoverà da una valutazione circa l'attendibilità del pentito bensì da una valutazione che si ispira ad altri criteri, cioè in primo luogo il contributo dato alle indagini (che deve essere valutato quindi da chi abbia esperienza e conoscenza del meccanismo delle indagini, da chi abbia maturato una professionalità specifica per valutare cosa significhi contributo alle indagini, che è cosa diversa dall'attendibilità del pentito); inoltre sarà valutato sulla base del rapporto di quel collaboratore con l'organizzazione, tenendo anche conto di che tipo di organizzazione si tratti, perché è certo che la protezione si pone in termini diversi a seconda che si tratti di un'organizzazione transeunte, come quella di cui parlava il dottor Lo Forte, oppure di un'organizzazione consolidata, capace di vendette a distanza di lungo tempo, e così via. Quindi, mi sembra - e vorrei verificare questa mia valutazione formulata naturalmente molto dall'esterno rispetto al vostro lavoro - che l'ammissione al programma speciale di protezione debba organizzarsi sulla base di criteri profondamente diversi da quelli della valutazione giudiziaria, finale del contributo che il pentito offre. A che punto è la separazione, di cui da tempo parliamo, tra struttura e personale addetti alle indagini e struttura e personale addetti invece alla protezione dei pentiti? Si tratta di un punto chiave nell'ambito delle questioni che stiamo trattando. Cosa bisogna fare per realizzare una reale autonomia del Servizio di protezione dai corpi di polizia addetti alle indagini? Siamo d'accordo sul fatto che questo sia comunque il traguardo da raggiungere, perché evita gli intimismi investigativi e le commistioni che non contribuiscono ad una corretta gestione del pentito. Cosa pensate della custodia in carcere dei collaboratori? Si era parlato a suo tempo del recupero di almeno alcune carceri mandamentali a questo fine: è secondo voi una via che può essere perseguita, sia pure naturalmente con un regime, un trattamento più mite, differenziato in meglio rispetto al trattamento previsto per il mafioso non collaborante? Inoltre, nella gestione processuale, vi sono problemi per quanto concerne il coordinamento tra i pubblici ministeri interessati? Quali vie si seguono? Qual è il metodo volto ad evitare la sovrapposizione, l'accaparramento del collaboratore e ad instaurare un coordinamento nel lavoro tra i pubblici ministeri? Inoltre, quando viene meno il programma di protezione speciale? Nel caso in cui si sia accertata la calunnia o un'azione di depistaggio da parte del collaboratore? Vorrei comprendere se vi sia, per così dire, un requisito, una condizione che fa cadere il programma di protezione speciale. Infine, quanto al meccanismo sanzionatorio, si era parlato della necessità di introdurre maggior certezza per gli sconti di pena. Oggi per quanto riguarda l'ergastolo vi è un'oscillazione da 12 a 20 anni e anche per la riduzione delle pene temporanee si era pensato ad una riduzione in misura fissa. Poiché se ne è discusso in questi anni, vorrei conoscere il vostro pensiero in proposito. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Comincerò a rispondere io, anche se mi limiterò davvero a poche battute. Cerco di spiegarmi con una battuta: quando si affronta il problema dell'utilità o meno della regolamentazione obbligatoria dell'uso della stenotipia o della videoregistrazione quando si interroga un pentito, una delle opinioni che vengono espresse è quella che ancora una volta si richiama all'esperienza; cioè è difficile (anche se la cosa è molto seria e deve essere discussa con grande attenzione) rendere obbligatorio questo sistema perché noi abbiamo ben presente, a me hanno insegnato ad avere ben presente, quello che è un modo di esprimersi di un grosso pentito, il quale ebbe a dire a chi lo interrogava: guardi che noi, quando decidiamo di lasciare Cosa nostra e di collaborare, siamo come un americano che cerca di diventare italiano, perché ci vuole tempo Pagina 652 perché impariamo la lingua, la cultura, i costumi e le abitudini della nuova nazionalità. La stessa cosa vale per me. Faccio questo lavoro da neanche due anni, qualche parola della nuova lingua la sto imparando, ma il vocabolario nella sua interezza lo possiede di più, per molte delle questioni che sono state prospettate, chi lavora in Sicilia a queste inchieste da molto più tempo di quanto non faccia io. Così, sulla struttura di Cosa nostra, in particolare sulla presenza di componenti segrete di questa struttura, dirà meglio Guido Lo Forte. In ordine alla valutazione del rapporto tra Cosa nostra e massoneria ed a che punto siano le rivelazioni, faccio presente che tutti sappiamo per aver letto dichiarazioni di questo o quel collaborante, ordinanze e sentenze di rinvio a giudizio (anche di primo grado o di grado successivo, quando inquadrino il fenomeno e non si facciano soltanto carico delle specifiche, singole, individuali posizioni), che un'ipotesi frequentemente prospettata è proprio quella di intrecci in qualche modo, in una certa fase storica, cominciati e poi - sempre secondo questa ipotesi - consolidatisi e sviluppatisi tra componenti di Cosa nostra e momenti, profili certamente deviati rispetto alle regole, alle tradizioni della massoneria, ma in qualche modo, sia pure in maniera perversa e deviata, alla massoneria riconducibili. Queste sono conseguentemente ipotesi di lavoro che da sempre o da molto tempo a questa parte sono sul tappeto; sono allora ipotesi di lavoro che non possono non essere tenute presenti anche da chi attualmente lavori... RAFFAELE BERTONI. Ipotesi o realtà? GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Sto arrivando. A che punto siano le rilevazioni non è cosa, con riferimento ad un qualche elemento di concretezza, su cui la procura di Palermo possa fornire una risposta utile, che non sia puramente filosofia o riaggancio ad ipotesi di lavoro basate su rivelazioni del passato. Lo stesso vale per quanto riguarda le identità dominanti, le tipologie dominanti dei pentiti. Si è chiesto se si tratti di pentiti appartenenti soltanto all'ala militare o anche ai colletti bianchi. Vi possono essere figure che risentono un po' dell'una e un po' dell'altra tipologia di militante di Cosa nostra. La distinzione non è mai così netta: un pentito come Baldassare Di Maggio è certamente collocabile sul versante militare, ma come autista ed uomo di fiducia di Salvatore Riina aveva una serie di contatti e di collegamenti che non ne fanno soltanto un uomo d'onore inquadrabile nella casella militare. Conseguentemente, anche per quanto riguarda le tipologie dominanti, è difficile una linea di demarcazione netta fra militare e colletto bianco: non esiste forse mai qualcosa o qualcuno, per lo meno per quanto risulta allo stato degli atti, che sia esclusivamente collocabile nell'una o nell'altra categoria. Credo che il collega Lo Forte possa integrare le mie osservazioni. GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. Per quanto riguarda la domanda sulle strutture segrete di Cosa nostra, innanzitutto, quando si parla di segretezza, o di novità a tale riguardo, è chiaro che si parla di segretezza interna, e non esterna, dato che Cosa nostra è di per sé e per definizione un'organizzazione segreta rispetto all'esterno. Vi è un fatto di segretezza interna che è del massimo interesse e della massima importanza, anche perché rifluisce direttamente sulla impostazione delle metodologie delle indagini e della strategia di contrasto in questo momento. Un fenomeno di segretezza interna, cioè di creazione di uomini d'onore - definiti riservati, o in maniera simile - la cui identità non veniva palesata agli altri uomini d'onore è abbastanza antico nel tempo: era una prassi corleonese e, proprio per questa prassi, i Corleonesi erano riusciti non soltanto ad infiltrarsi nelle altre famiglie ma anche ad incutere un particolare terrore Pagina 653 all'interno dell'organizzazione, perché si sapeva che disponevano di piccole squadre della morte interne assolutamente sconosciute, per cui avevano una capacità di intervento militare, o di eliminazione, assolutamente privilegiata rispetto agli uomini delle altre famiglie e dalla quale non era possibile difendersi. Ricordo una frase abbastanza significativa di Michele Greco, il quale, quando gli proponevano delle affiliazioni riservate, diceva all'incirca: "Consideriamola però un'eccezione; è vero che i Corleonesi fanno così, ma non dobbiamo fare così anche noi". Avevamo, quindi, questo fenomeno di segretezza interna per i killer segreti dei Corleonesi; avevamo inoltre un fenomeno di segretezza interna per gli uomini d'onore che costituivano il momento di collegamento fra l'organizzazione militare e la società, cioè per quegli uomini d'onore che avevano incarichi in settori della società civile, il cui compito non consisteva nel prestarsi indiscriminatamente all'esecuzione di attività delittuose (comuni omicidi, traffico di stupefacenti, estorsioni, incendi, danneggiamenti e così via) ma nel fornire un supporto all'organizzazione nello specifico ambito del settore sociale, professionale o di attività di propria competenza. Questi venivano normalmente tenuti riservati: si tratta di un fenomeno abbastanza noto. Il fenomeno che, invece, si sta verificando da qualche anno a questa parte è diverso: è quello della sempre più rigida compartimentazione interna delle conoscenze all'interno dello stesso gruppo corleonese egemone. Questa strategia ha anche una funzione specifica: quella di prevenire ulteriori gravi pregiudizi da ulteriori dissociazioni. Nel momento in cui - questa è la svolta storica - ha collaborato con la giustizia il primo Corleonese, Giuseppe Marchese; nel momento in cui ha collaborato con la giustizia Baldassare Di Maggio, che era l'uomo nelle cui mani Salvatore Riina affidava la sua vita, usandolo come autista; nel momento in cui ha collaborato con la giustizia Gioacchino La Barbera della famiglia di Altofonte, cioè del cuore stesso della realtà corleonese, uno degli autori materiali della strage di Capaci; nel momento in cui, addirittura, ha collaborato con la giustizia un componente della commissione come Salvatore Cancemi, da decenni fidatissimo amico e sodale di Raffaele Ganci, che era uno degli uomini più fidati di Riina, evidentemente, si è posto all'interno dell'organizzazione il problema della tenuta anche all'interno dei quadri considerati più fedeli. Credo che oggi nessun Corleonese - questo è uno degli effetti estremamente positivi del pentitismo, anche al di là degli stessi contributi processuali - sia assolutamente sicuro che l'uomo che siede accanto a lui e nel quale ha nutrito la massima fiducia da vent'anni non possa tradirlo, perché gli esempi di Marchese, La Barbera e quant'altri dimostrano che questo è possibile. Ciò comporta che la segretezza interna non è più di una famiglia rispetto alle altre famiglie, ma addirittura è all'interno delle famiglie corleonesi: questo ha prodotto la creazione - riscontrata per quanto subito dirò - di soggetti la cui identità di uomini d'onore è probabilmente conosciuta soltanto da una o due persone. Si tratta, quindi, di soggetti che possono essere utilizzati in qualsiasi emergenza interna per un assestamento di potere, di soggetti che possono essere utilizzati per qualsiasi delitto contro l'esterno, perché non sono conosciuti, e soprattutto di soggetti che non saranno conosciuti neanche dai futuri pentiti. Qui sta l'ultima finalità della strategia. Il dato dell'esistenza di soggetti di questo tipo - mi limito semplicemente a dirlo, senza entrare in dettaglio - è oggettivamente riscontrato da alcuni esiti delle indagini sulle stragi verificatesi fuori della Sicilia nel 1993, per le quali è stata accertata l'utilizzazione di soggetti che non solo non erano conosciuti da nessuno dei collaboranti, anche più recenti ed a più alto livello dell'organizzazione, ma che addirittura, in alcuni casi, non erano mai stati sfiorati da indagini precedenti. Si tratta di soggetti per i quali non sappiamo neanche se sia possibile ipotizzare una cerimonia di affiliazione formale, perché tale tipo di cerimonia normalmente presuppone la Pagina 654 presenza di un numero, sia pure limitato, di soggetti della stessa famiglia; si potrebbe quindi pensare che si sia addirittura rinunciato, in alcuni casi, a procedere ad una cerimonia formale... RAFFAELE BERTONI. Questa è un'ipotesi oppure i soggetti sono conosciuti? GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. Vi sono dei dati dai quali risulta che sono stati utilizzati per fatti di straordinaria gravità, che quindi presupponevano una straordinaria affidabilità, soggetti che sono assolutamente sconosciuti a tutti i pentiti, compresi i più recenti. Dal punto di vista generale, quello che conta per il futuro della strategia di contrasto antimafia è la deduzione che bisogna trarre da questo nuovo scenario; un futuro che sarà sempre fondamentalmente affidato al contributo dei collaboratori di giustizia, ma che fin da questo momento deve essere impostato tenendo conto del fatto che di fronte a questa strategia il livello di conoscenza che potrebbe essere acquisito grazie al fenomeno della dissociazione sarebbe sempre molto importante, ma potrebbe non riguardare le cose più gravi. Da qui deriva l'esigenza di una combinazione sempre più stretta - che credo la procura di Palermo stia provando a realizzare, e che ha già realizzato in alcuni procedimenti specifici, che finora hanno avuto esito positivo per quanto riguarda lo stato attuale della verifica delle tesi di accusa - fra le informazioni che provengono dall'interno e le investigazioni oggettive, che non vorrei definire tradizionali. Sono tradizionali nel senso che sono investigazioni di polizia giudiziaria, ma non sono tradizionali nel metodo, perché oggi, per il reperimento delle prove, la tecnologia ci offre possibilità di investigazione oggettiva di cui prima non si disponeva. Ad esempio, tanto per illustrare il processo che riguarda il retroterra economico e finanziario di Raffaele Ganci, alle indicazioni dei collaboratori si sono aggiunte - e si sono rivelate decisive - prove oggettive consistenti in filmati, in osservazione del territorio, di luoghi, in intercettazioni ambientali e così via. GIUSEPPE SCOZZARI. Raffaele Ganci è il boss di Sciacca? GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. No, è il capo del mandamento della Noce. Se questa è la via del futuro - e credo che tutto ciò giovi in generale all'equilibrio complessivo della strategia di contrasto contro la criminalità organizzata - occorre uno sforzo maggiore per potenziare dal punto di vista quantitativo e qualitativo la disponibilità delle tecnologie. Vorremo far svolgere le indagini il più possibile con questa tecnica, ma purtroppo spesso urtiamo contro la scarsità di strumenti - mi riferisco a telecamere, microspie e quant'altro offre la tecnica moderna - per poter impiegare al meglio gli organi investigativi. Per quanto riguarda il coordinamento degli uffici del pubblico ministero, credo che siano stati compiuti passi in avanti nella soluzione del problema, che comunque esisterà sempre ed è fisiologico che esista, perché finché vi sarà la giusta autonomia e la giusta distinzione fra i pubblici ministeri è evidente che esisteranno sempre problemi di coordinamento. Comunque la Procura nazionale si è molto - e fattivamente - impegnata su questo fronte (non posso citare il caso specifico), realizzando positivamente il coordinamento in episodi di grande rilievo. Quanto all'incidenza di menzogne o di violazioni sulla revoca del programma, credo che i problemi siano due: quello del programma e quello dei benefici. Per quanto riguarda il programma, virtualmente qualunque violazione di una clausola del contratto può legittimarne la risoluzione, secondo una corretta ottica civilistica; tuttavia non può non esservi un margine di discrezionalità esclusivamente affidato all'organo competente, cioè la commissione, previa acquisizione dei pareri e delle informazioni opportune, perché Pagina 655 il programma viene predisposto essenzialmente per una funzione di protezione. Pertanto, se un pentito mente una volta, ma permane in una situazione di gravissimo rischio per quello che ha già detto, evidentemente il giudizio dovrà essere commisurato alla permanenza della necessità di evitare la soppressione del pentito stesso. Altra questione è quella dei benefici, perché la legge in Italia stabilisce chiaramente come, in caso di menzogne o quant'altro, non soltanto non vengano concessi i benefici, ma vengano anche revocati quelli precedentemente concessi. In un caso si tratta di una situazione di sconti di pena in cui la menzogna non paga, ed anzi con la menzogna si paga, ma il programma è un'altra questione, perché l'ottica è quella della sicurezza ed anche di fronte ad un mentitore bisogna valutare se vi sia o meno il rischio che egli venga ucciso. Si tratta di valutazioni di tipo squisitamente amministrativo, in cui debbono essere ponderati la personalità ma anche il rischio che il pentito venga eliminato. PRESIDENTE. Mi sia consentito tornare per un attimo a quanto affermava il senatore Bertoni: poiché ritengo che la Commissione antimafia, senza violare alcun tipo di segreto, abbia bisogno di elementi specifici - diversamente vi è il rischio di ottenere soltanto un quadro generale che non ci permette molti approfondimenti - faccio presente che se in questo momento i nostri ospiti non sono in grado di rispondere, ove ritengano che vi siano segreti al momento non superabili, successivamente sarà cura del presidente o del coordinatore del gruppo di lavoro competente richiedere loro la necessaria documentazione. RAFFAELE BERTONI. La legge ci consente di chiedere ai giudici - come dei giudici possono fare nei confronti di altri giudici - notizie sui processi in corso; saranno poi i magistrati ad opporre motivate ragioni per non rispondere alle nostre domande. Tuttavia, se ci manteniamo in termini generali a proposito di queste problematiche, rischiamo di apprendere cose già note: se il dottor Caselli avesse avuto modo di leggere il resoconto stenografico dell'audizione del prefetto De Gennaro, probabilmente egli si sarebbe risparmiato la fatica di ipotizzare quanto quest'ultimo ci ha già detto. PRESIDENTE. Veramente questo mi sembra al di sopra delle righe! GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Scherzando, potrei dire che mi hanno fatto una domanda trabocchetto! RAFFAELE BERTONI. Non era una domanda trabocchetto, ma uno scherzo cattivo: ti hanno fatto dire delle cose che De Gennaro aveva già detto. PRESIDENTE. Questo non è vero, ci ha offerto ulteriori elementi. E' importante che emergano indicazioni precise sulle quali la Commissione antimafia, nella sua autonomia anche rispetto agli organi giudiziari, possa sviluppare un'indagine o quanto meno una forma di conoscenza. Diversamente rischiamo di restare nel vago, in un quadro del tutto generico; abbiamo dunque bisogno di questa collaborazione. GIUSEPPE AYALA. Il mio intervento sarà molto breve perché devo resistere ad una forte propensione ad approfondire molte cose che ho ascoltato e che trovo estremamente interessanti. La domanda che avevo previsto di porre era incentrata sul problema della compartimentazione, al quale ha fatto riferimento, da ultimo, il dottor Lo Forte e in ordine al quale trova conferma un'ipotesi già ventilata da qualche anno, che ha avuto dei riscontri; oggi, naturalmente, mi ritengo più che soddisfatto di quanto ha detto il dottor Lo Forte e quindi lascio cadere questa domanda perché non saprei che cosa chiedere. Vi è però un'altra questione relativamente ad una strategia che comporta questa scelta che, come purtroppo Cosa nostra ci ha abituato spesso a verificare (devo dire la verità), è una strategia estremamente Pagina 656 intelligente: mi riferisco al problema del depistaggio, in ordine al quale gradirei sapere, senza ovviamente pretendere di conoscere alcuna specifica vicenda processuale, se, in base all'esperienza più recente, sia possibile ritenere che, accanto alla compartimentazione, che è un modo per costruire un argine al rischio del pentitismo (se così la vogliamo definire), vi sia qualche segnale o addirittura qualche specifica vicenda processuale che faccia ritenere che, accoppiata a questa, vi sia stata l'infiltrazione (se così la vogliamo chiamare) nel novero dei pentiti, dei collaboratori, di persone che più o meno palesemente intendono creare problemi alle indagini e contribuire a quell'operazione di delegittimazione del pentitismo, che abbiamo constatato essere una realtà attuale, sulla quale naturalmente sorvolo perché sarebbe facile scivolare in polemiche che non giovano sicuramente a nessuno. Vi pongo comunque la domanda dal punto di vista della strategia di Cosa nostra. Per quanto riguarda la strategia, alla quale faceva riferimento anche il dottor Lo Forte, che potremmo definire omicida, vorrei sapere se il fatto che vi sia, per fortuna (questa circostanza va accolta con somma soddisfazione), un minor ricorso a questo tipo di consumazione di delitto non possa (se così è, le ultime acquisizioni processuali potrebbero averlo confermato) iscriversi anch'esso in un ulteriore aspetto della strategia attuale di Cosa nostra: ho sempre ritenuto che la cattura di Riina abbia segnato la sconfitta dell'uomo ma anche quella della strategia, che era incentrata su una visibilità eccessiva di Cosa nostra, in quanto era legata ad una consumazione eccessiva di fatti criminosi sia interni all'organizzazione (per risolvere i problemi interni) sia, in maniera ancora più drammatica, nei confronti delle istituzioni. Da qualche tempo, mi viene fatto di pensare che si sia tornati alla strategia tradizionale di Cosa nostra, che è quella del massimo livello possibile di clandestinità e quindi del minimo livello possibile di visibilità, che - lo ripeto - non è certamente interrotto da un grande traffico internazionale di stupefacenti ma è sicuramente interrotto da trecento omicidi l'anno, come in occasione della guerra di mafia dell'inizio degli anni ottanta, o da attentati o stragi contro rappresentanti delle istituzioni. Vorrei sapere se, a vostro avviso, questo tipo di strategia sia stata oggi attuata o meno da Cosa nostra. Quanto al problema della sicurezza dei pentiti, io sono un "fossile" della materia, anche se in fondo sono uscito soltanto da quattro anni dall'ufficio in cui voi ancora lavorate. Tuttavia, il problema della gestione del pentito ("gestione" è una brutta parola, ma la usiamo per comodità) ha sempre comportato (adesso si parla di novecento pentiti ma ricordo che all'inizio ce n'era uno, poi due, e sembrava una cosa incredibile; novecento, tra l'altro è il numero complessivo dei collaboratori, non tutti appartenenti a Cosa nostra) tutta una serie di problemi ai quali si è fatto riferimento in maniera molto puntuale e pertinente, come in realtà fanno sempre sia il procuratore Caselli sia il dottor Lo Forte. Mi riferisco, in particolare, alla gestione processuale del pentito e a quella della sua sicurezza. Il magistrato si occupa ovviamente della gestione processuale, mentre quella della sicurezza del pentito compete ad altri organi (su questo si è detto molto). Desidero aggiungere soltanto una breve parentesi per poi formulare un'ultima domanda. Mi riferisco alla questione della segretezza: è fuori discussione che la strada da seguire sia quella e devo dire che il capo della polizia ci ha parlato in questa sede di una giusta equazione tra segretezza e sicurezza. Dottor Lo Forte, conosco benissimo anch'io l'esempio degli Stati Uniti, dove gli interrogatori di Buscetta avvenivano addirittura dopo che un elicottero da un luogo ignoto lo portava, per esempio, in una certa villa, la quale, stando alla carta geografica si capiva grosso modo che non era lontana da New York, mentre noi arrivavamo con un altro elicottero e nessuno dei due sapeva dove si andava. D'altra parte, eravamo ben felici di non saperlo a scanso di ogni equivoco. Comunque, in America vi Pagina 657 è una tradizione, una cultura, che da noi non è facile inventare; non c'è da puntare il dito contro nessuno, perché queste cose non si improvvisano dall'oggi al domani. GIUSEPPE ARLACCHI. I luoghi in cui si svolgono gli interrogatori si leggono normalmente sui giornali. GIUSEPPE AYALA. Mi esprimo in sintesi, ma sull'argomento si potrebbe fare un lungo discorso. Ho sempre ritenuto - e credo di non essere il solo - che vi sia anche un problema di tipo geografico: infatti, poiché l'America è un continente sterminato con 250-300 milioni di abitanti, non è molto difficile fare "scomparire" Buscetta in chissà quale paesino anonimo dell'Oregon (tiro a indovinare e spero di non aver detto dove egli realmente viva); invece, far scomparire un pentito e i suoi familiari in Italia è un po' più complicato, tenuto conto anche dell'assetto geografico e delle dimensioni del nostro paese. GIUSEPPE SCOZZARI. Il collega Caccavale li vede passeggiare nel suo paese. GIUSEPPE AYALA. Non si può dire che fosse una cosa segreta perché, come giustamente hai detto, è notorio; ci sembrava una cosa segreta ma in realtà non lo era affatto, perché era segreta soltanto per noi ma non certamente per la comunità in cui il pentito era inserito. Al di là della facile battuta, si tratta di un problema che si è affacciato già da molto tempo e costituisce, a mio avviso, uno dei dati da tenere presenti nella strutturazione di una strategia di questo tipo. Su tale questione vorrei conoscere il vostro pensiero. Desidero infine porre un'ultima domanda, che è poi quella che più mi preme, alla quale per la verità lei, dottor Caselli, ha già risposto in parte, ma le chiedo di essere più preciso. Mi riferisco al problema attuale della situazione dei pentiti, naturalmente da un punto di vista squisitamente processuale (la sicurezza non compete a voi come responsabilità diretta). Mi collego comunque a quanto lei ha già detto, in modo che la domanda sia più breve e possa esserlo anche la risposta: il contatto tra magistrati e pentiti, per le ragioni indicate anche dal dottor Lo Forte in relazione all'ipotetica determinazione di un lasso di tempo entro il quale la collaborazione può valere ed oltre il quale non vale più (è stato sgomberato il campo anche con argomentazioni giuridiche di tipo costituzionale, per cui è inutile tornare su questo), costituisce (soprattutto per i pentiti di Cosa nostra ed in particolare quelli di buon livello se non di grande livello) un rapporto che si protrae nel tempo, naturalmente per esigenze processuali, non di altro genere. Ciò consente (questa è l'esperienza personale che ho sempre vissuto) anche di tastare il polso della situazione psicologica, della disponibilità a collaborare, dello spessore, del mantenimento o meno di questa disponibilità; talvolta essa si incrementa positivamente perché, per esempio, il rapporto fiduciario viene avvertito dal pentito in maniera più positiva, mentre talvolta tende a scemare o addirittura si interrompe, perché questo rapporto entra in qualche modo in crisi. La casistica sarebbe lunga ma evidentemente possiamo ometterla dandola per scontata. Vorrei sapere se oggi, negli ultimi due o tre mesi, i pentiti che voi "trattate" (possiamo usare questo eufemismo) vi consentano di raccogliere segnali di mutamento in meglio o in peggio, oppure di nessun cambiamento, dal punto di vista del mantenimento del tasso di collaborazione. Un'ultima questione riguarda la quantità di persone che varcano la frontiera della collaborazione: nell'ultimo periodo si è verificato un calo (non lo so, ma mi sembrava che le sue parole si potessero interpretare in questo senso). Vorrei avere, al riguardo, un dato preciso: che voi ricordiate, quando si è pentito l'ultimo collaboratore appartenente a Cosa nostra? GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Comincerò a rispondere dall'ultima domanda, o meglio dalla penultima, ossia se i pentiti di Cosa nostra "trattati" dalla procura di Palermo abbiano dato negli ultimi mesi segnali di mutamento in peggio o in meglio ovvero si comportino in modo stazionario. Per Pagina 658 quanto riguarda il comportamento concreto, cioè la formalizzazione del rapporto attraverso la formulazione delle domande e la verbalizzazione delle risposte, la collaborazione non è sostanzialmente mutata. Ci sono però (con speciale intensità nel settembre scorso, ma sempre serpeggianti sullo sfondo) preoccupazioni: infatti, certezze che sembravano (dal loro punto di vista e qualche volta anche dal nostro punto di vista) consolidate e non suscettibili di essere messe in discussione in difetto di fatti nuovi, in difetto di accadimenti storicamente e obbiettivamente nuovi, sono invece state messe in forse, sono state sottoposte a forti scossoni da tensioni e polemiche. C'è una situazione fluida, una situazione che potrebbe rimanere ancora stazionaria, ma che potrebbe, teoricamente - è un'ipotesi che non si può assolutamente escludere - involversi in peggio. Certo non mi sembra che in questo momento ci siano quelle condizioni straordinariamente favorevoli che esistevano, che si sono completamente realizzate e che hanno prodotto risultati imponenti subito dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio. La rabbia, la ribellione della gente, la risposta fortissima dello Stato, che finalmente ha saputo darsi quelle leggi che proprio Falcone e Borsellino chiedevano, hanno avuto come effetto contestuale, collaterale, conseguente (non lo so, ma certamente come effetto) anche una stagione di pentimenti che è stata forse la più florida che mai si sia avuta. Pentiti nuovi e pentiti vecchi hanno deciso di riferire una serie di cose che prima avevano taciuto ritenendo il momento, la fase non ancora congrua, non ancora conveniente e tale da non consentire ancora tutto questo. Tutto questo ha nomi e cognomi. L'arresto di Riina significa anche la collaborazione di Baldassare Di Maggio, e la collaborazione di Baldassare Di Maggio significa l'arresto di Di Matteo Mario Santo, che sarà il primo pentito a rivelare Capaci. Il tutto si combina con una speciale efficienza delle forze di polizia: la cattura di Ganci Raffaele e dei suoi figli; l'operazione della DIA in via Ughetti, che porta a catturare La Barbera e Gioè e per la prima volta a sentire dalla viva voce di costoro frasi, spezzoni di frasi riferite all'"attentatuni" e quindi di nuovo a Capaci; poi la cattura dei fratelli Graviano e la costituzione di Cancemi che, come ha già ricordato Guido Lo Forte, è estremamente importante. Poi, davvero esplodono le collaborazioni, oltre a quelle già in atto. Prima Di Matteo, che ci manda in bianco (per usare un'espressione del tutto atecnica) due volte: appena arrestato sembra che voglia pentirsi e ci si precipita, procuratore in testa - perché questo è il nostro dovere - per vedere se effettivamente questa impressione degli organi di polizia giudiziaria sia buona, e invece niente. Ricordo personalmente - credo di non rivelare assolutamente nulla che non possa essere rivelato (per di più in questa sede tutto può o deve essere rivelato) - che una seconda volta mi sono precipitato su convocazione della polizia giudiziaria, che aveva appena svolto un colloquio investigativo, perché di nuovo sembrava che Di Matteo volesse collaborare e invece egli improvvisa un verbale di cui francamente devo ancora capire il reale scopo adesso: o voleva studiare me o aveva cambiato improvvisamente idea, non so cosa. Arriverà però poi la terza volta e francamente questa volta ci sono andato ... Mi ero detto che la prossima volta non ci sarei andato più, perché una delle ipotesi che facevo è che volesse vedere se mi muovevo per intercettarmi con qualche amico fuori galera a mezza strada, ma questo fa parte della emotività di ciascuno di noi. Invece, decido di andarci e questa volta è la volta buona. Per la prima volta sento raccontare la strage di Capaci e chiaramente la mattina dopo passo tutto ai colleghi di Caltanissetta che svilupperanno, come hanno saputo fare, tutto quanto il discorso. Viene di seguito la collaborazione di La Barbera. Anche Cancemi, che fino a quel punto di Capaci non aveva parlato, ne parla. C'è un vero e proprio fiorire di pentimenti di medio ed alto livello. E soprattutto Mutolo, Buscetta, Marino Mannoia, Pagina 659 che fino a quel momento avevano toccato i rapporti mafia-politica solo per accenni, dicendo che ne sapevano, dicendo che esistevano, ma che non ritenevano possibile parlarne per timore di intimidazioni o per timore che fosse messa in dubbio addirittura la loro credibilità e che tutta la costruzione (nel senso tecnico-giuridico) accusatoria potesse essere vanificata, potesse essere demolita - "per non passare per pazzi": queste sono le parole, mi pare, che usano - decidono che la drammaticità, la rottura assoluta che Capaci e via D'Amelio rappresentano impongano moralmente e dal punto di vista della coerenza di collaboranti con le autorità dello Stato di dire tutto quello che sanno. I risultati vengono. Non voglio accennare ai processi più importanti e anche più complessi, perché quello riguardante Contrada è in fase dibattimentale e quello che riguarda il senatore Andreotti è alla vigilia di essere trattato dal GIP, ma penso ai rinvii a giudizio per l'omicidio Lima, per l'omicidio Salvo, per l'omicidio Grassi, per l'omicidio Cassarà, per padre Puglisi ed a cento e cento altri omicidi che vengono ad essere chiariti. Penso alle inchieste che toccano, riguardano, comportano l'incriminazione e l'accertamento di responsabilità - sempre dal punto di vista dell'accusa e sempre con riserva di verifica da parte dell'autorità giudicante - di medici, avvocati, notai, bancari: la cosiddetta zona grigia, che è l'elemento di forza di Cosa nostra. Penso ai grandi imprenditori, soprattutto in campo edile, di cui abbiamo parlato prima. Penso ad un risultato che Palermo aveva già conosciuto con il pool di Falcone e Borsellino. E' il crollo del mito dell'impunità di Cosa nostra e questa volta non soltanto di Cosa nostra militare (ma neppure allora si trattava solo di Cosa nostra militare), ma di Cosa nostra militare e non, in misura e dimensioni superiori a quelle di allora. Ecco, una stagione come questa in questo momento non c'è. E se non vi sia perché quella stagione si è esaurita di per sé stessa, se non vi sia perché sono cambiati i fattori che possono favorirla, francamente non lo so. Stiamo ancora vivendo questa fase per poter avere delle risposte sicure su quel che sta accadendo e sul perché stia accadendo in un certo modo. Di collaborazioni ce ne sono ancora. Se proprio dobbiamo dare un dato cronologico, anche abbastanza recenti. GIUSEPPE AYALA. Nuove? GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Sì, nuove. Non dell'importanza e dell'imponenza che hanno quelle che ho citato, però ci sono. Allora, si apre il discorso relativo all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario. Sono sicuro che molti considereranno queste mie parole ciniche, però il 41-bis, laddove viene applicato (c'è tutto il discorso sul 41-bis scatola vuota, mero involucro all'interno del quale, per una serie di motivi, per il fatto che particolari processi che devono essere celebrati comportano permanenze protratte all'Ucciardone e non più in istituti adatti) laddove funziona è indubbiamente - potranno sembrare ciniche queste parole, ma sono soltanto realistiche, perché il 41-bis non è altro che un trattamento di rigore, finalmente, nei confronti di detenuti mafiosi per i quali, fino all'entrata in vigore di questa legge dello Stato, di trattamento di rigore non vi era lontanamente da parlarne - un fattore ancora incentivante le collaborazioni. Vi era poi la domanda relativa al depistaggio. La procura di Palermo, allo stato delle conoscenze, non può riferire episodi concreti in questa direzione. Certo, è un profilo dei tanti problemi connessi alla collaborazione che - sia dal punto di vista teorico sia per le cose che, grazie allo scambio di informazioni e di dati con altri colleghi, si sentono dire e prospettare un po' più concretamente - non può non essere tenuto presente come eventualità di accadimento. Ma allo stato degli atti e delle conoscenze della procura di Palermo ... GIUSEPPE AYALA. Episodi concreti, tipo il caso Pellegriti, per intenderci. Pagina 660 GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. La procura di Palermo non ne ha ancora avvertiti. PRESIDENTE. Il direttore del Servizio di protezione ci ha detto che ci sono oltre trenta pentiti in più al mese. Voi avete registrato questa evenienza? GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Non per la procura di Palermo. PRESIDENTE. Per altre procure. GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. Circa la domanda relativa ai trenta pentiti in più al mese, desidero rilevare che i pentiti possono essere dissociati da organizzazioni criminali di vario tipo. Per quanto riguarda i dissociati dall'organizzazione criminale Cosa nostra, certamente i numeri sono diversi. GIUSEPPE SCOZZARI. Ritengo straordinario il contributo che questa sera la Commissione sta ricevendo dal procuratore della Repubblica e dal procuratore aggiunto di Palermo. Uno degli elementi più importanti che devono guidare la Commissione antimafia, infatti, è proprio il continuo scambio di opinioni, volto a finalizzarne l'attività. Se da un lato la procura della Repubblica, che è radicata nel territorio, indaga e promuove l'azione penale nei confronti dei mafiosi, dall'altro la Commissione antimafia deve essere guidata, attraverso l'interconnessione di informazioni sul territorio, nelle battaglie politiche e legislative che deve portare avanti al fine di dare man forte a chi è in prima linea. Rivolgerò ai nostri ospiti domande che vanno oltre la vicenda dei collaboratori, perché tanti problemi sono già stati posti e perché ritengo di dover sottoporre quesiti precisi utili sia al gruppo di lavoro che si occupa degli strumenti legislativi sia ai fini della comprensione delle strategie in alcuni settori nei quali opera Cosa nostra. La prima domanda che desidero porre concerne gli attentati agli amministratori siciliani. E' ormai chiara la matrice mafiosa di questi attentati; tuttavia, riesce difficile a volte capirne, anche se si intuisce, la chiave di lettura. Tutti la intuiamo, ma per voi che state vivendo il dramma dei gravi attentati a questi amministratori, da Corleone a Piana degli Albanesi, la chiave di lettura è molto precisa. In questa direzione mi chiedo (peraltro io sono di Agrigento) in che termini debba svolgersi l'azione della Commissione parlamentare antimafia affinché l'isolamento diminuisca. Forse è facile intuire anche questo, ma al riguardo chiediamo un parere del procuratore della Repubblica di Palermo. Il secondo problema che intendo trattare concerne i collaboratori non pentiti né mafiosi. In Sicilia ne abbiamo diversi: si tratta, per esempio, di quei commercianti onesti che hanno detto "basta" all'estorsione ed hanno deciso di collaborare con la magistratura. Nel corso della sua audizione il dottor De Gennaro ha affermato che anche loro stanno vivendo una situazione molto difficile. I casi che personalmente mi risultano - peraltro sono avvocato di parte civile in alcuni di questi - sono parecchi e diversi; in che cosa - è questa la mia domanda - è carente la legislazione che dovrebbe essere di ausilio a questi soggetti, che certamente non sono mafiosi e non lo sono mai stati e meritano tutela ed attenzione da parte dello Stato? In che termini, dunque, è possibile aiutare questi soggetti? Nella mia esperienza personale di avvocato - pongo un'altra questione - ho assistito numerosi collaboratori. A tale proposito devo dire che i tempi di risposta della commissione centrale erano disastrosi. Quali sono oggi i tempi e come può adoperarsi la Commissione antimafia, ove sussistano ancora questi lassi di tempo disastrosi, per un intervento dal punto di vista economico ed anche dell'assistenza ai familiari? In che termini possiamo muoverci e quali questioni dobbiamo sollecitare affinché questi strumenti vengano definiti in tempi più rapidi? Desidero porre brevemente un'altra puntuale domanda in relazione alla strategia posta in essere contro la Chiesa. Lo Pagina 661 scopo lo abbiamo capito: laddove la Chiesa svolge un ruolo di sensibilizzazione forte delle coscienze, viene ad essere duramente attaccata e colpita, come è accaduto nei confronti di padre Puglisi e come è accaduto, e purtroppo non abbiamo potuto fare nulla e per primo me ne dolgo, nei confronti di padre Zambolin, che è stato costretto a lasciare Palermo. In rapporto a quest'ultima vicenda abbiamo anche noi, componenti la Commissione antimafia, una grave responsabilità perché non ci siamo adoperati nella misura più efficace e giusta. Lo stesso vale per quello che sta accadendo a Termini Imerese. In che termini, allora, è possibile signori procuratori, alzare la tensione? Molte volte il grido di allarme della procura di Palermo è stato da noi - almeno da me - letto con grave disagio e con fortissimi sensi di colpa. In che termini è possibile contrastare quanto sta avvenendo nei confronti della Chiesa e di chi è esposto in prima linea ad educare le coscienze? Per quanto riguarda la confisca dei beni chiedo, in maniera molto precisa, cosa sia necessario fare per velocizzare non tanto la confisca, perché essa dipende dalla velocità dei processi, ma quantomeno l'immediata acquisizione dei beni, anche se questa può essere temporanea e sottoposta ad un probabile o possibile giudizio, sia di assoluzione sia di condanna. Dico questo perché molte volte dopo il sequestro purtroppo il bene sequestrato è stato affidato in custodia ai familiari del presunto mafioso. Questo crea un effetto nell'immaginario collettivo e nella società, nel senso che induce ad affermare che non è cambiato nulla perché se un bene sequestrato viene ridato in uso e la società civile, la gente, constata che in realtà la famiglia del mafioso continua ad usufruirne, il segnale che si invia è assolutamente negativo. Bisogna allora capire cosa fare per velocizzare i tempi, perché anche in questo caso si sconta un'alta burocratizzazione nell'acquisizione dei beni. Meno di un mese fa, insieme alla presidente Parenti, abbiamo fatto una visita ad Agrigento nel corso della quale abbiamo incontrato i magistrati che vivono in prima linea la lotta alla mafia, sia perché sono molto esposti con le inchieste sul riciclaggio e gli stupefacenti, sia perché si celebrano nella città i processi di mafia, sia perché vivono, come loro stessi l'hanno definita, una sorta di emarginazione rispetto ai territori nei quali si fanno le inchieste di mafia. Quei magistrati ci hanno fornito delle idee e poiché anche in questo caso il problema implica una riforma legislativa, desidero conoscere il parere del procuratore della Repubblica di Palermo su due aspetti fondamentali. Abbiamo registrato un primo parere negativo nei confronti dei tribunali distrettuali. Il parere è negativo perché, come ci è stato riferito, nel momento in cui si centralizza anche l'effettuazione dei processi a Palermo, per Agrigento è come se si effettuasse una sorta di abbandono di una parte del territorio. Non solo: ne deriverebbero anche disagi dal punto di vista dell'effettuazione dei processi stessi perché a Palermo si avrebbe un ipercarico sia da un punto di vista logistico sia dal punto di vista della velocità dei processi. I magistrati di Agrigento sostengono che in fondo si può ovviare a questo problema mantenendo i tribunali nelle sedi distaccate, quindi aumentando la presenza dello Stato "in periferia" (lo dico tra virgolette perché la lotta alla mafia non deve conoscere la periferia) ed utilizzando anche il meccanismo delle deleghe. Ad Agrigento l'ultimo processo di mafia condotto dal bravo dottor D'Ambruoso, sostituto procuratore presso quella procura, si è risolto con numerosi ergastoli e numerosi anni di condanna nei confronti dei mafiosi. Anche lì lo Stato ha vinto, nonostante il processo sia stato celebrato in una città che non è quella della procura distrettuale. Al riguardo desidero conoscere l'orientamento del procuratore Caselli. E' stata poi avanzata la richiesta di far partecipare d'ufficio i procuratori ordinari presso la procura distrettuale antimafia. Più di un procuratore lo ha evidenziato e il motivo è semplice: molte volte le inchieste possono essere condotte in base ad un'esatta conoscenza dei fatti se si opera sul luogo. Il procuratore della Repubblica Pagina 662 può avere le stesse informazioni che ottiene la centrale operativa antimafia, nella quale confluiscono tutte le notizie, ma chi vive sul luogo ha maggiori informazioni rispetto a chi, pur avendole centralizzate, non vive in quella realtà. Chiedo infine una informazione neutra, che tuttavia può essere utile alla Commissione. Desidero sapere se il dottor Ilarda fa parte della procura distrettuale antimafia e se ha in carico dei processi di mafia. Concludo invitando il presidente della Commissione antimafia a trasmettere il resoconto dell'audizione odierna al presidente della Commissione giustizia della Camera, onorevole Maiolo, affinché si renda conto che a volte determinate dichiarazioni possono essere destabilizzanti nella lotta alla mafia. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Mi riferirò agli aspetti più complessi che comportano una risposta secca e schematica: la confisca dei beni, cosa fare per "velocizzare" e cosa fare perché tutto non sembri assolutamente uguale a sempre, anche al fine di non vanificare, quanto meno sotto il profilo dell'immagine offerta dall'amministrazione della giustizia all'opinione pubblica, la risposta concreta ed effettiva a Cosa nostra, al suo momento di potenza economica. Non ho dati per rispondere alla domanda ma posso chiedere una relazione al collega De Francisci, se lo si ritiene utile ed opportuno, onorevole Scozzari. Il problema è particolarmente avvertito tanto che negli ultimi tempi se ne è discusso. Il collega De Francisci, i componenti la sezione misure di prevenzione e la dirigenza dell'ufficio (i procuratori aggiunti ed il sottoscritto) hanno dibattuto sull'opportunità di sedere insieme attorno allo stesso tavolo - anche se esistono delle difficoltà trattandosi di requirente e di giudicante - con i magistrati di sorveglianza (e ferma restando la garanzia, ovvia ed indiscutibile, dell'assoluta indipendenza e autonomia affinché non vi siano interferenze degli uni sugli altri), per affrontare il tema della gestione e dell'amministrazione dei beni prima ancora della confisca. Ciò affinché questa non venga vanificata con l'affidamento a soggetti che non garantiscono la rispondenza all'interesse pubblico. Rispondo avanzando la riserva di trasmettere qualcosa di più articolato. Tuttavia vi è un'attestazione di esistenza del problema e della relativa cognizione da parte nostra al punto che stiamo individuando le strade da praticare per discutere insieme con gli altri organi competenti dello Stato. Passo ora a trattare degli attentati agli amministratori siciliani per poi soffermarmi sui rapporti tra la distrettuale, le procure ed i tribunali locali. Gli attentati agli amministratori siciliani hanno particolarmente preoccupato le autorità investigative parlermitane e la procura della Repubblica. Va sottolineata la sequenza di questi attentati oltre all'arroganza ed alla iattanza con cui sono stati commessi. Ricordo solo un caso: quando il ministro Maroni ha organizzato a Piana degli Albanesi la riunione degli amministratori locali - che è risultata particolarmente significativa per gli impegni assunti dal ministro e per le considerazioni svolte dagli amministratori locali, i quali hanno sentito davvero vicino lo Stato - nella notte è stato compiuto uno dei più gravi attentati quale reazione alla presenza fattiva, impegnativa, forte e significativa dello Stato. Vi è preoccupazione perché gli attentati sono magari cento o centocinquanta (e mi dispiace di non avere dati precisi al riguardo). Indubbiamente non tutti sono riconducibili alla stessa matrice, ma c'è un nucleo assolutamente corposo che, con sicurezza, può essere ricondotto alla strategia mafiosa di riaffermazione di una presenza arrogante, violenta e criminale nel territorio. Il che sembra combinarsi con la presenza di latitanti su questi stessi territori, ciò che rappresenta un altro punto particolarmente dolente e, al tempo stesso, estremamente rilevante in ordine alla risposta istituzionale alla mafia. I latitanti, secondo me, si cercano; per quello che posso avvertire dal mio osservatorio Pagina 663 e considerato il ruolo svolto dalla procura, posso dire che è in corso un'intensa attività di ricerca dei latitanti maggiori, ora fortunata ora meno fortunata (la speranza ovviamente è che sia fortunata e in tempi brevi). Vi è però un numero davvero preoccupante di latitanti di medio calibro, i quali rappresentano la struttura portante dal punto di vista militare, dei collegamenti, dell'esibizione di sé sul territorio (latitanti sono persone operative) e della forza di Cosa nostra. Gli attentati agli amministratori sembrano combinati con la presenza, quantitativamente cospicua, di latitanti che tali restano nonostante gli sforzi delle forze dell'ordine (dei quali va dato atto) per catturarli. La mimetizzazione dell'uomo d'onore sul territorio è il portato di una sapienza secolare, di un affinamento progressivo nel corso degli anni e della militanza. Quella stessa mimetizzazione che con fatica cerchiamo di realizzare, e che molte volte costituisce ancora un obiettivo per i pentiti, in questo caso è un dato di fatto che rappresenta un punto di assoluta forza. Dunque, si avverte molta preoccupazione sia per i fatti in sé sia per la trama strategica che si intravvede. Da qui la ricerca di contromisure; per quanto riguarda la procura si sottolinea la creazione di una squadretta articolata su due soggetti che lavorano se non a tempo pieno, a tempo semipieno sugli attentati, e la formazione di una squadra interforze per intervento del ministro Maroni, davvero molto attento e sollecito nel dare disposizioni di supporto alle investigazioni (che però ha funzionato entro certi limiti). Vi sono ricognizioni ed investigazioni significativamente in atto e credo che dal punto di vista tecnico sia difficile fare qualcosa di più. Speriamo che si producano risultati; allo stato degli atti non si registrano ancora risultati e siamo dispiaciuti. Gli attentati sono continuati ed hanno colpito non solo gli amministratori di una certa parte politica: evidentemente non c'è distinzione di collocazione politica dal momento che si prende in considerazione la serietà... MASSIMO BRUTTI. Sono stati interessati anche i parroci. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Ci siamo ripartiti i compiti. Degli eventi che hanno interessato la Chiesa parlerà il collega Lo Forte. GIUSEPPE SCOZZARI. Sarebbe opportuna ed utile una visita della Commissione. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Cosa può fare la Commissione? Certamente un'attenzione a questi problemi prestata sul posto, come è stato già sperimentato, male non fa, anzi può essere utile. Vi sono alcuni profili che gli amministratori locali sistematicamente denunciano. Per esempio, le difficoltà di rapporto con il Coreco, le difficoltà di rapporti con la regione, le difficoltà proprio di funzionamento della stessa amministrazione locale che perversamente, senza sicuramente l'intenzione di nessuno, possono combinarsi con l'attacco militare esterno. Al riguardo, non so quali siano le specifiche competenze o le concrete possibilità di intervento della Commissione, ma se vi fossero, ecco un terreno su cui la Commissione utilmente e proficuamente potrebbe muovere. Dopo aver visitato le sedi cosiddette periferiche, che poi periferiche non sono per niente, giustamente avete colto e proposto oggi il tema, molto importante, dei tribunali distrettuali. Proverei ad articolare il discorso, sia pure per sommi capi, su tutti i possibili passaggi. Anch'io sono assolutamente convinto - parlano i dati; non è convinzione personale - che i tribunali periferici abbiano dato e stiano dando ottima prova, non perché le richieste della procura sono state tutte accolte, ma perché il rigore di impostazione dell'accertamento dibattimentale - pur in condizioni che sono obiettivamente meno facili (c'è una Pagina 664 maggiore vicinanza a determinati soggetti, anche perché le strutture logistiche sono ben diverse da quelle del palazzo di giustizia o dell'aula-bunker di Palermo), anzi nonostante queste difficoltà logistiche - ha portato ad una risposta sul piano dibattimentale davvero di buon livello, per quanto riguarda la valutazione dell'accusa. Quindi, questi tribunali funzionano: quando si solleva il tema dei tribunali distrettuali non è per insoddisfazione nei loro confronti, ma per altro tipo di problemi. I problemi nascono dal fatto che oggi l'accusa è costretta ad operare anche presso Trapani, Marsala, Agrigento, Sciacca e Termini Imerese. Basta l'elenco per comprendere come la procura distrettuale di Palermo sia un unicum tra le altre distrettuali: non c'è altra distrettuale in Italia che debba fare i conti processuali con procure e tribunali come quelli di Agrigento, Trapani, Marsala, Sciacca e Termini Imerese. Ciascuna di queste è una piccola Palermo per quanto riguarda il gettito di produttività - scusate queste espressioni che fanno un po' ridere - mafiosa. Dico sempre, quando parlo di queste cose, che la mia città di origine questi problemi li ha con Mondovì, che se ha trasmesso un processo alla distrettuale in centocinquanta anni ne ha già mandato uno di troppo, per fortuna di Mondovì e per fortuna di Torino! Invece, al 30 settembre 1994, i processi pendenti nel territorio di Palermo sono 86, di cui 32 per Agrigento, 11 per Trapani, 18 per Marsala, 3 per Termini Imerese e 3 per Sciacca. Quindi, il gettito di Agrigento, di Trapani e di Marsala, in particolare, è consistente: ciascuno di questi numeri significa molte volte 50 o 100 imputati, in zone che, prima di Borsellino in particolare, non avevano mai visto - senza colpa di nessuno, ma per una serie di fattori storici, eccetera - una risposta significativa. Allora, c'è un gettito di lavoro particolarmente importante, complesso, significativo che ricade sulla procura distrettuale, la quale non soltanto deve svolgere le indagini preliminari ma, proprio per la complessità di questi processi, deve anche sostenere l'accusa al dibattimento. Non è pensabile che questi processi con 50 o 100 imputati, soprattutto con il nuovo rito, li faccia il pubblico ministero X in fase di indagini preliminari e poi si passino, come un pacco da trasportare, ad un altro pubblico ministero, che potrà essere il più bravo del mondo, davvero capace di improvvisare o di capire tutto al volo, ma se non si sono costruite le prove, che poi al dibattimento soltanto si formeranno definitivamente, non ci può essere resa al massimo delle potenzialità del lavoro investigativo della polizia e istruttorio da parte del PM in fase di indagini preliminari. Però, oggi cosa succede? In questo momento siamo 13 magistrati: il dottor Ilarda non fa parte da molti mesi della procura, perché su sua domanda ha chiesto ed ottenuto il trasferimento alla procura generale e non è stato sostituito alla distrettuale, per una serie di motivi. Quindi, se con il dottor Ilarda eravamo 14 adesso siamo diventati 13. Questi 13 debbono oggi sopportare un carico di lavoro davvero massacrante. Siccome francamente speravo in qualche domanda su questo tema - non è che l'onorevole Scozzari ed io siamo d'accordo, perché non ci conosciamo - essendo uno dei problemi che ci angoscia maggiormente, ho chiesto al collega Croce, che specificamente cura i rapporti con la cosiddetta provincia, cioè con i tribunali cosiddetti periferici, di aggiornarmi a stamattina sulla situazione. Se mi consentite, vi leggo il promemoria che mi ha preparato: "Il 5 dicembre prossimo venturo avrà inizio dinanzi alla corte d'assise di Agrigento il procedimento penale nei confronti di Alletto Croce + 79, imputati dei reati di associazione per delinquere di tipo mafioso, strage e altro; procedimento penale con ben 73 detenuti che pertanto non potrà svolgersi in locali del palazzo di giustizia di Agrigento ma nell'aula bunker ricavata nella nuova casa circondariale di quella città, per la quale i lavori di adattamento, iniziati nella scorsa estate, non sono stati ancora ultimati". Fin qui Agrigento ha celebrato i processi in un'aula "qualunque" che è diventata un po' meno qualunque grazie allo straordinario impegno del ministro Conso, perché quando Pagina 665 siamo andati (procuratore generale, procuratore della Repubblica, presidente del tribunale di Agrigento e procuratore di Agrigento) a verificare lo stato dei luoghi, francamente non me la son sentita di mandare in quella situazione logistico-ambientale procuratori della distrettuale, perché i rischi erano incredibili: non c'erano vetri blindati, non c'erano gabbie per gli imputati... GIUSEPPE SCOZZARI. Il presidente l'ha vista. E' una situazione nota. Devono passare dentro la città! GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Fate uno sforzo e cercate di immaginare cosa fosse quell'aula senza vetri blindati, senza metal detector all'ingresso per i parenti, senza nulla di nulla! E i primi processi per fatti di mafia avrebbero dovuto cominciare così! L'impegno dei colleghi locali e, per quanto ci competeva, nostro e la straordinaria attenzione del ministro Conso e del suo staff (la dottoressa Argento e gli altri che si occupano principalmente di queste cose) ha consentito in tempi assolutamente record, inimmaginabili per le nostre amministrazioni in generale, di provvedere, sia pure in una maniera insufficiente. Frattanto è proseguita la costruzione dell'aula-bunker. Credevo fosse ultimata, invece scopro che non lo è, ma sarà comunque l'unico - diciamolo subito - dei tanti tribunali periferici che potrà contare su un'aula-bunker. Vedremo subito dopo che a Sciacca sta per iniziare un processo e lì non esiste nulla del genere. GIUSEPPE SCOZZARI. Mancano anche i vetri blindati! GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Pubblici ministeri nel procedimento che andrà ad aprirsi ad Agrigento il 5 dicembre saranno i colleghi Principato e Teresi - sono cose pubbliche, non credo di venir meno a nessun dovere nel menzionarli - che sono quelli che hanno svolto le indagini preliminari. Il promemoria prosegue ricordando che "il 12 dicembre avrà inizio a Sciacca il procedimento penale nei confronti di Ganci Salvatore + 23 (11 detenuti), per associazione per delinquere. La pubblica offesa sarà rappresentata da Teresa Principato e Olga Capasso. Il 9 gennaio 1995 presso la corte d'assise di Agrigento, avrà inizio il procedimento contro Puzzangaro Gaetano + 5 per l'omicidio del maresciallo dei carabinieri Guazzelli ed altri; PM la dottoressa Principato e Vittorio Teresi. E' di tutta evidenza" - scrive il dottor Teresi - "la grave esposizione a rischio cui saranno sottoposti i magistrati di questa DDA, costretti a quotidiani spostamenti tra Palermo, Agrigento e Sciacca, attraverso strade che non consentono alternative. Tale esposizione è ancora più preoccupante ove si consideri che nessuna misura di sicurezza è stata a tutt'oggi adottata nei locali del tribunale di Sciacca". Segue tutta una descrizione analitica che credo di dovervi risparmiare perché se ci siete stati l'avete constatata con mano. GIUSEPPE SCOZZARI. La conosciamo molto bene, perché il procuratore ce l'ha illustrata in modo puntuale. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Allora, in questo momento, i tribunali distrettuali sono assolutamente necessari ed urgenti per Palermo, anche se mi rendo conto per primo che, se si esce da Palermo, è difficile che questa realtà drammatica sia percepita. L'ho detto al Consiglio superiore quando sono stato convocato e non posso che ripeterlo oggi: a Torino ero contro i tribunali distrettuali, ma dopo essere arrivato a Palermo mi è bastata una settimana, quindici giorni o un mese - non che io sia particolarmente banderuola - per capire che i tribunali distrettuali per Palermo sono una necessità, non un optional. In questo momento sono assolutamente necessari: necessari per la sicurezza dei magistrati che devono spostarsi; necessari per la sicurezza dei magistrati che devono lavorare attualmente nei tribunali periferici, non essendoci aule-bunker che invece a Palermo ci sono; necessari anche per le indagini che sono ancora in corso. Pagina 666 Se tutti questi colleghi debbono necessariamente seguire i dibattimenti (e contemporaneamente sta cominciando una grande stagione di dibattimenti anche a Palermo), come procura corriamo concretamente il rischio di non avere più magistrati che facciano le indagini. Sono tutti o quasi impegnati nei dibattimenti. PRESIDENTE. Anche se fossero a Palermo sarebbe la stessa cosa. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. No, se fossero a Palermo avremmo un po' più di tempo, perché quanto meno non ci sarebbero gli spostamenti. Economizzeremmo i tempi degli spostamenti e, in ogni caso, risolveremmo il problema della sicurezza, che è davvero importante, per non dire decisivo, in questa serie di valutazioni. GIUSEPPE SCOZZARI. Ecco perché bisogna mobilitarsi con il Ministero per fare in modo che questi magistrati si spostino quanto meno in elicottero. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Questo avviene. Ma se l'elicottero è un mezzo di spostamento un po' più sicuro occorre considerare anche la sua visibilità... E' proprio lo spostarsi ad udienza fissa, con preavviso dato, per obbligo di legge, all'universo mondo che comporta, qualunque sia il mezzo, problemi di sicurezza che sono in re ipsa. Credo, dunque, che i tribunali distrettuali siano assolutamente necessari. Però sono pessimista perché fuori di Palermo è difficile per chi non vive la realtà di questa città rendersi conto della drammaticità e dell'urgenza del problema. Mentre sul problema dei pentiti o è bianco o è nero, nella mia presunzione, perché sull'utilità di questo strumento non si discute, per quanto riguarda il problema dei tribunali distrettuali posso capire che, vivendo una determinata realtà si pensa necessariamente in un certo modo, mentre non vivendo questa realtà di vede tutto più sfumato, più semplice, anche se così non è. Se i tribunali distrettuali dovessero diventare realtà, è chiaro che le strutture giudicanti di Palermo dovrebbero essere potenziate, altrimenti ritroveremmo lì il collo di bottiglia. Collo di bottiglia che abbiamo già oggi: molte volte qualcuno, strumentalmente, cercando di mettere procura contro tribunale, afferma che c'è stato uno sbilanciamento nel senso di un potenziamento dell'accusa e di una mortificazione delle strutture giudicanti, in particolare quella dei GIP. Chi lo afferma strumentalmente, per creare contrapposizioni, per creare contrasti, per seminare un po' di veleno all'interno del palazzo di giustizia di Palermo, sbaglia; chi lo dice avendo come punto di riferimento soltanto la realtà dei problemi ha perfettamente ragione. Prova ne sia che i primi a dire che 8 GIP (ora stanno per diventare 14) per Palermo sono assolutamente insufficienti siamo stati noi (chiedo scuse se cito ancora una volta noi stessi); ma lo sono anche per le esigenze dell'accusa, perché molte delle nostre richieste - lo dico senza volerne dare la colpa a nessuno, perché ad impossibilia nemo tenetur- restano giacenti per mesi. Infatti, non essendoci il tempo materiale di studiare seriamente tutto, i magistrati di Palermo, che sono di assoluta ed ineccepibile serietà - non tocca a me dirlo - non mandano avanti cose che non siano assolutamente digerite e metabolizzate dal punto di vista tecnico-giuridico della conoscenza completa degli atti da parte dei GIP medesimi. Per cercare almeno di toccare tutti i passaggi, resta il problema dei rapporti tra procure distrettuali e procure circondariali, territoriali. La prima considerazione da fare è, secondo me, che la distrettuale è un valore, ha dato una prova positiva nella sperimentazione concreta di sé, quindi è una struttura da mantenere. Il concetto ispiratore del pool di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino, quello della concentrazione delle conoscenze in modo da poter avere una visione organica di Cosa nostra - e avendo questa visione organica inseguire più facilmente, all'interno del quadro così formato, le manifestazioni specifiche singole di criminalità - è il concetto Pagina 667 che si è cercato di riprodurre con la distrettuale. Quindi, bisogna avere una visione organica, unitaria, in un ambito territoriale allargato, essendo sempre più chiaro che Agrigento, Trapani e Marsala sono serbatoi, retroterra, canali di alimentazione, posti di reclutamento di Cosa nostra, sono Cosa nostra, oltre alle manifestazioni di stidda che sono compresenti. GIUSEPPE SCOZZARI. La stidda è un fenomeno tipicamente agrigentino. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Certo. Dunque, avere una visione unitaria, almeno per quanto riguarda il distretto, è la riproposizione del valore del pool e, conseguentemente, è un recupero rispetto all'abbattimento del pool all'epoca della famosa polemica Falcone-Meli, quando vinsero determinate impostazioni, che non erano tanto quelle di una persona contro l'altra bensì di una cultura di investigazione e di indagine contro l'altra; mi riferisco alla cultura della parcellizzazione, della segmentazione, quindi della condanna degli organi di contrasto dello Stato ad una visione asfittica, ridotta, parcellizzata, appunto, rispetto a quella organica e complessiva che poteva consentire di capire di più e quindi di rispondere più efficacemente. Resti fermo, allora, il valore della distrettuale per quell'intelligence di conoscenza, per quell'organicità, armonicità, unitarietà di conoscenza che comporta; ma il problema dei rapporti con le procure distrettuali esiste. L'onorevole Scozzari ha citato la proposta dei colleghi delle territoriali: è la nostra proposta. Abbiamo fatto una riunione in proposito e ci è poi mancato il tempo per farne altre, ma i primi ad avanzare una proposta che sia in qualche modo di salvaguardia dei valori della distrettuale ma anche di maggior coinvolgimento delle territoriali... GIUSEPPE SCOZZARI. E' un braccio che si cala nel territorio. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Esatto. Dal punto di vista ordinamentale, le risposte sono complicatissime, perché l'ordinamento giudiziario non facilita risposte di questo tipo. Ma fare del procuratore di Marsala, di Trapani e di Agrigento l'aggiunto della distrettuale potrebbe essere una soluzione. Secondo me non la migliore perché poi, di fatto, nonostante le migliori intenzioni, si riprodurrebbe una competenza locale che svuoterebbe della possibilità di una visione organica la distrettuale. Forse, una soluzione potrebbe essere la seguente: componenti della distrettuale, che naturalmente dovrebbe essere potenziata (che lavorino, quando ce ne sia la necessità, come magistrati stanziali (per usare questa espressione) in Trapani, Marsala ed Agrigento, con un rapporto organico e con la distrettuale e con la procura locale, in modo da assicurare un'osmosi; altrimenti, il rischio che corriamo è grosso. Va bene accentrare nella distrettuale per avere una visione organica, però è vero - con la presidente Parenti se ne è già parlato in occasione della sua prima venuta a Palermo - che la presenza sul territorio consente di avere a disposizione, per quanto riguarda sia la polizia, sia i carabinieri, sia i magistrati della procura, dei sensori, degli elementi di valutazione - proprio perché direttamente sul territorio - assai più sensibili e più forti di quelli che, con tutti gli sforzi che si possono fare, si hanno a Palermo. Anche se i chilometri di distanza sono pochi, la specificità del territorio non vissuta con l'inserimento nel territorio stesso non consente di cogliere alcune cose, di seguirle, intuirle, capirle nel momento della loro formazione, il che può essere decisivo affinché non lievitino più di tanto; dunque c'è il rischio che concentrando tutto nella distrettuale, senza coinvolgere in qualche modo le territoriali - e la polizia e i carabinieri, oltre alla magistratura - si finisca per demotivare e non rendere così attenti e sensibili - come viceversa potrebbero essere essendo collocati sul territorio - i nostri colleghi, i poliziotti, i carabinieri. Il valore della distrettuale va dunque, secondo me, salvaguardato e potenziato, ma studiando e realizzando Pagina 668 al più presto forme di coinvolgimento delle procure e delle forze di polizia territoriali, che altrimenti rischiano di appannare la loro sensibilità, sapendo che, dopo la primissima battuta, la competenza non è più loro. Questo - di nuovo - è un problema particolarmente urgente per Palermo e forse ha l'uguale soltanto nel caso di Catania e di Napoli; altre procure distrettuali sono assai più fortunate e non hanno questi problemi. Per Palermo il rapporto con Agrigento, Trapani, Marsala, Termini Imerese e Sciacca comporta, allo stato degli atti, l'esigenza del tribunale distrettuale e, per un futuro che deve essere, però, il più possibile immediato, un rapporto più organico e stretto, di maggior valorizzazione e coinvolgimento con le territoriali. GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. L'ultima domanda posta dal deputato Scozzari riguarda il significato profondo degli atti di intimidazione che si stanno verificando nei confronti di esponenti della Chiesa, di sacerdoti, di pastori. Credo che questo, come significato profondo e come espressione del dato di analisi della realtà attuale della società siciliana, rappresenti il segnale più terrificante. L'uso di questo aggettivo - terrificante - non significa che intenda esprimere un pessimismo totale: dobbiamo tuttavia essere realisti e renderci conto, evitando di coltivare facili illusioni, del significato dell'azione perpetrata contro la chiesa. Cosa hanno fatto questi sacerdoti? Debbo dire subito che a mio avviso l'episodio di padre Zambolin, costretto ad allontanarsi dalla sua parrocchia, è di una gravità eccezionale che non può essere assolutamente sottovalutata. Questi sacerdoti, nel rigoroso ambito della loro visione pastorale ed evangelica, hanno semplicemente raccolto i giovani dalla strada ed hanno utilizzato, per il loro recupero e per lo svolgimento di attività sociali, luoghi che un tempo erano sotto il dominio di Cosa nostra, che li destinava all'esercizio di attività criminali. Inoltre, come nel caso di padre Zambolin, hanno esortato i cittadini ed i parrocchiani, con impegno e con passione, ad aderire alla cultura ed alla pratica dell'ordinaria legalità: li hanno semplicemente invitati a vivere legalmente nell'ordinario, a denunciare le attività illecite che si svolgevano nel loro territorio, a comportarsi secondo quei criteri di normale, ordinaria legalità che sono considerati dati assolutamente scontati in qualsiasi società civile. E' bastato, per provocare la reazione, che i sacerdoti facessero certe cose ed assumessero determinate iniziative. Queste ultime, del resto, hanno rappresentato moltissimo in una realtà come quella palermitana: si illudeva chi pensava che a Palermo parlare di ordinaria legalità fosse un fatto normale e non, invece, rivoluzionario, così come è ancora oggi (questo è il dato terrificante ed estremamente preoccupante). Ancora più terrificante - possiamo dirlo in generale, evitando di citare casi specifici - è stata la reazione della comunità, che si è ritratta. Perché è accaduta questa cosa tremenda? L'aspetto più terrificante è non tanto l'atto di intimidazione di Cosa nostra, che rientra nelle regole del gioco e che diamo per scontato, quanto, piuttosto, la reazione della comunità parrocchiale che, di fronte all'alternativa tra l'esortazione evangelica ad ispirarsi all'ordinaria legalità e l'atteggiamento di Cosa nostra, si è ritratta, tanto che il sacerdote in questione è stato costretto ad andar via. Tutto questo conferma che nella realtà territoriale palermitana viene tuttora esercitato un pesante ed arrogante controllo sociale da parte di Cosa nostra: questo è il dato veramente terrificante! C'è ancora molto da fare sul piano culturale, morale e sociale. La lotta che noi, da un punto di vista tecnico e professionale, consideriamo in uno stadio molto avanzato (dal momento che individuiamo i criminali, li arrestiamo e li processiamo), dal punto di vista sociale generale è ancora agli inizi. In sostanza, il processo di sradicamento di una certa cultura è ancora in una fase iniziale. Ricordo che questi sacerdoti hanno ribadito il messaggio che fu già lanciato dal Pagina 669 generale Dalla Chiesa, il quale aveva compreso la necessità di partire dalla ordinaria e semplice legalità, dal ripristino di normali condizioni di convivenza civile. E', questo, un grande compito, un grande terreno sul quale si può misurare la capacità di incidenza e di intervento di un organismo qualificato qual è la Commissione parlamentare antimafia. Si tratta di un settore nel quale bisogna far sentire il più possibile la presenza dello Stato, non soltanto nei suoi aspetti e nelle sue istituzioni repressive (quali sono, per esempio, per dovere d'ufficio, la polizia, i carabinieri e la magistratura) ma anche sotto il profilo di una presenza statale che si configuri come sostegno economico, culturale e sociale, come affermazione di valori di cultura. Di questo dato dobbiamo tutti tenere conto nel momento in cui pensiamo che quello di Cosa nostra sia un problema marginale o in via di esaurimento: nulla di più falso! E' proprio questa verifica sul campo dell'attuale rapporto tra Cosa nostra e la società civile a confermarci come ci sia ancora moltissimo da fare e come vi siano ancora tanti anni - per lo meno spero che di anni si tratti e non di decenni - da percorrere nell'azione di contrasto alla criminalità organizzata. GIUSEPPE ARLACCHI. Gentili procuratori, considerata l'ora "pericolosamente" tarda, mi limiterò a porre tre brevi domande, di cui due, diciamo così, facili ed una forse un po' più difficile. La prima domanda è la seguente: poiché il procuratore Lo Forte si è diffuso ampiamente sulla agenzia dei marshal americani, quale suggerimento vi sentite di dare a questa Commissione nella prospettiva di un intervento di modifica dell'attuale legislazione con riguardo alle strutture ed alle disposizioni che presiedono al settore dei collaboratori di giustizia? A vostro avviso è più opportuno partire dall'attuale Servizio centrale di protezione per poi svilupparlo (in questo caso ci si troverebbe di fronte al problema delle "origini" del personale da utilizzare per sviluppare il servizio, che, come voi sapete, attinge alle forze di polizia esistenti) oppure ritenete sia più utile che la Commissione cominci a pensare ad una agenzia completamente nuova che si ispiri, senza copiarlo, al modello dei marshal, che abbia cioè una sua autonomia ed un suo percorso di formazione autonoma rispetto al servizio centrale? Inoltre, vorrei sapere se, dal punto di vista delle funzioni, pensiate ad una agenzia che, a differenza dei marshal, si specializzi nel servizio di protezione, dal momento che i marshal- come sapete bene - non sono preposti soltanto a questo aspetto ma sono strutturati come agenzia di servizi di polizia che si occupa di diversi aspetti (penso, per esempio, alla ricerca dei latitanti e ad alcune questioni carcerarie), tra i quali anche quello relativo alla protezione dei collaboratori di giustizia. Vorrei inoltre sapere se vi risulti, a parte il notissimo caso di Leonardo Messina, l'esistenza di contatti tra collaboratori di giustizia, nel momento in cui operavano nelle rispettive società segrete di appartenenza, e agenti dei servizi di sicurezza del nostro o di altri paesi. La terza domanda, quella cioè che ho definito un po' più "difficile" delle altre, riguarda il riferimento da voi fatto all'effetto delle informazioni fornite dai collaboratori sul grado di compartimentazione interna e di circolazione delle informazioni di Cosa nostra. Si tratta di un aspetto interessante che rappresenta tuttavia l'accentuazione di una caratteristica fondamentale già riscontrabile in Cosa nostra. In un volume che ho scritto dopo i miei colloqui con Buscetta, ho intitolato un capitolo "Cosa nostra: il regno dei discorsi incompleti". Ciò proprio per sottolineare questo aspetto emerso dalle dichiarazioni di Buscetta, secondo il quale nessun mafioso, nessun uomo d'onore, salvo i capi o chi ha partecipato direttamente ad un'azione criminale, è in grado di ricostruire dalla a alla zeta un delitto od un fatto criminoso rilevante. Questa compartimentazione - dice Buscetta - a volte fa perdere i collaboratori e produce come effetto che spesso il lavoro del magistrato e dell'investigatore è finalizzato a connettere i diversi "pezzi" di informazioni assunti da diversi collaboratori. Pagina 670 La mia domanda è questa: a parte l'effetto, che indubbiamente c'è, di un'accentuazione della compartimentazione abbastanza logicamente prevedibile, sul piano delle gerarchie e della struttura interna di Cosa nostra (quindi, di tutte le gerarchie che conosciamo: commissione regionale, commissione provinciale, consiglieri, capi, sottocapi) e su quello dei processi decisionali, quali sono gli effetti sia delle informazioni e delle prove raccolte tramite i collaboratori sia dell'azione dello Stato conseguente? Abbiamo un processo di concentrazione interna reale intorno a Riina ed ai suoi o no? Abbiamo una spaccatura tra gli uomini d'onore reclusi nelle carceri di massima sicurezza, i quali sarebbero tentati da un inasprimento delle sanzioni ad adottare una linea - diciamo così - stragista e quelli che sono fuori, i quali, invece, potrebbero tentare di imporre una linea che logicamente potrebbe essere più adatta, cioè quella di una specie di sopravvivenza di basso profilo nella società tramite l'abbandono della linea stragista? Quali sono le modifiche di gerarchia e di struttura di Cosa nostra che riuscite ad intravvedere dai rapporti che avete con i collaboratori e con i testimoni? GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. Per quanto riguarda l'evoluzione dell'attuale modello organizzativo per la protezione dei collaboratori, direi che, si tratti di un'agenzia nuova o di uno sviluppo dell'attuale servizio, ciò che conta è che il servizio o l'agenzia siano dotati qualitativamente di determinate professionalità e che il loro concreto operare si ispiri a quei principi, come abbiamo detto, di specializzazione, di autonomia e di assoluta garanzia di segretezza che costituiscono il modus operandi dell'agenzia dei marshal. Evidentemente è necessario che ciò si realizzi; che poi si chiami Servizio centrale di protezione o venga adottato un nome diverso è un problema secondario. Ritengo che, comunque si chiami, esistano già nel sistema attuale delle professionalità certamente preziose da utilizzare in questo organismo e che si tratti semplicemente di dare ad esso un assetto dal punto di vista qualitativo e come tecniche operative specificamente finalizzato agli obiettivi che sono stati indicati. Per quanto riguarda la questione dei contatti tra collaboratori di giustizia ed agenti dei servizi e, in particolare, per ciò che concerne il riferimento a Leonardo Messina, si tratta di dichiarazioni la cui verifica dal punto di vista delle indagini non era di nostra competenza e quindi questa domanda per quanto riguarda specificamente Leonardo Messina potrà essere più utilmente posta alla procura della Repubblica di Caltanissetta. Per quanto io ricordi, però, non di esponenti di servizi si trattava, ma piuttosto di ufficiali di polizia giudiziaria. Ripeto, però, per la precisione della risposta, che la domanda va rivolta alla procura della Repubblica di Caltanissetta. A noi non risultano contatti di questo tipo tra i collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni hanno costituito oggetto delle nostre indagini e verifiche, e strutture del tipo dei servizi di sicurezza. MASSIMO BRUTTI. Desidero segnalare che alla Commissione antimafia della scorsa legislatura Messina disse che quello che egli diceva era esattamente ciò che Madonia voleva far sapere e disse anche che egli teneva informato Madonia di tutti i suoi contatti con elementi dei servizi. GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. Ripeto che questa domanda va posta alla procura di Caltanissetta. Per quel che io ricordo, quando l'episodio venne precisato maggiormente in sede giudiziaria (ma il mio ricordo è basato su una conoscenza incidentale della questione, perché si trattava comunque di fatti riferiti alle attività illegali nel territorio di Caltanissetta, per cui il mio ricordo è incidentale e può anche non essere del tutto esatto), la precisazione concreta dell'episodio conduceva ad altro. Sulla compartimentazione interna, è stato chiesto se sia in corso o si sia già verificato Pagina 671 un processo di concentrazione delle decisioni. Se ho ben compreso, la domanda riguarda direttamente la permanenza o meno nell'attuale momento storico delle strutture gerarchiche ed ordinamentali tradizionali di Cosa nostra, in particolare la commissione provinciale di Palermo e la commissione interregionale. Su questo non possiamo che dare una risposta dal punto di vista dei magistrati, le cui risposte debbono essere basate su fatti. Indubbiamente una valutazione complessiva dei processi attualmente in corso non esclude teoricamente in maniera assoluta che vi possa essere stata in punto di fatto una diversa modulazione dei processi decisionali; tuttavia - lo ripeto - non esclude, ma neppure vi è alcuna indicazione concreta in tal senso. Per quanto ci riguarda, riteniamo molto difficile che vi siano delle modifiche o dei processi di mutamento, almeno dal punto di vista istituzionale, dell'organizzazione interna di Cosa nostra e delle sue strutture gerarchiche, perché Cosa nostra si identifica con il suo ordinamento e le sue strutture e, per quella che è l'esperienza processuale, ad esempio il comportamento di Riina è stato sempre quello di determinare bensì un processo di concentrazione sostanziale del potere decisionale, ma è stato altresì quello di osservare sempre e scrupolosamente - se vogliamo, ipocritamente - le forme e le regole, e quindi non dismettere mai la formale osservanza delle regole ordinamentali di Cosa nostra, il che significa l'informazione dei componenti della commissione. Ripeto che queste sono valutazioni di carattere più psicologico, sociologico che giuridico o processuale. Sotto il profilo processuale, per quanto ci riguarda, riteniamo che vi siano dal punto di vista dell'accusa elementi di prova sufficienti per ritenere che determinate decisioni siano state adottate dagli organi istituzionali di Cosa nostra almeno fino alle stragi, certamente fino al maggio del 1992. Per quanto riguarda il periodo successivo alla stagione delle stragi, poiché le indagini non si costruiscono soltanto sull'applicazione automatica di una regola, ma quest'ultima deve essere confortata da dati di fatto, poiché a nostro avviso non siamo ancora in possesso di elementi probatori sufficienti che confortino e dimostrino in maniera inequivocabile l'applicazione della regola ordinamentale anche nella seconda metà del 1992 e nell'anno successivo, ci siamo astenuti (e questo l'abbiamo fatto per quanto concerne i fatti di competenza della procura di Palermo) dall'affrontare il problema della commissione ad esempio per quanto riguarda l'omicidio di Ignazio Salvo, avvenuto nel settembre del 1992 e che, secondo le regole ordinamentali, è certamente un omicidio di competenza della commissione. Tuttavia, sulla base di un metodo di lavoro che vuole coniugare la giusta valutazione delle regole ordinamentali con i dati di fatto, allo stato questa è una fase storica in corso di approfondimento investigativo. Per quanto riguarda l'ipotesi di una spaccatura o distinzione di strategie tra uomini d'onore detenuti e quelli liberi, evidentemente essa è possibile ed è certamente logico porsi anche l'ipotesi di distinzioni di interessi (gli interessi non sempre sono convergenti; anzi gli interessi dei capi o degli uomini d'onore detenuti e quelli degli uomini liberi talora sono oggettivamente dissonanti). E' possibile formulare varie ipotesi al riguardo, che sono allo studio e costituiscono oggetto di investigazioni. Tuttavia, al di là delle ipotesi, non vi sono, per quanto ci risulta, dati di fatto concreti che consentano di affermare con chiarezza e organicità l'esistenza di una spaccatura tra le due componenti dell'organizzazione. MICHELE CACCAVALE. Il dottor Caselli ha descritto una situazione che, partendo dal mese di settembre - caratterizzato per il suo ufficio da malessere e da tensioni per quei problemi principali che non trovavano soluzione -, si è andata poi invece rasserenando, si è fatta più serena man mano che è passato il tempo, fino ai giorni nostri, sia con la ristrutturazione del Servizio centrale di protezione sia anche con il nuovo schema che questo ufficio ha applicato per la protezione dei pentiti. Pagina 672 A settembre il suo ufficio ha predisposto un dossier su questo malessere, caratterizzato dalla esposizione di una serie di problemi: lei ha parlato di disagio, di lamentele per l'eccessiva burocraticità, per la lentezza esasperante, per il cambio di generalità che non arriva ed altro. L'hanno però rassicurata almeno due segnali che provengono dall'ufficio centrale di protezione, che sono la razionalizzazione della fase dei nuovi schemi e il cambio di identità. Questo, però, evidentemente non l'ha soddisfatta, dottor Caselli, perché non ha rinunciato a quella che lei prima ha definito funzione noiosa e petulante, tanto che ha rilasciato un'intervista, riportata dal Corriere della Sera di sabato 12 novembre, nella quale dice: "Mafia, qualcuno rema contro. Attenti ai cali di tensione, non bastano magistratura e polizia. Forse c'è l'illusione che tutto possa essere delegato a magistratura e polizia: sarebbe un errore grave, un errore che nel passato ha significato isolamento e non solo isolamento". Prosegue poi: "Il Governo, anche recentemente, ha assicurato il massimo impegno nella lotta alla mafia, ma contemporaneamente una certa parte dell'attuale classe politica ha preso posizione contraria alla collaborazione dei pentiti, al carcere duro per i boss". Lei prosegue ancora dicendo che sullo sfondo c'è la polemica sul ruolo dei pubblici ministeri, c'è una certa confusione e "nella lotta alla mafia"- dice testualmente - "la confusione è pericolosa". Prima domanda, dottor Caselli: le risulta davvero che una certa parte dell'attuale classe politica abbia preso posizione contraria alla collaborazione dei pentiti e al carcere duro per i boss? A me risulta, dottor Caselli, che l'applicazione del 41-bis sia stata prorogata in Senato - anche qui il Presidente del Consiglio aveva preso un impegno preciso - al 1999, con una votazione ed una partecipazione unanimi da parte di tutti i gruppi. Dottor Caselli, in un'altra intervista, che riporta la Repubblica di domenica 13 novembre, lei fa invece riferimento a "comandi supernazionali del crimine". Riferendosi ad "una cupola mondiale", la definisce "una mera ipotesi di lavoro, sia pure da confrontare con le prime acquisizioni derivanti da inchieste sul crimine organizzato" ed auspica che la conferenza dell'ONU sulla criminalità in programma a Napoli indichi soluzioni. Ecco, io vorrei tornare sulla mera ipotesi di lavoro per chiederle se sia confortata dalle dichiarazioni di qualche collaboratore di giustizia, di qualche pentito. Se il Presidente del Consiglio viene qui in audizione, se tutte le altre figure istituzionali da noi ascoltate hanno confermato l'impegno dello Stato nella lotta contro la mafia, se anche questa Commissione sta lavorando contro la mafia (il suo impegno sicuramente è maggiore del nostro, ma le posso garantire che anche il mio impegno è a rischio, perché, quando provo nel mio collegio a tradurre in atti il mio impegno politico, soprattutto nella lotta contro la criminalità, avverto le prime reazioni, mi mandano i primi messaggi; mi dicono che queste reazioni sono un classico), non pensa, dottor Caselli - questa è l'altra domanda - che anche questo suo atteggiamento, queste sue dichiarazioni, queste polemiche che lei innesca contribuiscano a creare disagi, laddove anche la mafia può inserirsi ed utilizzarle? Un'altra domanda: in risposta al senatore Imposimato, lei riferisce che Buscetta, già nel 1985, ha fatto un certo nome. Non mi interessa conoscere il nome; ma perché e quando Buscetta è diventato credibile, se ha riproposto questo certo nome? (Commenti). Abbiamo parlato di depistaggio e voi avete escluso che nella procura di Palermo alcun pentito abbia avuto la possibilità o l'intenzione di indirizzarvi su una falsa pista. Questo lo dite sulla base di riscontri oggettivi, perché comunque tutte le rivelazioni fatte da pentiti o da collaboratori di giustizia sono state già verificate? GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. La ringrazio della domanda non retoricamente o come clausola di stile. Se posso aver dato l'impressione di aver voluto creare confusione con alcune Pagina 673 mie recenti dichiarazioni, essa è certamente sbagliata. Ma nel momento in cui viene così autorevolmente prospettata, dico che ad ogni modo rifletterò su questo e ne terrò doverosamente conto per il rispetto che nutro nei confronti di tutte le istituzioni e, in particolare, di quelle che svolgono, sia pure nell'ambito delle proprie competenze, più o meno lo stesso lavoro che facciamo noi, ossia la ricerca delle migliori risposte alla mafia. Mi sono posto il quesito ed ho dato determinate risposte. Sono stato sostanzialmente zitto da quando sono procuratore della Repubblica di Palermo, tanto che numerosi miei colleghi, i quali conoscevano ben altre mie abitudini all'epoca in cui ero giudice istruttore, componente il Consiglio superiore della Magistratura o svolgevo attività associativa, hanno molto pensato su questo silenzio a lungo protratto. Ad un certo punto, in una determinata fase, ho ritenuto di parlare, e non individualmente: a Palermo poche cose si fanno individualmente, anche quando si è procuratori della Repubblica. Queste uscite pubbliche sono sempre - come lo sono in questo caso - il risultato di una discussione e di una riflessione comuni: a volte "esce" il procuratore della Repubblica, altre volte "escono" autorevoli esponenti della procura. Insieme abbiamo avvertito una situazione ritenendo utile, se non necessaria, una nostra uscita pubblica, una presa di posizione per invitare tutti alla riflessione - nulla di più, nulla di diverso - sullo stato degli atti, sulla realtà, sul momento che si sta attraversando. Siamo convinti che l'attuale sia un momento molto fluido, un momento difficile che può evolversi in maniera estremamente positiva così come potrebbe involversi negativamente. Lo riteniamo a torto o a ragione, ma in perfetta coscienza. Nel momento in cui abbiamo avvertito - ripeto, a torto o a ragione ma in perfetta coscienza - sintomi minoritari o maggioritari, secondari o principali (poco importa, lo vedremo di qui a poco), comunque sintomi di presenze le quali potrebbero, se non sufficientemente avvertite nelle loro potenzialità negative di sviluppo, portare ad una involuzione della situazione, abbiamo ritenuto di uscire. Proprio per non limitarci a svolgere un lavoro che, se non allargasse il suo orizzonte, sarebbe necessariamente asfittico, parcellizzato e settoriale; proprio per tentare di contribuire alla riflessione sulla fase in atto, magari sbagliando ma in perfetta coscienza, cercando di individuare e di segnalare le cose che ci sembra di vedere, abbiamo fatto queste uscite. Ciò, affinché la fase - le cui potenzialità sono aperte - si evolva in senso positivo senza subire arretramenti. Le chiedo scusa, ma ho chiesto alla Commissione di essere petulante, ho chiesto alla Commissione di essere particolarmente asfissiante per quanto riguarda la continuazione della soluzione del problema della sicurezza dei pentiti, allo stato degli atti soltanto avviata. Parlando di petulanza, di asfissia, di marcamento stretto - anche se non ho usato questa espressione - mi riferivo, esorbitando dalle mie competenze ed assumendo la veste del grillo parlante, ad un'attività della Commissione consistente nello "stare addosso" a questi problemi affinché l'avvio a soluzione si concretizzi effettivamente senza rimanere a livello di promessa o di intenzione. Mi consenta, ma occorre ripartire dal principio, anche se per grandi linee. Capaci, via d'Amelio, sdegno, rabbia, ribellione, reazione, per la prima volta leggi mirate alla specificità del fenomeno, leggi volute da Falcone e da Borsellino: una risposta forte, corale, unanime senza distinzioni di alcun genere, né politiche né di ruoli all'interno dello Stato, né istituzionali né altro, contro la mafia! I risultati si producono, sono imponenti, significativi. Non toccherebbe a me giudicarli perché la mia procura, la procura nella quale lavoro, è parte di questi risultati; tuttavia i risultati vengono ed ho cercato di elencarli. Però, se nel momento in cui vengono i risultati cominciano le polemiche sui pentiti e sull'articolo 41-bis, che rappresentano il perno dei risultati medesimi, personalmente rivivo l'esperienza del Consiglio Pagina 674 superiore della magistratura allorché Falcone e Borsellino, avendo lavorato, possedendo una cultura di lavoro ed una strategia vincente... MASSIMO BRUTTI. L'intervento di Borsellino è del luglio 1988. Sono passati sei anni e sentiamo le stesse cose. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo....vengono improvvisamente attaccati. Ogni qualvolta si riflette su ciò, si dice che la mafia è costantemente inattaccabile, che gode di una impunità secolare. Chinnici, Caponnetto, Falcone, Borsellino, Ayala - mi dispiace citarlo, perché può sembrare piaggeria, ma è così - e tutti coloro i quali hanno lavorato insieme con queste persone dimostrano, dandosi una nuova cultura investigativa ed una nuova metodologia di lavoro, specializzandosi all'interno del pool ciascuno su un versante, che la mafia non è affatto invulnerabile, che può essere contenuta e sconfitta contrapponendo organizzazione ad organizzazione. Se in questa fase della storia d'Italia chiedessimo ad un signore svedese paracadutato in Italia che cosa avrebbe fatto, preso atto che un moloc assolutamente invulnerabile è stato finalmente intaccato avendo capito che si poteva sconfiggere organizzando la risposta, costui avrebbe certamente risposto di rafforzare il pool, di potenziarlo, di incentivare e diffondere questa cultura di lavoro, questa nuova metodologia investigativa. Perché nel nostro paese è successo invece che (professionisti dell'antimafia, centri di potere, il maxiprocesso come sentina di tutte le perversità processuali, i pentiti quali fructum diaboli, la guerra di religione!) passo dopo passo lo strumento di lavoro del pool è stato demolito e, conseguentemente, la lotta alla mafia è tornata indietro di parecchi anni? C'è stato un congelamento effettivo. Questo non sta assolutamente accadendo adesso nel nostro paese, sia chiaro; ho detto prima che non sento alcun pregiudizio sulle investigazioni e vedo potenzialità ancora fortissime affinché tutto evolva in senso positivo; però avverto, avvertiamo, anche alcuni sintomi preoccupanti che, personalmente, mi riecheggiano le passate esperienze del pool di Falcone e Borsellino. RAFFAELE BERTONI. Diglieli a Caccavale ad uno ad uno. E' questa la domanda che volevo porti. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. La situazione sta cambiando, o è già cambiata, soprattutto a Palermo. Di nuovo, a Palermo, alcune cose si respirano, mentre fuori Palermo - poiché quel che si respira è un po' impalpabile - è difficile rappresentarle, così come è difficile convincere gli interlocutori. Tuttavia ci sono anche cose che, pur non vivendo a Palermo, parlano il linguaggio dei fatti. Salto alcuni passaggi e me ne scuso, ma ho utilizzato l'espressione "certa parte della classe politica" e la confermo; quanto lei ha letto nell'intervista corrisponde esattamente al mio pensiero. Giusto o sbagliato che sia, è il mio pensiero, non è frainteso. Se presidenti di Commissioni parlamentari, se ministri e sottosegretari parlano, come hanno fatto, intensamente e ripetutamente, della necessità di rivedere la legislazione antimafia varata dopo Capaci e via d'Amelio, che ha funzionato, senza che sia successo nulla, in termini di accadimenti processuali o investigativi, che giustifichi questa improvvisa levata di scudi - perché in una certa fase si è trattato di una levata di scudi, mentre ora non lo è più dato che tutto è sufficientemente rientrato, ma i sintomi ancora permangono soprattutto localmente - non si tratta di fantasie, di invenzioni. Né è l'ipersensibilità di un magistrato che probabilmente lavorando "in frontiera" di ipersensibilità ne possiede più d'una: sono realtà! Se tutto questo si traduce in un disagio, in una difficoltà tra i pentiti, si può essere portati a chiedersi: se questo succede per chi già si è pentito, forse non può determinare rallentamenti in altri pentimenti? Non lo so, non ho risposte, l'ho detto, ma Pagina 675 il problema c'è. Se poi scoppiano le polemiche... mi dispiace di dover dire queste cose, ma è per intenderci e perché la sua domanda è di grande serietà e la accetto in questa sua componente di assoluta serietà e di contributo ad una discussione franca. Se la commissione sui pentiti può contare sulla collaborazione di Grasso e di Vigna, che sono professionisti di primaria levatura, di straordinaria importanza, e di nuovo, di colpo, praticamente, almeno per quanto ne so io, senza preavviso - è vero che la decisione è rientrata ... MASSIMO BRUTTI. Non è rientrata. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Tra l'altro non è neanche rientrata. E' vero che per il momento non è stata attuata, ma è altrettanto vero che potrei fare tutta la storia di quanto, per ciò che mi risulta, ci è voluto perché rientrasse, perché non fosse immediatamente attuata (non per intervento mio, ma per quello che posso ricostruire io, estraneo a questo tipo di logica, a questo tipo di meccanismo, a questo tipo di lavori). Se, d'improvviso, professionalità come quelle di Grasso e di Vigna vengono sostituite - e tra l'altro circolano nomi, mi pare non smentiti, di sostituti che sono magistrati bravissimi ma che certamente non possono avere la professionalità, la sensibilità, la preparazione di Vigna e di Grasso - e tutto questo non ha un senso, non si spiega e non viene spiegato, se non con un criterio di rotazione che francamente a me personalmente non ha convinto, allora cosa vien fatto di pensare, non malignamente ma ragionando sui fatti? Che volendo sostituire Grasso e Vigna con i quattro soggetti che sono stati elencati, che PM di primo grado non erano (tra questi c'era anche il dottor Ilarda), c'è un attacco alla funzione del PM, alla presenza del PM, con la sensibilità di cui questi può essere portatore, in queste strutture. Si risponde che sì, è proprio questo che vogliamo, perché i PM sono quelli che hanno contatto più diretto con il pentito e quindi lì non ci devono essere. Questa - scusatemi - è clamorosamente una inesattezza dal punto di vista tecnico-giuridico e ordinamentale, perché chi decide è il GIP, per quanto riguarda per esempio la liberazione anticipata o la collocazione in strutture extracarcerarie del pentito, non il PM, che fa soltanto le richieste! Chi poi applicherà gli sconti di pena o deciderà di non condannare o di condannare senza far entrare in carcere sarà il tribunale, sarà l'organo giudicante! I quattro sostituti erano tutti GIP o, come il dottor Ilarda, della procura generale, che con il PM non c'entra proprio niente. Allora, non posso non vedere obiettivamente un discorso di diminuita professionalità della commissione e quindi di burocratizzazione della medesima. Con il massimo rispetto per le altre componenti - sia chiaro - ma la mancanza di due PM del calibro e dell'esperienza di Grasso e di Vigna, non sostituiti con altrettante professionalità ma anzi sostituiti in maniera tutt'affatto diversa, secondo quelle logiche, è un sintomo secondo me, secondo noi, preoccupante, come a suo tempo abbiamo rilevato. Se poi a tutto questo si aggiungono le preoccupazioni che ci sono ancora... Il regolamento che dovrà essere varato ancora non lo conosco. RAFFAELE BERTONI. Nessuno lo conosce. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Ho avuto, come tutti, alcune indiscrezioni, alcune anticipazioni ed anche queste ci preoccupavano, perché emergeva un privilegiare il momento amministrativo rispetto a quello giurisdizionale, un burocratizzare il tutto, un escludere automatismi di scelte e tutta una serie di aspetti - qui il discorso dovrebbe durare una mezz'ora, per cui lo sintetizzo al massimo rischiando di essere, me ne rendo conto, incomprensibile - di linee di riforma che ci sembravano preoccupanti nella misura in cui potevano - certo al di là delle intenzioni - concretarsi poi di fatto in un minor incentivo al pentimento. Quando un soggetto deve prendere da solo la difficile scelta se pentirsi o no, Pagina 676 se non ha degli automatismi davanti a sé ma delle discrezionalità, per di più rimesse non al magistrato con cui ha rapporto (PM o giudicante) ma ad un organismo amministrativo o comunque lontano come è la superprocura, ecco che questo può essere quantomeno psicologicamente un problema in più per il pentito, può essere un motivo in più per non pentirsi, almeno in quel momento. Tutte queste cose insieme ci hanno preoccupato e ci preoccupano, perché non c'è stata alcuna smentita; non c'è nessuno di questi uomini della classe politica - presidenti di Commissioni parlamentare, ministri, sottosegretari - che abbia cambiato idea, legittimamente. Evidentemente, il discorso è ancora aperto. Il Governo ha preso recentemente delle posizioni importanti. Lei ha letto solo le ultime due interviste ma io ho dato atto ripetutamente che a Palermo e altrove il Presidente del Consiglio, il ministro Maroni e - questa volta - anche il ministro Biondi hanno preso posizioni univoche per quanto riguarda il problema dei pentiti e il 41-bis. Ma il Governo non è tutto; c'è un'attività parlamentare dove poi sostenere queste posizioni, c'è un'attività amministrativa, c'è un clima generale per cui - di nuovo, mi scusi, senza nessun motivo concreto, storico, apprezzabile, afferrabile, visibile che giustifichi la guerra di religione - c'è una componente che la guerra di religione, la polemica ha di nuovo alimentato. Certo, il 41-bis è stato prorogato... RAFFAELE BERTONI. L'abbiamo fatta noi la proposta; la proposta è dei progressisti! GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. E' importante, però, attenzione al 41-bis così com'è. Il 41-bis rischia di essere, così com'è oggi, per molti detenuti, tra i più significativi, una scatola vuota, un formalismo. Perché se non si accompagna, per esempio, ad una struttura differenziata all'interno dell'Ucciardone - che non c'è - oppure ad un sistema di videoconferenza che consenta di celebrare i processi senza questi continui spostamenti dalle carceri speciali dove il 41-bis può essere effettivamente applicato, il 41-bis rimane una scatola vuota. Ottimo l'impegno di prorogarlo, però secondo noi va poi in qualche modo riempito e potenziato. Sui pentiti poi è ancora tutto da definire: le polemiche sono ancora aperte e le posizioni contrastanti. Nel momento in cui c'è questa situazione che sta modificandosi anche per quanto riguarda la realtà palermitana: gli attacchi contro gli amministratori locali, la chiesa che si svuota quando il sacerdote dice una certa cosa, un altro prete che deve fuggire e mille segnali di questo tipo... Non vorrei fare polemiche ma... GIACOMO GARRA. Credo che non ci sia un ordine governativo di sgomberare le chiese! GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. No, ma cosa c'entra! Mi scusi, non lo penso, non l'ho detto! Considero, mi consenta, leggermente fuorviante che lei mi faccia questa battuta. CONCETTO SCIVOLETTO. Considerato che tutti siamo contro la mafia! GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Però, il Governo non è tutto il nostro paese. Su questi problemi intervengono - legittimamente, per carità - più soggetti (soggetti politici privati e soggetti politici collettivi); nel momento in cui questi interventi complessivamente considerati possono prestarsi ad una visione di incertezza da parte delle istituzioni complessivamente considerate, allora ecco il motivo di nostra preoccupazione, ecco la certa confusione di cui ho parlato, in una valutazione complessiva di posizioni, in un panorama articolato completo (Governo e non Governo), di area politica che conta, non di persone che parlano all'angolo della strada o in un parco inglese sul podio improvvisato. I successi si sono sempre ottenuti - sia quando c'erano Falcone e Borsellino sia dopo la loro morte - tutte le volte che le Pagina 677 istituzioni sono riuscite ad offrire un'immagine unitaria, compatta, corale di sé; se invece ci sono fratture, divaricazioni, se invece - senza che ci sia nulla di concreto che lo giustifichi; torno a ribadirlo - si riprende a litigare, ecco che si offre un'immagine che comprende anche delle spaccature, delle fenditure nelle quali la mafia è maestra, storicamente, ad infilarsi, e di questo bisogna anche tenere conto. Sul piano locale poi davvero si respira una certa aria; proprio perché aria è impalpabile ed è difficilissimo da descrivere in pochi minuti. Ma, non per fare polemica - non vorrei fare polemica più di tanto perché poi ha ragione lei, la polemica più di tanto finisce per essere peggiore del male al quale si vorrebbe rimediare -, se il problema della costituzione di parte civile a Caltanissetta per la strage di Capaci viene presentato come sterile passerella antimafia, francamente mi preoccupo! E questo è stato detto. Questo è un elemento sintomatico ed anche altri se ne potrebbero aggiungere, anch'essi sintomatici di un clima che, se non se ne discute - convincendosi che tali sintomi sono davvero esistenti e pericolosi, per cui bisogna tutti insieme trovare le risposte, gli antidoti - potrebbe portare a quell'involuzione che non è assolutamente certa e scontata e che il Governo, per le posizioni che ha preso, sembra non volere. Ma non è l'unico elemento del panorama politico complessivo. Un altro elemento di preoccupazione, ma di nuovo impalpabile, è che chi è protagonista, causa di questi sintomi di mutamento quasi sempre è in prima linea nell'accusare di demagogia chi, invece, segnala tale mutamento ed i pericoli ad esso connessi. C'è, allora, un clima complessivo che è anche di confusione, di distrazione, di un inizio - di nuovo - di sottovalutazione, o per lo meno ci sono tali sintomi. Di nuovo sembra riaffiorare in alcuni quel gap culturale rispetto alla specificità e pericolosità di Cosa nostra che, evidentemente, neanche gli attentati di Capaci e di via D'Amelio sono riusciti a colmare definitivamente. Inoltre - se fossi ancora al Consiglio superiore sarei immediatamente messo in minoranza anche dai miei amici di magistratura democratica - anche l'attuale precipitosissima riscoperta delle garanzie, che caratterizza l'oscillazione pendolare della nostra legislazione e della cultura su questi problemi... ecco, tutto questo è già stato visto: è questo che ci preoccupa. Sia pure soltanto in una fase iniziale, sia pure in un segmento che spero non diventi mai più di un segmento, si ripropone quello che, sempre come segmento, come inizio, successe ai tempi di Falcone e Borsellino. Quando Borsellino denunziava che si stava attaccando il pool, gli si rispondeva che esagerava, che correva dietro alle ombre; il Consiglio di cui facevo parte ha cercato di bacchettare Paolo Borsellino, formalmente, istituzionalmente, perché osava - oltre tutto, si diceva, non percorrendo le vie istituzionali - denunziare queste cose. Posso sbagliare - non ho certo la convinzione di avere in tasca le ricette -, posso avere una valutazione non condivisibile, non convincente, ma sento il dovere, anche per l'esperienza vissuta in passato, di contribuire a segnalare il problema perché insieme se ne discuta liberamente, apertamente. Non si deve pensare che io ce l'abbia con il Governo o con chiunque altro, perché non ce l'ho con nessuno. L'unica obiezione che mi si potrebbe fare - e che mi è stata fatta - è che se noi denunziamo l'abbassamento della guardia, in realtà denunziamo un dibattito che è unicamente finalizzato ad affinare gli strumenti, non a cancellarli, quindi vogliamo collocarci fuori del circuito di controllo della nostra attività. Quest'obiezione, che ho sentito fare, è seria dal punto di vista culturale, ma infondata dal punto di vista della realtà delle cose; perché se c'è qualche cosa che non funziona, le polemiche sono giustificate al fine di farla funzionare meglio. Ma torno petulantemente, insistentemente, sicuramente annoiando i miei interlocutori, a dire che tutte queste cose cominciano senza che ci sia un aggancio reale che le giustifichi. Le polemiche sui pentiti e quelle sull'articolo 41-bis non sono, in una prima fase - poi, magari, il tiro viene aggiustato - per affinare ma per dire basta da parte di alcune componenti Pagina 678 del panorama politico complessivo. Sono un temporale fuori stagione, senza senso, e che per questo deve essere controbattuto nel momento in cui è ancora in atto e localmente - le ricadute, e non queste soltanto, si avvertono pesantemente - perché non si estenda, non si riproduca, non ci riporti, soprattutto, alla stagione del pool di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino ed a tutte le iniziative indipendenti, ma poi alla fine univocamente convergenti, che hanno portato alla demolizione di quella struttura che aveva l'unico torto di aver capito che all'organizzazione bisogna contrapporre altrettanta organizzazione e che alla cultura della mafia bisogna contrapporre la cultura unitaria delle istituzioni. Falcone scriveva che i pentiti vengono fuori quando lo Stato è credibile; se lo Stato appare diviso, lacerato al suo interno nella discussione stessa sui pentiti, non vengono più fuori. Se ne viene qualcuno siamo fortunati, ma il rischio che corriamo è che non ve ne siano più, mentre sono ancora uno strumento importantissimo di lavoro. Forse non ce lo possiamo permettere, è un lusso che non ci possiamo permettere. PRESIDENTE. Dottor Lo Forte, deve aggiungere qualcosa? GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Palermo. Credo non ci sia nulla da aggiungere a quello che è stato detto. Confermo - ed ovviamente non ce n'è bisogno - che le dichiarazioni che sono state di volta in volta, ed anche con rarità, rese dal procuratore capo riflettono una analisi complessiva dell'ufficio e sono l'esternazione di una riflessione non soltanto del nostro ma anche di altri uffici del pubblico ministero. Non c'è nulla di politico in tutto questo, ma soltanto la volontà di segnalare, sulla base di ciò che la nostra esperienza puramente professionale ci consente di individuare, il significato di certi dati a tutti gli interlocutori che operano nella società e nelle istituzioni e che intendono contribuire alla lotta contro la criminalità organizzata. Questo perché il significato a nostro avviso negativo, o virtualmente negativo, di certi fatti, che può non essere colto se non alla luce di specifiche esperienze professionali, non venga sottovalutato. MICHELE CACCAVALE. Avevo rivolto una domanda a proposito della cupola mondiale. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. E' una mera ipotesi di lavoro da verificare come prima risultanza, un'ipotesi che nasce dal fatto che Cosa nostra, ad esempio, ha realizzato alleanze di carattere anche verticale con 'ndrangheta e camorra; quindi non si può affatto escludere che l'esperienza a livello nazionale venga riproposta anche a livello internazionale. Tutto qui e niente di più. MICHELE CACCAVALE. Su Buscetta? GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. A questo proposito non posso che citare un dato di fatto, cioè l'intervista comparsa nel settembre ultimo scorso su un quotidiano regolarmente stampato, pubblicato e letto in Italia, se non ricordo male Il Sole-24 ore. La domanda che lei mi ha rivolto, però, pone problemi di interpretazione, di valutazione, di rilettura anche della sequenza delle dichiarazioni rese che la procura della Repubblica ha dato ma che, in questo momento, sono rimesse a decisioni del GIP. Commetterei davvero una scorrettezza se... Il dato è costituito dal fatto che esiste questa intervista in cui si dice che nel 1985 Buscetta aveva già fatto un nome, credo che leggendola... Si tratta puramente e semplicemente di un dato storico, citato in risposta alla domanda che mi era stata rivolta a proposito delle dichiarazioni a rate, per chiarire meglio quel concetto. ALESSANDRA BONSANTI. Presidente, mi pare che quest'ultima spiegazione che il dottor Caselli ci ha dato, in maniera così drammatica e, diciamo, appassionata, riguardo alle sue preoccupazioni esaurisca molte delle domande che io avrei voluto Pagina 679 rivolgergli, per cui rinuncio ad intervenire. TANO GRASSO. Rinuncio anch'io, signor presidente. LUIGI MANCONI. Anch'io, con tutt'altra intenzione rispetto a quella del collega Caccavale, intendevo porre una domanda relativa alle dichiarazioni rese la scorsa settimana dal dottor Caselli. Le risposte che questi ha fornito mi hanno completamente soddisfatto, anche per gli accenti che la collega Bonsanti ha definito, poco fa, di drammatica passione, e dunque avrei anch'io rinunciato a porre domande; ma le interruzioni del collega Garra mi inducono ad aggiungere poche parole ed a fare (dopo tanti anni di polemiche con il dottor Caselli) una precisazione. La battuta sul Governo che, secondo gli oppositori, ordinerebbe di svuotare le chiese è davvero fuori luogo, non solo perché gli oppositori non sono così insipienti - tanto meno lo è il dottor Caselli - ma perché rischia di sottovalutare quello che mi sembrava il senso importantissimo del ragionamento del dottor Caselli, ovvero la relazione strettissima tra segnali istituzionali, atti pubblici, misure di Governo e mobilitazione collettiva, resistenza contro la mafia da parte della società civile, riduzione del consenso nei confronti della criminalità organizzata. Credo che il senso del ragionamento del dottor Caselli - che non dobbiamo dimenticare nemmeno per un attimo - fosse esattamente questo: ogni atto, realizzato o meno a livello istituzionale nella dimensione pubblica laddove operano le autorità e gli organi pubblici, ha e può avere una relazione diretta, strettissima ed intima con l'atteggiamento della società civile, con il consenso che la criminalità organizzata ottiene e conserva o con la riduzione di tale consenso. Come avrete potuto constatare, non ho formulato alcuna domanda e mi sono semplicemente limitato ad una dichiarazione di consenso nei confronti del dottor Caselli. GIACOMO GARRA. Come deputato siciliano, pensando al titolo storicamente assegnato alla città di Palermo - Palermo felix- mi sono chiesto dove fosse la felicità di questa città. La battuta sarcastica che ho pronunciato (non è certo il Governo che vi ha ordinato di sgombrare le chiese) ha voluto rappresentare nel mio intimo una manifestazione di dolore per un popolo che non mi sembra riesca ad esprimere il meglio della società civile, così come è accaduto nelle recenti vicende. Si è trattato quindi di una manifestazione di rammarico, non polemica nei confronti del procuratore Caselli. Nel recente dibattito svoltosi in questa sede sono stato il solo ad aver seguito le indicazioni del Presidente del Consiglio il quale aveva suggerito ai membri della Commissione di rivolgergli domande per iscritto. Ho accolto l'invito e ho formulato una domanda scritta alla quale, sia chiaro, attendo ancora la risposta... LUIGI MANCONI. Sono stati in tanti a rivolgere domande per iscritto al Presidente del Consiglio! GIACOMO GARRA. Ho chiesto al Presidente se considerasse come precondizione per una più intensa ed efficace lotta alla mafia lo scioglimento anticipato dell'assemblea regionale siciliana ed ho affermato con estrema chiarezza che consideravo quest'ultima uno dei santuari della mafia. Mi pare che non vi possa essere un linguaggio più chiaro e crudo di questo. La stessa domanda la rivolgo al procuratore Caselli. Quanto agli attentati nei confronti degli amministratori, se può essere utile, vorrei ricordare quello che mi è accaduto come sindaco di Caltagirone. Destinatario di lettere minatorie con le quali mi si preannunciava che sarei stato ucciso nell'effettuare un certo tragitto, mi sono rivolto - ritenendo che si trattasse dell'iniziativa più ovvia - all'Arma dei carabinieri ed alla Polizia di stato. Un capitano dei carabinieri dotato di una carica di passione civile e di una buona preparazione professionale avviò le indagini. In un primo momento Pagina 680 si poteva pensare a minacce provenienti dall'"onorata società", ma quel capitano dei carabinieri riuscì ad individuare un'organizzazione dalla struttura molto semplice. Premetto che mi ero trovato a svolgere un ruolo abbastanza deciso - d'altro canto, doveroso - sotto il profilo della lotta all'abusivismo. Tale atteggiamento mi aveva posto in una situazione di ovvia impopolarità. Il capitano dei carabinieri, che si chiama Tommaso Mele (faccio questo riferimento per dimostrare il fatto che gli attentati agli amministratori possono provenire da più parti), scoprì che il possessore di una cava ed un commerciante di ferro e cemento, i quali in una certa riunione avevano dichiarato che la nuova situazione venuta a determinarsi in seguito alla seria attività di contrasto all'abuso edilizio aveva provocato loro gravi danni economici (si disse, addirittura, che ci sarebbe stata una perdita di 5 milioni al giorno), avevano fomentato lavoratori, "appaltatureddi" di paese, personaggi che non sono grandi imprenditori né semplici artigiani, e che tutto questo aveva fatto sì che si svolgessero manifestazioni anche molto colorite dal punto di vista dell'organizzazione (invasione della città con ruspe, mezzi vari, trattori: era bastato un semplice fischio perché arrivassero anche persone da Misterbianco e da Gela, secondo un copione già visto). MASSIMO BRUTTI. Tutto questo non avviene senza il contributo della mafia. GIACOMO GARRA. Fu comprovato che la mente di queste azioni e di queste minacce era riconducibile a due grossi imprenditori i quali si vedevano toccati nelle proprie tasche, l'uno perché proprietario di una cava, l'altro perché grande commerciante di cemento e di ferro. In un brutto episodio è incorsa anche mia moglie. La vicenda è di una banalità incredibile, essendo riconducibile al diniego dell'autorizzazione a tenere un posto di vendita di meloni e di angurie in estate; a seguito di ciò, si era ritenuto di dare una lezione... Credo che accanto ai grandi drammi che derivano dalla presenza della mafia, ci sia anche il dramma, meno grande ma purtroppo molto diffuso, della illegalità endemica che si chiama abusivismo edilizio, abusivismo nel commercio... MASSIMO BRUTTI. Scusi se la interrompo, ma intimidazioni di questo genere non avvengono senza una garanzia o una copertura da parte della mafia. Mi pare difficile pensare che sia tutt'altra cosa! GIACOMO GARRA. Né io né gli organi inquirenti che si sono occupati di quella vicenda abbiano avuto questa sensazione. Ho ricordato certe situazioni per fornire un contributo al dibattito. Considero, in coscienza, precondizione per l'intensificazione di un'azione contro la mafia il fatto che non vi sia più quella certezza, che per cinquant'anni è rimasta tale, di un'assemblea che non risponde a nessuno perché mai nessuno... L'articolo 41-bis può anche non essere applicato al cento per cento, ma rappresenta comunque un deterrente e uno strumento molto importante. Lo scioglimento anticipato di un'assemblea regionale può anche non operarsi, ma rappresenta anch'esso un deterrente importante che induce un consesso formato da 90 persone a non considerarsi arbitro del destino dei siciliani. In definitiva, la mia domanda è volta a sapere se riteniate che lo scioglimento anticipato o comunque l'attivazione di strumenti statutari che consentano in ipotesi lo scioglimento di un'assemblea che potrebbe essere - non dico che lo è attualmente - il cuore di un'altra organizzazione esterna... In ipotesi questo è possibile! Chiedo inoltre se non riteniate utile tenere presente che gli attentati agli amministratori possano avere una diversificazione di componenti e causali, al fine di evitare che laddove vi siano ragioni del tipo... Ho voluto portare alla vostra conoscenza la mia esperienza che, certo, non può essere generalizzata; penso però che non possa essere generalizzata l'ipotesi di 110 attentati... Pagina 681 GIUSEPPE SCOZZARI. Lo ha già detto Caselli! GIACOMO GARRA. Purtroppo sono arrivato in ritardo alla riunione perché ho dovuto svolgere le funzioni di relatore presso la Giunta delle elezioni in una seduta dedicata alla convalida degli eletti nella regione Veneto. Chiedo scusa, ma non ho il dono dell'ubiquità. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Vi è un primo profilo delle sue considerazioni al quale vorrei riagganciarmi perché mi sembra molto importante: mi riferisco a quello che lei ha sintetizzato con l'espressione Palermo felix. Avevo terminato l'esperienza di membro del Consiglio superiore della magistratura e mi ero liberato del professor Brutti (cosa che per me rappresentava un successo straordinario...). Facevo tranquillamente il presidente di corte d'assise a Torino. Poi - per una serie di considerazioni e di fatti che, come hanno colpito tanti altri, hanno colpito anche me - la domanda per andare a Palermo, l'accettazione di essa da parte del Consiglio superiore della magistratura, l'inizio dell'esperienza palermitana. Un limite grosso di tale esperienza è che io non posso per tutta una serie di motivi conoscere la città ed i palermitani. E tuttavia, per quel poco che posso intravvedere, ma per quel molto che sento esporre dai miei colleghi, credo - e penso che debba essere detto anche in questa sede - che la stragrande maggioranza dei palermitani sia cambiata, stia cambiando in senso estremamente positivo, i giovani soprattutto, il che non esclude che vi possano essere - e ancora importanti e ancora pericolosamente presenti - sacche, presenze forti d'altro tipo. GIACOMO GARRA. Me lo auguro anch'io, naturalmente. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Non sarà felix completamente, ma vi sono delle prospettive di miglioramento soprattutto legate all'impegno dei giovani che sono di straordinaria importanza. Anche queste vanno aiutate ad evolversi in senso positivo e a non involversi, a non arretrare se dovessero riprendere piede altre tendenze. Quanto all'assemblea regionale siciliana, i giudici vengono accusati di voler fare le leggi, di fare politica non ne parliamo, figuriamoci se prendessero posizione anche solo sull'opportunità o meno dello scioglimento di un organo di rilevanza paracostituzionale come l'assemblea regionale siciliana. Davvero non possumus. RAFFAELE BERTONI. Avrei voluto porre al dottor Caselli, sia pure da una prospettiva diversa, la domanda che gli ha rivolto il collega Caccavale ma, se l'avessi posta io, Caselli non avrebbe avuto la possibilità di rispondere nel modo così completo, preciso e documentato in cui ha risposto. Con riferimento a ciò che ha detto questa sera il procuratore di Palermo, osservo che chi segue queste vicende e le segue con cuore antimafia (io mi vanto di essere un professionista dell'antimafia, alla memoria di Sciascia, e sono orgoglioso di esserlo) sa che Caselli queste cose le aveva già dette in modo molto convincente in quelle poche battute che fece su RAITRE da Corleone, dove era andato a seguito di ciò che era successo alle targhe in memoria di Falcone e Borsellino. E' sufficiente aver ascoltato quelle poche battute per capire cosa stia accadendo in questo momento. E vengo alla domanda. E' uscito in italiano in seconda edizione un libro di uno scrittore francese; dello stesso libro è successivamente uscita in Francia una terza edizione con una postfazione, che io ho letto. In essa si afferma - ed io desidero sapere solo se vi sia un riscontro giudiziario, in quanto la notizia mi è sembrata inverosimile - che durante il periodo elettorale, a ridosso delle elezioni politiche, a Capaci è sventolata per tre giorni una bandiera tricolore. PRESIDENTE. C'è un riscontro giudiziario? Pagina 682 GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. Lo apprendo adesso, non sono in grado di... GIACOMO GARRA. Si è detto dei brindisi e delle bottiglie di champagne. GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di Palermo. A Capaci durante il periodo elettorale...? RAFFAELE BERTONI. ...a ridosso delle elezioni per tre giorni sventolò una bandiera tricolore, che ovviamente non era la bandiera d'Italia. PRESIDENTE. Avendo terminato l'audizione, ringraziamo il procuratore Caselli ed il procuratore aggiunto Lo Forte, ai quali ci rivolgeremo per avere la collaborazione necessaria per lo sviluppo di determinati argomenti. La seduta termina alle 23,25.