Pag. 851 AUDIZIONE DEL PREFETTO VINCENZO PARISI, CAPO DELLA POLIZIA PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE INDICE pag. Audizione del prefetto Vincenzo Parisi, capo della polizia: Violante Luciano, Presidente ...................... 853, 861 864, 869, 872, 873, 876 Ayala Giuseppe Maria ......................... 867, 868, 869 Bargone Antonio ........................................ 862 Biscardi Luigi ......................................... 861 Buttitta Antonino ................................. 861, 873 D'Amato Carlo ..................................... 871, 872 D'Amelio Saverio ....................................... 870 Ferrauto Romano ........................................ 866 Frasca Salvatore ....................................... 870 Matteoli Altero .............................. 863, 872, 873 Parisi Vincenzo, Capo della polizia .................... 853 864, 873 Scotti Vincenzo ................................... 866, 868 Tripodi Girolamo ....................................... 864 Pag. 852 ALLEGATI: Allegato n. 1: Lettera del capo della polizia, prefetto Parisi, al direttore de la Repubblica, dottor Eugenio Scalfari ................................ III Allegato n. 2: Profilo operativo del "pentitismo" ....... XI Allegato n. 3: Evoluzione del fenomeno mafioso ......... XIX Allegato n. 4: Profilo giudiziario di Salvatore Riina .. XLI Pag. 853 La seduta comincia alle 9,5. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente). Audizione del prefetto Vincenzo Parisi, capo della polizia. PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del capo della polizia, prefetto Parisi, al quale do subito la parola. VINCENZO PARISI, Capo della polizia. Signor presidente, onorevoli senatori, onorevoli deputati, non si era ancora attenuata l'eco dei numerosi, importanti successi ottenuti dalle forze dell'ordine e dalla magistratura nell'incessante lotta contro il potere mafioso e contro i responsabili di tanti feroci delitti, quando organismi di polizia giudiziaria e magistrati si sono trovati impegnati a fondo in una vicenda assai delicata e complessa, quella che ha visto l'arresto, il 24 dicembre dell'anno scorso, del dottor Bruno Contrada, per l'addebito, di obiettiva particolare gravità, di associazione di tipo mafioso. A questo riguardo, anzitutto, non posso non auspicare che l'inchiesta proceda in tempi rapidi per l'intrinseca importanza che essa riveste, per i riflessi che dal relativo esito possono derivare alle istituzioni, per il notevole clamore che l'episodio ha suscitato, assieme ai più disparati interrogativi e perplessità presso l'opinione pubblica e nelle sedi ufficiali. E' ovvio che, nella veste di responsabile della Polizia di Stato, abbia posto per primo a me stesso l'interrogativo se, come e quando un funzionario di polizia, pervenuto alla qualifica di vertice della carriera dirigenziale, fosse potuto giungere, dopo tanti anni di lavoro condotto "in trincea", di rischi, di sacrifici, a tradire il giuramento di fedeltà alla Repubblica e alle sue leggi prestato nel 1960. Mi sia consentito ammettere che la notizia dell'arresto mi ha nello stesso tempo sorpreso e mortificato, soprattutto pensando all'impatto psicologico dell'avvenimento, alle inevitabili sue proiezioni sul versante della credibilità degli operatori di polizia in generale e su quello peculiare di quanti combattono la mafia, pagando prezzi altissimi nelle varie strutture dell'amministrazione, in Sicilia come altrove. Ho ritenuto perciò doveroso presentarmi a questa Commissione per offrire il massimo contributo di chiarezza. L'autorità giudiziaria ha richiesto ed otterrà ogni possibile ragguaglio e cooperazione che valgano a favorire la ricerca del vero, rispettoso come sono delle prerogative della magistratura. E' importante che il lavoro di approfondimento proceda nella costanza dei rapporti fra amministrazione della pubblica sicurezza, polizia giudiziaria e autorità giudiziaria, su una linea di trasparenza completa, in piena armonia e fiducia reciproca. Mi sembra che l'atto giudiziario e i suoi sviluppi sul piano processuale rappresentino un'occasione, per un verso ineludibile e per altro verso di estrema utilità, per accertare la regolarità della condotta dell'investigatore, il quale comunque ha agito in contesti differenziati, Pag. 854 più o meno lontani nel tempo e in diverse posizioni di responsabilità. In ogni caso, come hanno ritenuto di recepire gli stessi estensori dell'ordinanza e come emerge peraltro dalle acquisizioni dell'amministrazione centrale, il dottor Contrada, nel periodo nel quale si inquadrano gli addebiti più pesanti, si è posto come elemento di primo piano nella lotta non solo alla delinquenza palermitana, mafiosa e comune, ma anche - ricoprendo l'incarico di dirigente del nucleo Criminalpol per la Sicilia occidentale - a quella delle province di Agrigento, Caltanisetta, Enna e Trapani. Il funzionario, che era stato trasferito al SISDE nel gennaio 1982, in quanto tale ha poi ricoperto l'incarico di capo di gabinetto dell'alto commissario, prima con il prefetto De Francesco (settembre 1982-aprile 1984), e successivamente, fino al 31 dicembre 1985, con il prefetto Boccia. Lo stesso 31 dicembre 1985, egli venne da me, allora direttore del SISDE, destinato, per motivi di sicurezza, a Roma, in compiti non operativi. Ho lasciato il dottor Contrada in tale posizione fino al 1^ febbraio 1987, data del mio congedo dal SISDE per il passaggio all'attuale incarico. Premesso inoltre che, fino alla data del suo effettivo ingresso nel SISDE, e cioè nel gennaio 1982, non avevo avuto modo di conoscere, né di persona né per motivi di ufficio, il dottor Contrada, rinvio per le valutazioni agli atti già esibiti riguardanti il funzionario, che da un lato rappresentano la base documentale di conoscenza del dipartimento della pubblica sicurezza sul conto dello stesso e dall'altro hanno costituito la base per i miei pregressi interventi sull'argomento. Rinvio, altresì, al profilo prodotto dal direttore del SISDE a codesta Commissione. Per quanto concerne i miei interventi - come precisato nella mia lettera aperta del 29 dicembre 1992 al direttore del quotidiano la Repubblica, dottor Eugenio, Scalfari, in risposta a quesiti posti dall'onorevole Ayala - essi, riconfermati integralmente, devono essere riguardati non sotto la veste di aprioristica difesa in favore del funzionario, bensì quale precisazione istituzionalmente dovuta dal vertice della Polizia di Stato, in relazione alle conoscenze documentali esistenti in quel momento, alla massima fiducia posta nella magistratura procedente, al pieno convincimento dell'estrema utilità dell'istituto del pentitismo (allegato 1). Istituto che non può essere accettato quale semplice portato normativo letterale ma attentamente valutato caso per caso per la particolare delicatezza e per le conseguenze rilevanti che da esso discendono - sia in termini di civiltà giuridica sia in relazione a sempre possibili distorsioni - e per l'assoluta necessità, evidenziata da eminenti operatori della giustizia, di utilizzare il fenomeno per esclusivi scopi processuali, scevri da qualsiasi intendimento diverso da quello del codice di procedura penale, stabilito per l'individuazione certa della prova penale. In questo senso è l'auspicio pubblicamente espresso dal procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione, dottor Vittorio Sgroi, nella recentissima relazione sulla giustizia nell'anno 1992, per "una migliore disciplina del fenomeno del pentitismo (salvo restando il problema della sua oculata gestione, recentemente acuitosi per effetto di vicende luttuose)". Come pure le recentissime pronunce della Corte di cassazione che, in tema di doveroso riscontro delle asserzioni dei pentiti, ha stabilito - quale preciso dovere giuridico per l'accettazione della testimonianza de relato- che "riscontro ad una dichiarazione possa essere altra dichiarazione della stessa natura e di uguale contenuto, sicché la convergenza del molteplice viene ad acquistare quella consistenza di prova in grado di sorreggere una pronuncia di condanna", con ciò sottolineando che l'identica natura e l'eguale contenuto costituiscono requisiti ineludibili e non modificabili. Sorge, a questo punto, spontanea una riflessione sul fatto che in ambiente contaminato dalla mafia, e perciò stesso infido e rischioso per polizia e magistratura Pag. 855 inquirente, esposte entrambe all'alea di essere strumentalizzate, si potessero di norma ottenere solo confidenze che non attingevano a livelli elevati dell'apparato criminale, cosa che oggi, dopo la definizione del maxiprocesso e il progressivo completamento del quadro delle norme sul pentitismo, si presenta ben diversamente, con una linea di dignità e di chiarezza di rapporti fra lo Stato e quanti si determinano a collaborare con la giustizia. Elementi tutti che hanno consentito di superare la limitatezza dei pregressi corrispettivi per i confidenti e di approntare strumenti sostanziali e processuali. Peraltro all'epoca non era ancora stato introdotto il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Significativa, altresì, è la nuova normativa in materia di lotta al traffico di stupefacenti che ha recepito nel nostro ordinamento sistemi investigativi sperimentati in altri paesi, come gli acquisti simulati, le consegne controllate eccetera. I criteri di lettura della "collaborazione informativa" resa da soggetti già inseriti nelle organizzazioni di tipo mafioso rappresentano, in verità, una tipologia di apporto di conoscenza degli equilibri, delle strutture e delle dinamiche criminali da sempre connaturata al complesso dell'azione di polizia giudiziaria, trovando radice nel più semplice rapporto dialettico-fiduciario, già in passato instaurato tra gli investigatori e le cosiddette fonti confidenziali. Di certo l'utilizzazione, tra gli altri, di questo strumento, pur sempre valido, in ordine alle diverse fenomenologie delittuose, non poteva assumere valenza significativamente determinante in contesti di malavita tradizionalmente caratterizzati da ferrea omertà e dalla poliedricità dei grandi interessi economici in gioco. Ne derivava la necessità di rivedere il concetto stesso di collaborazione, indirizzandolo verso il contributo che avrebbe potuto essere reso da persone che, stabilmente incardinate nei sodalizi mafiosi, fossero state realmente a conoscenza dei fatti e dei rapporti di forza all'interno degli stessi. Illuminante al riguardo è risultata l'opzione investigativa seguita da magistrati che, come il dottor Falcone, ottennero per primi il pentimento di qualificati personaggi del crimine mafioso. L'importanza di tale metodologia, corroborata dal sacrificio, anche estremo, di giudici e di personale delle forze dell'ordine nella ricerca degli elementi di riscontro, così come sopra delineati, è dimostrata dai successi conseguiti dalla risposta istituzionale, che hanno permesso di squarciare il velo sull'organizzazione e sull'organigramma di grandi famiglie mafiose agguerrite e sanguinarie, come quella dei corleonesi, i cui esponenti sono stati perseguiti per accertate responsabilità su molti fatti di sangue e condizionamenti in settori amministrativi ed imprenditoriali. Del resto, la proficuità di questa scelta strategica, dopo ampio dibattito in Parlamento, era già emersa, agli inizi dello scorso decennio, con lo scopo di sconfiggere il terrorismo. Non vi è dubbio che uno dei metodi vincenti nella lotta contro il terrorismo e l'eversione sia stato costituito proprio dalla collaborazione dei pentiti e dei dissociati, che il legislatore ha incentivato ed agevolato per il tramite di norme premiali consacrate nelle leggi 29 maggio 1982, n. 304, e 18 febbraio 1987, n. 34. I positivi risultati conseguiti hanno fatto maturare la consapevolezza della notevole versatilità degli istituti giuridici predisposti, idonei ad essere utilizzati anche nel quadro delle iniziative volte a contrastare le più gravi forme di criminalità organizzata, rendendo contestualmente molto più circoscritto il ricorso ai confidenti nel quadro di un rapporto limitato al reciproco scambio: notizie-compenso in denaro. Sulla scia di esperienze già condotte in altri paesi industrializzati - basti pensare alla pluriennale esperienza statunitense nel settore -, venne compiutamente definito, con legge 15 novembre 1988, n. 486, il compito dei pubblici poteri di "adottare o di far adottare tutte le misure occorrenti ad assicurare l'incolumità Pag. 856 delle persone esposte a grave pericolo per effetto della collaborazione fornita nell'ambito di indagini e di procedimenti relativi ad attività criminali di stampo mafioso". Tale attribuzione, affidata allora in via esclusiva ad una struttura di tipo straordinario (l'Alto commissario antimafia) sottintendeva, per ciò stesso, la sua natura di carattere eccezionale, quasi che il ricorso a tale strumento - poi istituzionalizzato - venisse, dal legislatore nel 1988, considerato di portata sperimentale e transeunte. In linea pertanto con tale impostazione di base, la norma che ho appena menzionato, nella sua rigida enunciazione formale, non individuava ancora una più dettagliata regolamentazione della materia né una più organica articolazione delle attribuzioni ad esse correlate. La preziosa esperienza acquisita "sul campo" da magistrati e operatori di polizia ha però spinto verso un sollecito perfezionamento degli strumenti giuridici apprestati, nella convinzione che un'efficiente tutela di quanti accettano di collaborare con la giustizia, siano essi pentiti o testimoni, costituisca un elemento pressoché indispensabile per infliggere colpi forti alle organizzazioni di stampo mafioso. Con il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella legge 15 marzo 1991, n. 82, la materia ha infine ricevuto un'organica e sin qui compiuta disciplina sia sul piano organico-strutturale che su quello funzionale e programmatico. In tale prospettiva vanno menzionate le disposizioni finalizzate a sollecitare, attraverso incentivi di natura processuale e premiale, il pentimento e la collaborazione dei reclusi (articolo 1 del decreto-legge del 1991, n.152, che ha provveduto a modificare ed integrare talune norme dell'ordinamento penitenziario), anche sulla base del reiterato concerto e del fattivo interessamento svolti sul tema dal ministro dell'interno. In coerenza con le rilevanti innovazioni normative messe a punto dal Parlamento su impulso del Governo - ed in questa sede rammento le leggi istitutive della DIA e della DNA - l'apparato amministrativo ha provveduto a dotarsi degli strumenti giuridici e delle infrastrutture indispensabili per una compiuta attuazione della nuova strategia statuale. E' stata innanzitutto prevista, mutuandola dalle proficue esperienze del Marshall Service statunitense, l'introduzione di uno strumento di natura mista, per taluni aspetti dispositivo, quindi provvedimentale, per altri pattizio, poiché sottoposto, per la sua efficacia giuridica, all'accettazione da parte del soggetto destinatario. Tale atto, denominato programma speciale, viene deliberato, in presenza di particolare condizioni, da un organo collegiale ad hoc, denominato commissione centrale e presieduto da un sottosegretario di Stato. Con tale atto vengono particolarmente definite le misure di protezione e di assistenza, attagliandole alla singola fattispecie concreta, secondo l'entità della natura dell'intervento che lo Stato si propone di assicurare ai soggetti collaboranti con l'autorità giudiziaria e in proporzione all'effettivo pericolo cui i medesimi risultano esposti. Il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, ha infine previsto l'istituzione, per l'esecuzione di quanto definito in via programmatica dal predetto collegio, di un servizio centrale di protezione nell'ambito del dipartimento della pubblica sicurezza, da affiancare all'ufficio, già in essere presso l'Alto commissario antimafia, per l'espletamento dei compiti già individuati dalla legge 15 novembre 1988, n. 486, sopra richiamata. Il predetto servizio, operante presso la direzione centrale Criminalpol, regolarmente costituito, svolge già - con connotazione interforze - i complessi e delicati profili operativi di protezione ed assistenza dei soggetti esposti a rischio e dei loro familiari. Dispone, per l'anno in corso, di un budget di 12 miliardi, la cui amministrazione - che esercito con il vicedirettore generale della pubblica sicurezza, direttore centrale della Criminalpol, Pag. 857 prefetto Luigi Rossi, all'uopo delegato - mi è affidata quale direttore generale della pubblica sicurezza, con l'obbligo di riferirne al ministro dell'interno. L'8 giugno 1992, con decreto-legge n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, è stata infine disciplinata per la prima volta un'ampia gamma di interventi a favore di soggetti collaboranti in stato di detenzione, prevedendo - con finalità estrinseche tutorie ma intrinsecamente premiali - la concreta possibilità delle istituzioni di provvedere con modalità di detenzione in luoghi diversi dagli istituti penitenziari alle richieste avanzate a fronte di una più esaustiva offerta di collaborazioni agli organi inquirenti. L'univoca volontà di attuare senza riserve il dettato legislativo, nel tempo affinatosi, trova così indubbia conferma non solo negli sforzi organizzativi e nel costante impegno degli operatori di polizia, tesi a proteggere gli ormai 286 collaboratori e gli 835 loro familiari, ma anche nel ricercare e favorire condizioni di ulteriori rifiuti delle pregresse logiche di protervia criminale. Ciò non toglie che esigenze di verità e di giustizia, coniugate con l'imprescindibile salvaguardia delle istituzioni, debbano indirizzare l'azione di noi tutti verso una valutazione di quanto di volta in volta indicato dai collaboratori della giustizia nei diversi profili dell'agire dei sodalizi di tipo mafioso, mentre permane ormai imprescindibile l'obbligo per tutti gli operatori di bandire formule personalizzate di contatto e di gestione, realizzando in tal modo nei pool investigativi, predisposti le migliori sinergie, la tutela delle istituzioni, l'autotutela, la difesa contro sempre possibili attacchi a singoli funzionari. Non è in discussione pertanto l'attendibilità dello strumento investigativo, di cui anzi sono tenace e convinto assertore, in linea con le costanti ed oculate direttive del titolare del dicastero e con quanto affermato dallo stesso procuratore generale presso la Corte di cassazione. Anzi, considero mio preciso dovere favorire il lavoro dei giudici fornendo piena disponibilità alla raccolta degli elementi conoscitivi da essi ritenuti necessari per l'accertamento dei fatti e la compiuta valutazione delle fonti di prova raccolte. In questo senso mi ero personalmente già espresso nella riunione del 19 dicembre 1992 del Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata. In un allegato alla relazione, che lascerò alla Commissione, è contenuto lo stralcio del verbale in cui anticipavo, il 19 dicembre, il mio pensiero su tali argomenti. Ero e rimango convinto assertore (come manifestato nella mia lettera al quotidiano la Repubblica) dell'esigenza di una più estesa utilizzazione della legislazione premiale nei confronti di soggetti liberi o detenuti disposti ad accrescere il bagaglio di conoscenze utili alla ricostruzione delle attività delittuose del crimine organizzato; e della garanzia tempestiva di ogni forma di protezione prevista, che deve essere anche efficace e costante. Condivido anche le indicazioni importanti che su questo delicato argomento hanno concordemente dato i compianti giudici Falcone e Borsellino: sfruttamento cauto e responsabile del pentitismo. Restando sul tema e per sottolinearne ancora la complessità e delicatezza, desidero richiamare i ripetuti interventi dei ministri dell'interno e della giustizia, e quelli anche più volte da me effettuati, intesi a ricercare forme sempre più ampie e rilevanti di collaborazione dei pentiti. Del resto, un richiamo insistente ed esplicito in tale direzione si è avuto pochi mesi addietro nel decreto-legge n. 306 del 1992, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, recante nuove disposizioni sulle misure di contrasto alla criminalità mafiosa. L'estrema responsabilizzazione di coloro che sono chiamati a trattare del pentitismo e dei pentiti mi induce ancora a ricordare la relazione governativa al disegno di legge di conversione del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, nella parte in cui, a commento dell'articolo 16, si ricorda che "le particolari e per larga Pag. 858 misura eccezionali connotazioni della materia richiedono un qualificato ed attento controllo politico sull'applicazione della normativa in questione", controllo che veniva proposto sotto forma di periodiche verifiche da parte del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza, per poi concretizzarsi nella relazione semestrale al Parlamento a cura del ministro dell'interno. Di qui un'ulteriore conferma, qualora se ne avvertisse la necessità, che il pentitismo è stato e resta uno strumento importante nel disegno legislativo della salvaguardia del sistema democratico contro le pressioni eversive e destabilizzanti che assunse il terrorismo negli anni settanta e ottanta e contro gli effetti, del pari negativi, dello stragismo mafioso, il quale, intrecciando in modo perverso tattiche diversive, propagazione di notizie infondate e distorte, una raffinata e sapiente commistione di elementi reali, verosimili e falsi, potrebbe servirsi, quali veicoli inconsapevoli, delle falsità di collaboratori autorevoli della giustizia, perseguendo l'obiettivo di fuorviare magistratura e forze dell'ordine. Si tratta di una sistematica ricorrente di tentativi di condizionamento, anche non volutamente orientati verso l'opinione pubblica, in forma incruenta ma non per questo meno pericolosa, laddove la finalità ultima è quella di creare disorientamento, addensare sospetti, instillare, fiducia e paralizzare le istituzioni. Gravissimo quindi sarebbe il pericolo di utilizzare in maniera distorta i collaboratori della giustizia o, al limite, di non percepire pentimenti strumentali. Soccorre il ricordo delle intossicazioni e dei veleni di Palermo che, giovando obiettivamente alla mafia, non hanno più volte risparmiato i magistrati e le forze di polizia. Non è improbabile che in questa direzione il crimine organizzato si muoverà sempre più spesso attivando le sue non sottovalutabili energie. D'altro canto, le manovre mafiose di delegittimazione ci inducono a moltiplicare gli sforzi per impedire che esse si estendano fino a corrodere la credibilità dei collaboratori di giustizia, quando le loro rivelazioni, ben diversamente da quelle che una volta il confidente forniva al singolo investigatore, sono passate all'attento vaglio di più momenti di inchiesta e verifica, consolidandosi in un ambito di garantita trasparenza giudiziaria. Il documento in allegato 2 riporta un'elaborazione operativa dei risultati e delle incidenze dirompenti del pentitismo nell'ambito delle cosche mafiose. Il documento in allegato 3 riporta una sintesi riferita all'evoluzione del fenomeno mafioso che, partendo da qualche cenno storico, si spinge ad esaminare l'ultimo ventennio, un quadro di attualità più emergenti, la risposta dello Stato, la moderna metodologia di prevenzione. Ciascuno di tali parametri costituisce piattaforma e stimolo per considerazioni, spunti, ammaestramenti di diversificato spessore e di forte rilevanza ai fini di prevenzione e contrasto del fenomeno delinquenziale in argomento, in una cornice che tiene in somma considerazione la minaccia costituita dalla mafia e la potenza dell'organizzazione criminale, mentre permane l'assoluta certezza della sua non invincibilità. Tale argomento - già da me trattato nel corso della conferenza svolta presso la scuola di polizia tributaria della Guardia di finanza il 18 maggio 1988 - veniva racchiuso sin da allora in taluni passaggi cardine che desidero ora ripetere in quanto impalcature di linee concettuali di contrasto sviluppate negli anni e sostegno ragionativo delle condotte assunte. In particolare: "La criminalità organizzata incarna, dal canto suo, la più significativa sintesi delinquenziale tra elementi atavici dell'animo umano e acquisizioni culturali moderne e ancora in piena evoluzione (da un lato la spinta al profitto individuale e dall'altro la maturazione di una filosofia d'impresa); sintesi informata dal principio di coordinare e sfruttare sinergicamente le singole potenzialità. La funzionalità operativa dell'organizzazione criminale è rilevante perché consente alla mafia arricchimenti continui. Pag. 859 La stessa espansione del mercato della droga fornisce considerevoli, enormi mezzi alle organizzazioni, così come la mimesi che nasce dal confronto internazionale e dallo sbocco che i mercati internazionali offrono in un mondo che ormai di nazionale ha conservato ben poco. Tutto ciò conferisce oggi alla criminalità organizzata una potenza senza precedenti, per cui sarebbe certo illusorio da parte nostra non considerare che essa è ancora molto forte, rinnovata nei quadri per le lotte interne, con le quali tende ad assestarsi. La sua forza si esprime in termini di violenza all'interno e all'esterno e si avvale di metodi spietati, quali quelli della corruzione, dell'intimidazione e del ricatto. Si tratta di un'organizzazione ancora molto pericolosa. Allo Stato che opera e procede con la forza che promana dalla puntuale applicazione delle leggi e con il supporto delle forze istituzionali si contrappone quindi un universo criminoso che ben può essere definito 'antistato', assolutamente privo di regole morali, portatore di incidenze e di interventi spietati contro chi non si adegua al clima di violenza e di negazione della dignità umana che lo caratterizza. Tale contrapposizione vede il mondo della delinquenza e del crimine organizzato, il versante più criminoso, attraversato orizzontalmente da chi utilizza i canali dell'illecito, quali i traffici di droga e di armi e anche talvolta le forze del terrorismo per perseguire vantaggi prettamente utilitaristici nel campo delle attività illegali. Si tende a ridurre ed a mantenere lo Stato in condizione di debolezza, in perfetta antinomia con l'obiettivo del terrorismo che si propone invece la disarticolazione dell'apparato statuale con il fine ultimo di instaurare una dittatura. In tale sostanziale antinomia dei fronti criminali trovano forza e giocano con malvagità il proprio ruolo coloro che tentano di strumentalizzare a propria utilità la forza terroristica, ben consci peraltro dello spazio di agibilità da concedere per mantenere intatte per loro stessi le grandi opportunità che le libertà e le garanzie costituzionali offrono a tutti i cittadini. Le forme di collaborazione avviate stanno dimostrando la possibilità di pervenire allo smantellamento delle organizzazioni criminose senza il ricorso alla tecnica delle infiltrazioni che, pur nell'indubbia suggestione, costituisce motivo di grande pericolo per l'amministrazione che se ne avvale e anche strumento di sospetto e fonte di grandi problemi per gli operatori". Questo io sostenevo nel 1988. Sembrano di solare evidenza sia le linearità concettuali poste a base delle metodologie di approccio per la soluzione del problema, sia la complessità con la quale lo stesso si pone in un quadro che si fa oggi ancor più acuto nella piena considerazione attribuita negli ultimi anni al monolite Cosa nostra quale principale nemico della società. E ciò in una prospettiva che lo configurava e purtroppo lo configura quale vero e proprio antistato, laddove non può essere sottaciuto che la cattura di Riina Salvatore rappresenta il compendio di un ciclo di iniziative investigative e giudiziarie di ampio spessore, punto cruciale del vasto, coordinato, reale contrasto alla mafia. Come ho già avuto modo di sottolineare anche pubblicamente, l'operazione di cattura del Riina si presenta con eccezionali parametri di professionalità e validità per i carabinieri, che sono riusciti nell'impresa senza spargimenti di sangue, con efficacia ed efficienza mirabili, con un risultato che rende ampio onore a loro ed a tutte le forze dell'ordine. Sembra lecito affermare, quindi, che un ciclo della storia di Cosa nostra si è concluso con il tramonto di Luciano Liggio e l'uscita di scena di personaggi come Michele Greco, Giuseppe Madonia e lo stesso Salvatore Riina (il profilo giudiziario del Riina viene proposto in allegato 4). E' in tale cornice che si è sviluppata, senza risparmio di energie e sulla base delle precise linee direttive del signor ministro dell'interno, la ricerca sistematica dei latitanti per la quale, a prescindere dai probanti risultati finora conseguiti, sono state impartite le rigorose Pag. 860 direttive suddette, approvate dal Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata, per uno stretto, costante coordinamento tra le forze di polizia sul piano informativo, sorretto dall'utile collaborazione dei Servizi e dal coinvolgimento per i singoli casi delle polizie straniere. Per il conseguimento di utili risultati sono state avviate le necessarie verifiche delle posizioni dei ricercati in una prospettiva di massima razionalità operativa ed aggiornate sul piano organizzativo le strutture della Polizia di Stato deputate all'assolvimento dello specifico compito. Considerando le capacità evolutive di ripresa della specifica realtà criminale, alla quale certamente potranno dare sostegno e aggiornati indirizzi operativi anche altri pericolosi latitanti, sarà necessario considerare con la massima attenzione l'assetto del sistema mafioso che si andrà a determinare con il dopo Riina, nella sicura prospettiva da parte dei successori di impegni più adeguati all'organizzazione degli anni novanta, strettamente correlati alle nuove dimensioni della criminalità internazionale, con l'apertura a nuovi mercati in contesti territoriali diversificati, come l'est europeo, nei quali i traffici di droga e il riciclaggio costituiscono punti di particolare rilevanza. Non sfuggono in quest'ultimo contesto gli accertati, numerosi collegamenti esterni di Cosa nostra con realtà delinquenziali internazionali, che vedono emergere mafie di ogni tipo, presenti, oltre che nelle usuali dislocazioni, anche in contesti finora meno pregnanti (Russia, Turchia, Cina, Giappone, Australia e via dicendo). Ciò ovviamente comporta una più intensa e sistematica attività di cooperazione internazionale nel solco dei circuiti internazionali già consolidati, nella prospettiva di contrapporre ad una mafia senza frontiere (oltre 5 mila elementi inseriti in circa 200 sodalizi, cui si affiancano aree di sostegno non certamente cristalline) una polizia senza frontiere, capace di neutralizzare la produttività, le relazioni, le minacce. Operando in tale prospettiva, saranno ampliate le iniziative di sistemazione di altri funzionari, che si aggiungeranno a quelli già presenti all'estero per il collegamento nei paesi ritenuti di maggiore interesse ai fini della lotta alla mafia. I presidi ottimali posti in essere da un impianto legislativo rinnovato, promanante dall'impulso del Governo e dalla sensibilità del Parlamento, hanno trovato ulteriore potenzialità nelle illuminate direttive del ministro dell'interno che, coniugando armonicamente le istanze legislative, amministrative e operative, hanno costituito sia la premessa indispensabile della posizione vigorosa assunta da tutti gli apparati di tutela - a loro volta coinvolti in larghe parti da suggerimenti tecnici utili alla predisposizione delle novelle stesse - sia la condizione irrinunciabile per l'adozione delle nuove tecniche, tattiche e strategie di intervento. Intendo altresì rinnovare in questa sede la mia personale gratitudine al signor ministro dell'interno per non aver mai proceduto con ordini di accelerare o rallentare una cattura, in un contesto di informazione a cose fatte a lui dovuta, che non vuole certo indicare sfiducia, bensì l'adozione di criteri di normale riservatezza, nel desiderio di non incolpare genericamente, senza riscontri, e nella consapevolezza delle elevate probabilità di non favorevole conclusione delle tantissime operazioni programmate. Il periodo temporale che si apre dinanzi a tutti noi prospetta parametri di elevata pericolosità, rafforzati da incidenze negative interne ed esterne, tutte protese a rendere ancora più gravi i tanti problemi che incombono sull'ordine e sulla sicurezza pubblica. Di fronte a tali evenienze, emerge in piena rilevanza l'assoluta necessità di provocare e accentuare ogni possibile sinergia promanante dalla società e dalle istituzioni, per far fronte ad un nemico illiberale e antidemocratico portato per sua malvagia natura a corrompere il tessuto sociale, insidiandone i gangli più vitali, con lo scopo precipuo di intensificare la ricerca e la cattura dei latitanti, Pag. 861 l'individuazione dei sodalizi criminali e la spoliazione dei mafiosi dalle ricchezze illecite accumulate. Le forze dell'ordine, unitamente alla magistratura e a tutti gli apparati di tutela, sono pronte ad affrontare qualsiasi emergenza, forti dell'apporto individuale e collettivo di ogni singola struttura e dei tantissimi, oscuri servitori dello Stato che quotidianamente profondono - con zelo, abnegazione e spirito di servizio - ogni loro risorsa in favore dei cittadini e dello Stato per la tutela del sistema costituzionale democratico e per rimuovere ogni ostacolo al benessere e al progresso del paese. PRESIDENTE. Colgo l'occasione per ringraziare il prefetto Parisi del contributo costante che gli organismi da lui dipendenti forniscono al lavoro della nostra Commissione. LUIGI BISCARDI. La relazione del prefetto, pur lucida e puntuale, esige tuttavia qualche chiarimento in taluni passaggi importanti. Il primo riguarda la posizione di carriera di Contrada. Personalmente ero convinto che fosse vicequestore, mentre oggi apprendo che occupa una posizione di vertice nella carriera dirigenziale; si è verificato sul punto un'understatement. Credo che il prefetto Parisi abbia parlato dell'attività svolta da Contrada come dirigente generale, per cui vorrei ricevere un chiarimento al riguardo. Strettamente connesso è il secondo quesito, che investe la posizione incerta dello stesso Contrada nel triennio 1985-1987, rispetto alla quale il prefetto Parisi ha parlato di attività non operativa. Il terzo punto concerne i rapporti con le fonti confidenziali. A questo riguardo, si pone l'esigenza di chiarire un determinato passaggio. Il prefetto Parisi ha rilevato che lo strumento delle fonti confidenziali è stato utilizzato ricorrendo a rapporti individuali tra dirigenti o funzionari della pubblica sicurezza e singoli elementi appartenenti alla mafia. Oggi il prefetto Parisi ha sottolineato la necessità di una utilizzazione collegiale di tali rapporti. Vorrei sapere se in proposito vi sia un riferimento preciso all'attività del dottor Contrada e comunque all'attività di pubblica sicurezza svolta nel periodo precedente. L'ultimo quesito che vorrei rivolgere al capo della polizia è in relazione alla posizione generale emersa dalla relazione del prefetto Parisi ed attiene al rapporto con la mafia. Il prefetto ha parlato di Stato e antistato, sottolineando l'esigenza per la mafia di uno Stato debole, cui non può che contrapporsi uno Stato forte. In ordine a tale scontro vi è un momento che vorremmo conoscere meglio - almeno nelle sue implicazioni, nei suoi contorni non ben definiti - perché è attinente al rapporto tra mondo politico e mafia, tra organi politici e dello Stato e mafia. Si tratta di un'esigenza che ritengo fondamentale per l'attività che la nostra Commissione svolgerà nei prossimi mesi. ANTONINO BUTTITTA. Signor prefetto, lei ha giustamente osservato che in questi ultimi anni il potere del sistema mafioso si è accresciuto in conseguenza del diffondersi della produzione e del commercio delle droghe. E' un'osservazione assolutamente giusta e vera! Proprio tale fatto ha provocato in me qualche sorpresa, giacché proprio in questa sede, a seguito di una precisa domanda rivolta dal nostro presidente ad uno dei responsabili delle strutture che hanno compiti di vigilanza, è emerso che sul patrimonio di Riina non erano state fatte indagini. Volendo ampliare il discorso, ho la sensazione che il settore delle indagini patrimoniali, diversamente da quanto si sarebbe dovuto fare, vista l'importanza che riveste, sia stato trascurato. Ritengo che proprio perché il potere della mafia non è soltanto simbolico ma reale, e in quanto tale connesso a risorse di carattere finanziario, occorra intensificare l'impegno in tema di indagini di tipo patrimoniale. Rimanendo nello stesso ambito, non posso non esprimere una qualche sorpresa Pag. 862 per il fatto che - almeno per ciò che mi consta - non esistono in atto indagini organiche e sistematiche sul sistema bancario del sud, con connesse agenzie finanziarie, ed in particolare sul sistema bancario siciliano. In questi ultimi anni tale sistema ha visto lievitare strutture, agenzie finanziarie e bancarie, le cui rapide fortune non possono non suscitare qualche sorpresa. Ma analoga sorpresa debbo manifestare in ordine al fatto che - sempre in base a quanto mi consta - non siano state promosse indagini nel settore alberghiero che, come è noto, costituisce uno dei settori in cui la mafia è solita riciclare i propri capitali. Anche in questo caso mi è parso di veder sorgere nel sud, in particolare in Sicilia, strutture alberghiere molto significative dal punto di vista dell'impegno finanziario, le cui origini proprietarie ci sfuggono. Penso che in tale direzione le forze dell'ordine dovrebbero porre una certa attenzione. Lei, signor prefetto, invece di parlare di mafia, ha giustamente parlato di mafie, rilevando cioè l'esistenza di mafie esterne ai nostri confini, ma riferendosi - almeno credo - anche alle articolazioni o disarticolazioni del sistema mafioso interno. Infatti, anche per il nostro paese è sbagliato parlare di mafia, essendo più giusto, corretto, vero e realistico parlare di mafie. Però, tra tutte queste mafie un qualche collegamento ci deve pur essere! E' molto probabile che il collante possa essere costituito dalla massoneria. Anche questo è un settore che, a parte le iniziative di un magistrato ben noto, meriterebbe una certa attenzione da parte vostra. ANTONIO BARGONE. Ringrazio il prefetto Parisi per la sua relazione puntuale ed esauriente, con riferimento alla quale mi limiterò a porre alcuni brevi quesiti. Dalla relazione del ministro Mancino sulla DIA risulta come vi sia un cambio di strategia da parte di Cosa nostra e, conseguentemente, un cambio di strategia anche da parte degli organi preposti all'azione di contrasto alle organizzazioni criminali. Tale cambio si spiegherebbe con il venir meno del patto tra mafia e politica e tra mafia ed istituzioni. Il direttore del SISDE, prefetto Finocchiaro, ha dichiarato che quella del SISDE era un'azione "a fisarmonica", adattandosi al tipo di attacchi ricevuti. Tale dichiarazione fa presumere l'esistenza di un patto, di una sorta di rapporto negoziale con la mafia. Si tratta comunque di un punto che non è stato ben chiarito né nel corso dell'audizione del prefetto Finocchiaro né nella relazione di stamane. Vorrei sapere dal capo della polizia Parisi se sia possibile acquisire qualche ulteriore elemento al riguardo ed in particolare in ordine all'esistenza o meno di determinate responsabilità; e se da ciò siano derivati contrasti sulle attività e strategie da seguire. Relativamente all'episodio concernente il dottor Contrada, vorrei fosse chiarito se il clima ed il rapporto negoziale che si sono venuti a determinare siano il frutto di questo patto. Da qui deriverebbe poi la sorpresa per l'arresto del dottor Contrada. Vorrei inoltre sapere se il fatto che in alcune interviste il dottor Contrada sia stato definito "chiaccherato" non abbia suscitato motivo di preoccupazione negli organi di polizia, tenuto conto per altro che, oltre alle chiacchiere, c'era anche qualche fatto circostanziato, come quello indicato, per esempio, nella sentenza del dottor Falcone in ordine alla vicenda riguardante il questore Immordino e il dottor Contrada. Sempre con riferimento a tale episodio, lei, dottor Parisi, ha affermato che allorquando il dottor Contrada venne a trovarla, nel dicembre del 1985, al termine del suo rapporto come capo di gabinetto dell'Alto commissario (prima De Francesco e poi Boccia), chiese di non avere più incarichi operativi e lei lo accontentò. Vorrei sapere per quale motivo il dottor Contrada non voleva più ricevere incarichi operativi e perché lei lo accontentò, tenendo conto tra l'altro che, almeno da quanto risultava al ministero competente e al capo della polizia, si trattava di un funzionario irreprensibile. Pag. 863 Vorrei altresì sapere se tale episodio si possa spiegare alla luce di alcune affermazioni fatte qui dal ministro Mancino, secondo cui un buon poliziotto deve essere capace di penetrare nell'organizzazione criminale. Un'affermazione, questa, che ha lasciato perplessa la Commissione e che non credo trovi giustificazione, tenuto conto che le attività di un poliziotto hanno confini molto precisi, diversi da quelli, per esempio, di chi opera per il SISDE. Riallacciandomi al quesito che ho posto all'inizio del mio intervento, rilevo che anche lei, dottor Parisi, ha parlato di un ciclo concluso della storia di Cosa nostra. Vorrei sapere se ciò possa essere correlato con l'analisi compiuta dal ministro Mancino nel corso della sua relazione sulla DIA e con l'affermazione fatta dal direttore del SISDE. Quanto al segretariato di polizia, il ministro Mancino ci ha chiarito, in questa sede, la sua opinione in proposito. Ho ricordato quale sia stata la posizione del PDS nel momento in cui si discuteva la legge istitutiva dell'Alto commissario nonché la nostra proposta di sottoporlo alla giurisdizione della Presidenza del Consiglio e non a quella del Ministero dell'interno, consapevoli del fatto che ciò avrebbe potuto consentire un vero coordinamento tra le forze di polizia che, fin quando dipenderanno da ministeri diversi, probabilmente incontreranno qualche difficoltà in più in termini di coordinamento. Vorrei sapere cosa ne pensa di una soluzione di questo genere, visto che la questione del coordinamento rimane sempre sullo sfondo, rappresentando il problema dei problemi relativamente all'azione di contrasto. L'ultimo punto riguarda i sequestri e le confische, a proposito dei quali, fino ad un certo momento storico i dati sono abbastanza sconfortanti. Vorrei sapere se le modifiche legislative intervenute in questa direzione possano essere utili per un'inversione di tendenza rispetto ad un'azione di contrasto più incisiva in relazione ai patrimoni mafiosi e se vi siano problemi di gestione di tali beni per i quali vi è bisogno di qualche modifica legislativa. ALTERO MATTEOLI. Signor prefetto, non me ne voglia ma a differenza del collega Bargone, non ho trovato né puntuale né esauriente la sua relazione, che mi sembra impostata su linee generali. Mi consenta pertanto di farle alcune domande. Si è parlato del patrimonio di Riina, un megagiro di miliardi, e poi dalla televisione e dai giornali vediamo l'immagine di una casa modesta, con i panni stesi ai terrazzi, dove vivono la moglie ed i quattro figli; qualcuno ha parlato di 300 omicidi, altri di 180, ma il minimo che è stato citato è di 100 omicidi. Abbiamo inoltre appreso che Riina viveva nel centro di Palermo o che comunque non si era mai allontanato da Palermo e dalla Sicilia. Lei ha parlato - ecco la mancanza di puntualità e di completezza della sua relazione - dell'arresto di Riina come di un compendio di efficienza, anche se pare che egli vivesse da vent'anni in quella regione, anzi addirittura nella stessa città. Lei è il capo della polizia: tutto qui quello che ha da dire alla Commissione antimafia sull'arresto e sulle cose che ho ricordato in relazione a Riina? Lei ha iniziato la sua relazione dicendo che non si era ancora spento l'eco dei successi della polizia e della magistratura quando è intervenuto l'arresto di Contrada. Quello che è apparso agli occhi degli italiani non è stata una difesa dovuta del capo della polizia nei confronti di un funzionario che - lo abbiamo saputo stamane perché qualche collega ci si è soffermato - aveva raggiunto i massimi vertici (leggendo le carte, evidentemente per mia ignoranza, non avevo capito che quel grado era di un determinato vertice, e vedo che anche altri colleghi non lo avevano capito) ed in fin dei conti era in attesa dei risultati delle indagini della magistratura, ma ha significato qualcosa di più. Pag. 864 Mi permetto di rivolgere al prefetto Parisi una domanda che ho già posto al ministro Mancino: quando il prefetto De Francesco ha lasciato l'Alto commissariato, ha scritto una nota tutta incentrata sull'elenco delle doti di Contrada, circa il quale già intorno al 1982 si era, per così dire, consumata qualche chiacchiera. Tale nota è una esaltazione del funzionario Contrada, oggi dirigente: è usuale questo? De Francesco si è comportato nello stesso modo per altri dirigenti o funzionari, oppure si è limitato a farlo soltanto nei confronti di Contrada? Ciò è estremamente importante per capire come lo Stato in questi anni abbia affrontato l'azione di contrasto alla mafia e con quali uomini. Certamente Contrada può essere una vittima - lo auspico, soprattutto per lo Stato italiano - ma una risposta ce la dovete dare! Ce la deve dare il ministro, ce la deve dare lei perché, se riteniamo, come mi sembra di capire, che prima di andarsene il prefetto abbia voluto lasciare un documento in difesa di questo dirigente nell'eventualità che gli fosse potuto accadere qualcosa, allora questa è una iattura che spiega il punto al quale siamo arrivati! L'ultima domanda che desidero rivolgerle riguarda l'uso cauto e responsabile del pentitismo nell'ipotesi che tra 286 collaboratori della giustizia vi possano essere pentiti strumentali (tutto questo è fisiologico e certamente non mi scandalizza). Le norme che sono state varate, delle quali ha parlato stamane (il decreto-legge n. 8 del gennaio 1991 e la legge dell'agosto 1992, che prevede un servizio centrale di protezione), ed i mezzi messi a disposizione dal Parlamento sono sufficienti per gestire un numero di pentiti così alto, con circa 885 familiari? Lei inoltre ha parlato di profili interforze: in quale misura prestano servizio di protezione? Vi sono interforze percentualmente uguali o vi sono degli squilibri? PRESIDENTE. Colleghi, abbiamo l'esigenza di fare il punto dei nostri lavori perché sia il Presidente Spadolini sia il Presidente Napolitano hanno chiesto di concludere entro le 11,20 per imprescindibili impegni di Assemblea. Possiamo pertanto proseguire nei nostri approfondimenti di carattere politico, pregando il prefetto Parisi - come è già avvenuto altre volte, per esempio con il ministro Martelli - di tornare, compatibilmente con i suoi impegni, martedì prossimo nel pomeriggio; diversamente dovremo stringere molto - forse troppo, valutatelo voi - i tempi degli interventi. VINCENZO PARISI, Capo della polizia. Sarei dell'avviso di rispondere in termini essenziali ed evitando di far perdere troppo tempo alla Commissione alle domande che mi sono state rivolte, prendendo nel contempo nota delle altre questioni, alle quali potrò rispondere nel corso di un successivo incontro. GIROLAMO TRIPODI. Ho ascoltato molto attentamente l'esposizione del prefetto Parisi ma non ho trovato risposte esaurienti, soprattutto in relazione al problema per il quale abbiamo invitato il capo della polizia a partecipare alla presente audizione. Il problema è quello dell'arresto del questore Contrada, che configura una vicenda inquietante; e lo è diventata ancor di più quando, al momento dell'arresto per il reato di associazione mafiosa, egli ha rilasciato alla stampa dichiarazioni che certamente hanno turbato la stragrande maggioranza degli italiani. Quelle dichiarazioni infatti sono state frettolose, intempestive e soprattutto pericolose perché egli ha affermato che il dottor Contrada, essendo un funzionario di grande fedeltà alle istituzioni, certamente non avrebbe potuto incorrere in fatti così gravi di collegamento con le cosche mafiose. In quel momento egli ha messo in discussione due questioni di fondo. La prima è che sostanzialmente il provvedimento di custodia cautelare ordinato dai magistrati era una decisione infondata che, come tale, non doveva essere presa: questa è stata l'impressione che abbiamo avuto. La seconda è una modifica del Pag. 865 giudizio sulla validità delle rivelazioni dei pentiti, naturalmente con tutte le cautele circa l'esigenza di riscontri per poterne stabilire la fondatezza: in quel momento, nelle dichiarazioni del signor prefetto, l'utilizzazione dei pentiti è stata messa in discussione. Il prefetto Parisi attraverso la stampa ha risposto all'onorevole Ayala cercando di fare alcune precisazioni, perché le prime dichiarazioni all'opinione pubblica erano sembrate una difesa d'ufficio di fronte al coinvolgimento di un esponente delle forze dell'ordine; questo certamente è preoccupante, perché non si vede come si possa giudicare valido a proposito di certi personaggi il contributo di taluni collaboratori e invece non valido a proposito di altre eventuali responsabilità. Ritengo che su questa questione vada finalmente data una risposta chiarificatrice, che spero sarà tale da correggere le affermazioni cui prima mi sono riferito. Circa la vicenda del dottor Contrada si possono citare ulteriori precedenti. Abbiamo ascoltato in merito il capo dei SISDE, dottor Finocchiaro, ed il ministro competente, che ci hanno detto delle riserve del questore Immordino sull'allora commissario Contrada. Ed a conferma delle posizioni del questore Immordino vi è stato anche il pronunciamento del giudice Falcone. Perché allora si vuol dare oggi un giudizio non positivo nei confronti di queste due persone che non sono più con noi e quindi non possono rispondere? Per quanto riguarda Immordino, come ha ricordato un collega, v'era stato anche un giudizio del prefetto De Francesco, quando era Alto commissario per la lotta alla mafia. Si tratta di elementi che gettano ombre inquietanti sulla vicenda. Essi non contribuiscono alla ricerca della chiarezza ed a fornire alla gente risposte in un momento in cui è molto preoccupata per quanto avviene e per il rafforzamento delle organizzazioni mafiose, soprattutto in quelle regioni in cui il fenomeno è più radicato. Ritengo che, nonostante l'arresto di Riina, non si possa certo dire che la mafia è stata sconfitta. Essa è ancora presente e non solo in Sicilia! Questa mattina, dottor Parisi, lei si è soffermato in particolare sulla presenza delle organizzazioni criminali in Sicilia, parlando di cinquemila aderenti alla mafia, appartenenti a duecento cosche (che lei ha definito sodalizi), ma la mafia è presente anche in altre zone del paese. Per queste ragioni mi attendo dal capo della polizia precise risposte. Bisogna dire come stanno le cose anche in riferimento a quanto riguarda il giudice Falcone ed il questore Immordino. La vicenda Contrada non è l'unico fatto sul quale riflettere. Qualche giorno fa il procuratore della Repubblica di Firenze, dottor Vigna, ci ha detto, in relazione alla scoperta del famoso autoparco di Milano, che numerosi funzionari della Polizia di Stato e della Guardia di finanza frequentavano quel posto, dove venivano consumati gravi delitti e tessuti intrighi e losche operazioni anche in collegamento con ambienti della massoneria. Non vi è dunque da scandalizzarsi di fronte a questi fenomeni, che si sono verificati in numerose occasioni. Del resto, anche per quanto riguarda i servizi segreti si sono prodotte in passato molte deviazioni ed ancora rimangono oscure alcune vicende di stragi verificatesi nel nostro paese. Un'ultima domanda riguarda una sua affermazione, dottor Parisi. Lei ha parlato di Stato debole: ebbene, lo Stato è debole, ma, a mio giudizio, è più proprio parlare di Stato compromesso. Basti pensare al fatto che non si è riusciti ad arrestare Riina per venti anni e che sono ancora latitanti numerosi mafiosi in Calabria ed in altre regioni. Alcuni latitanti sono stati catturati, ma molti sono ancora tali e continuano a terrorizzare, ad organizzare delitti ed a controllare il territorio. Non mi riferisco ad una compromissione delle forze dell'ordine, ma al fatto che lo Stato non agiva nel suo complesso contro la mafia. Per tale ragione, ritengo Pag. 866 che la mafia non rappresenti un fenomeno antistato: essa infatti controlla il territorio delle zone in cui opera e decide tutto quanto vi avviene. Le confessioni dei pentiti, che abbiamo ascoltato o letto, dimostrano che la mafia, anche attraverso i suoi rapporti con la massoneria e con ambienti della pubblica amministrazione, riesce a diventare Stato, e non è antistato, nelle zone in cui opera. Essa tiene sotto controllo il potere economico e quello amministrativo. Anche su questo argomento occorrono chiarimenti che consentano di uscire da una visione molto vaga delle cose. VINCENZO SCOTTI. Credo sia superfluo ringraziare il prefetto Parisi per il suo impegno e per la relazione svolta. Desidero rivolgergli tre quesiti. Il primo di essi riguarda Contrada: non siamo i giudici chiamati a valutare il comportamento di Contrada e quindi ad emettere una sentenza, siamo tuttavia chiamati a fare una valutazione su un problema estremamente delicato, circa il quale vorremmo conoscere il giudizio del capo della polizia. In assenza di una specifica legislazione sui collaboratori di giustizia e esistendo un regime di contatti personali e diretti dei singoli funzionari con il mondo della criminalità, con la mafia, al fine di ottenere informazioni e valutazioni (si afferma: "penetrare dentro per conoscere e valutare e quindi incriminare"), si sono prodotte di fatto in quegli anni contiguità? Oggi cosa ha cambiato la nuova legislazione sui pentiti dal punto di vista dell'operatività, del comportamento e dell'atteggiamento delle forze dell'ordine nei confronti della mafia? In questo contesto vorrei sapere qualcosa in più sull'ambiente della questura di Palermo in quegli anni, viste anche le divergenze e le contrapposizioni che esistevano tra Contrada e altri funzionari. Ho anche chiesto di prendere visione di tutta la relativa documentazione, per avere una conoscenza complessiva della situazione. Mi interessa infatti conoscere non soltanto il fatto specifico, sul quale indaga la magistratura, ma quanto concerne i rapporti tra forze dell'ordine e criminalità intervenuti in quegli anni, al fine di individuare contiguità e conseguenze che ne possano essere derivate e quindi le possibili occasioni di ricattabilità che un sistema di tal genere consente alle confessioni dei pentiti. La seconda domanda riguarda l'analisi che lei ha effettuato, dottor Parisi, circa i pentiti, i patrimoni e la ricerca dei latitanti. Nella sua qualità di responsabile della pubblica sicurezza, come valuta oggi rispetto al passato gli strumenti a disposizione delle forze di polizia? Il cambiamento è frutto di questo insieme di strumenti o vi è qualcosa d'altro? La terza domanda riguarda l'arresto di Riina. Come vede sotto il profilo operativo l'evolversi della situazione in relazione ai possibili contrasti interni alla mafia? Credo che una valutazione dell'evoluzione dei fatti possa servire a comprendere da dove viene fuori la cattura di Riina, al di là della formale esposizione di come essa sia avvenuta. ROMANO FERRAUTO. I richiami alla stringatezza formulati dal presidente sono sempre garbati: per quanto mi riguarda li rispetto pienamente. Pongo al dottor Parisi due domande. La prima è correlata ad un quesito del collega Scotti, relativo alle contiguità ed ai possibili riflessi derivanti da certe situazioni. Dottor Parisi, poiché tutte le strutture, le associazioni e gli enti organizzati dagli uomini subiscono o possono subire le conseguenze dei comportamenti degli stessi e poiché ogni struttura deve potersi salvaguardare, non è forse opportuno pensare oggi ad una struttura interna di autotutela della più generale struttura della polizia? Ad un organismo intelligente che sappia dare ai comportamenti degli uomini motivazione e giustificazione affinché la struttura stessa possa continuare a sopravvivere? L'interrogativo posto dall'onorevole Scotti poteva - forse - Pag. 867 anche essere ampliato fino a comprendere tale conseguenza, estremamente importante in questo momento. La seconda domanda concerne l'attività della Commissione, la quale vuole collaborare con le varie commissioni antimafia che si stanno costituendo negli altri paesi della CEE. Lei stesso ha detto che esiste un coordinamento tra le forze di polizia, e che una maggiore attenzione, rispetto al passato, viene prestata non solo ad esso, ma anche all'attività di prevenzione da parte delle forze di polizia europee nei confronti del fenomeno e della criminalità di stampo mafioso. Vorrei sapere se dall'attività finora svolta emergano indicazioni utili per la Commissione e per gli altri organismi europei contro la mafia; mi interessa soprattutto sapere se lei abbia notato che il fenomeno mafioso è più radicato di prima o se si sta radicando in altri paesi europei. Mi chiedo cioè se questa "mappatura" sia utile all'attività d'indagine della Commissione, il cui panorama di riferimento è molto più ampio di quello italiano. GIUSEPPE MARIA AYALA. Ho colto nella relazione del prefetto Parisi un'ulteriore precisazione sulla vicenda del dottor Contrada, che è superfluo ribadire reputo anch'io estremamente delicata e dolorosa; essa si è resa necessaria perché le dichiarazioni a caldo del prefetto Parisi erano parse a molti, forse al di là della sua stessa volontà, non sufficientemente rispettose dell'autonomia della magistratura. Facendomi interprete di questo disorientamento, avevo chiesto un chiarimento, che egli tempestivamente, con grande chiarezza, ci ha fornito oggi, tranquillizzandomi maggiormente. Dunque, ci troviamo tutti d'accordo sul fatto che, al di là della intrinseca piacevolezza o spiacevolezza della vicenda, essa è comunque affidata all'esame dei magistrati, dei quali dobbiamo attendere la decisione. Invece mi convince fino ad un certo punto - questo mio commento si riferisce anche ad alcune osservazioni emerse nel corso dell'audizione del ministro Mancino - la questione della contiguità e necessità degli ufficiali di polizia giudiziaria; tale questione, se riferita al caso del dottor Contrada (che conosco da molti anni, per questo mi auguro che possa fare valere le sue buone ragioni), mi ha lasciato sorpreso in quella come in questa occasione. Poiché talune accuse hanno un preciso e grave contenuto, il problema è stabilire in quale modo i giudici agiranno per accertare la fondatezza o meno di tali accuse. Ove esse non risultassero fondate, tutti tireremmo un sospiro di sollievo; in caso contrario, il problema sarebbe un altro. Ma il contenuto di quelle accuse non potrà mai essere inquadrato nell'ambito della necessità e contiguità operativa dell'ufficiale di polizia giudiziaria. Per molti anni ho lavorato a strettissimo contatto dei vari corpi di polizia ed ho avuto anche rapporti di affettuosissima e profonda amicizia con alcuni uomini, soprattutto con Ninì Cassarà. So che esiste la necessità di coltivare relazioni con i confidenti, cosa che per altro mi veniva riferita; per esempio, come contropartita si poteva offrire la concessione di una licenza di commercio ad un congiunto che aveva difficoltà ad ottenerla o ad attendere i tempi lunghi della burocrazia. Se ci muoviamo sul piano della necessità di coltivare determinati rapporti, credo che nessuno poi debba inorridire della loro esistenza, ma non possiamo spingerci fino al punto di ammettere il contenuto di quelle accuse. Quindi, stiamo attenti a non immaginare un'attività di polizia giudiziaria soltanto di questa natura, svolta per altro da persone dotate di grande serietà e zelo, dalle quali ho imparato uno spirito di sacrificio che molte volte mi ha lasciato sorpreso; non dico ciò soltanto perché è presente il capo della polizia, ma perché è vero, come confermano, purtroppo, i tragici epiloghi di alcune vite umane. Non possiamo però immaginare che in quegli anni a Palermo, come in qualunque altra città italiana, i comportamenti con quel tipo di contenuto contestati al dottor Contrada fossero di routine. Stiamo Pag. 868 molto attenti a non commettere questo errore, perché faremmo un torto alla polizia ed alla serietà degli uomini che svolgono tale mestiere. VINCENZO SCOTTI. Questo è l'aspetto da chiarire, non in riferimento alla vicenda del dottor Contrada, ma in generale; il capo della polizia può dissipare un clima... GIUSEPPE MARIA AYALA. Siccome la stessa situazione si è creata durante l'audizione del ministro Mancino, chiarii in quell'occasione, forse in modo più conciso di ora, che era estremamente equivoco e pericoloso avventurarsi in questo tipo di discorso, se collegato alla vicenda del dottor Contrada. Alcuni contenuti delle accuse sono gravissimi; ovviamente speriamo che si rivelino infondati ma, ove dovessero trovare conferma, quello non sarà mai il parametro di comportamento ammissibile per un ufficiale di polizia giudiziaria. Né si può immaginare che lo stesso parametro sia stato adottato da altri ufficiali, sia pure per nobilissimi fini, perché questo significherebbe arrecare un gravissimo torto alla polizia. Per quanto riguarda il problema del pentitismo, la relazione del prefetto Parisi ribadisce ancora una volta ciò che in fondo era scontato e che in una precedente audizione gli chiesi di ribadire (personalmente la risposta la conosco ormai da anni). Sull'utilità dei pentiti non vi è nulla da discutere, sarebbe semmai auspicabile che ve ne fossero sempre di più, anche se il loro numero, rispetto al passato, ci consente di guardare con ottimismo al futuro. La relazione del prefetto Parisi ribadisce il problema dell'utilizzazione di queste particolari fonti processuali, problema che deve essere tutto spostato sulla professionalità dei magistrati. So bene che richiamare esperienze personali è spiacevole, però siccome da esse si traggono punti di riferimento certi, essendo vicende vissute in prima persona, devo ricordare il noto e sempre più citato episodio Pellegriti; esso mi pare emblematico di quel rischio, insito in qualunque vicenda di pentitismo, cui faceva riferimento il prefetto Parisi. Ero presente, insieme a Giovanni Falcone, all'interrogatorio di Pellegriti; non voglio esaltare la professionalità del collega, perché non ne ha bisogno, né tanto meno la mia, però dopo dieci minuti abbiamo capito che quel personaggio ci prendeva in giro. Che poi abbia accusato l'onorevole Lima di essere il mandante di gravissimi omicidi e che tutto questo (viste le conseguenze legate a quel verbale, che conteneva una contestazione di calunnia) abbia dato luogo a strumentalizzazioni di tipo politico, questo è un altro affare. E' sicuro invece che quando si tratta di magistrati di una certa esperienza professionale e specifica si può riuscire a portare i pentiti fuori strada; riconosco che non è facile e, obiettivamente, i magistrati di Palermo, che conosco da anni (con alcuni ho persino lavorato, ma non voglio distribuire pagelle a nessuno), possono trovarsi in difficoltà. A me pare, comunque, abbastanza inverosimile che essi si trovino esposti al rischio di farsi portare per mano da pentiti "strumentali" verso chi sa quali ignoti lidi. Vorrei ribadire che i pentiti coinvolti nel caso Contrada sono soggetti che su altre vicende hanno dimostrato notevole affidabilità; il che ovviamente non vuol dire che essi non possano riferire moltissimi fatti veri insieme ad altri falsi: si tratta di una cautela su cui, dal punto di vista dell'approccio intellettuale, dobbiamo essere tutti d'accordo. Penso, per esempio, a Buscetta, la cui affidabilità ha addirittura superato il vaglio della Corte di cassazione; anche buona parte dell'impianto generale del maxiprocesso si fonda sulle sue dichiarazioni, su cui la Corte non ha rilevato elementi contrari. Questi pentiti non offrono margini di dubbio circa la loro inaffidabilità generica, ma è chiaro che nel caso specifico devono essere controllati ed effettuati i fondamentali riscontri. Pag. 869 In conclusione, siamo tutti d'accordo sia sull'opportunità di utilizzare al massimo i pentiti sia sulla necessità che la magistratura agisca con professionalità, prudenza e buon senso. Vorrei conoscere l'opinione del prefetto Parisi sulla situazione presente e futura, lasciando da parte il passato ed i motivi per cui Riina è stato latitante per 23 anni. PRESIDENTE. Su questa questione vi è qualche intuizione. GIUSEPPE MARIA AYALA. Sì, ci sono. Poco fa, su una questione che adesso illustrerò, ho scambiato qualche opinione con l'amico e prefetto Rosi; premesso che non dispongo di una palla di vetro (anche se l'avessi, non saprei leggervi dentro), mi interrogo sullo scenario che si prospetterà dopo l'arresto di Riina. Insieme alla soddisfazione per la cattura, sia pure tardiva, di questo pericolosissimo criminale, lo scenario a mio avviso possibile e che ritengo pericoloso, è il seguente: la progressiva clandestinizzazione dell'organizzazione mafiosa, la tendenza pronunciata a non compiere più alcun atto particolarmente visibile dal punto di vista criminale e, quindi, una conseguente maggiore difficoltà investigativa. Credo sia superfluo citare la situazione determinatasi dopo la strage di Ciaculli del 1963, cui seguì all'interno dell'organizzazione mafiosa una sorta di diaspora; essa entrò in una fase di grande clandestinizzazione ed il compito dello Stato diventò oggettivamente più difficile, al di là di una certa volontà politica o meno. E' chiaro che quella situazione non servì ad indebolire la mafia, che anzi trovò il modo di ricostituirsi e rafforzarsi, fino al punto in cui, purtroppo tragicamente, abbiamo dovuto prenderne atto. Mi chiedo se l'ipotesi dell'arresto di Riina, la sua sconfitta come uomo, ma soprattutto la fine della sua strategia fondata sul sangue, sul terrore e sull'attacco anche diretto, se necessario, alle istituzioni dello Stato, possa comportare la decisione di un cambiamento radicale di strategia, finora caratterizzata da una forte visibilità operativa e comportamentale dell'organizzazione. Mi chiedo cioè se questa sconfitta possa essere tesaurizzata da quelle menti raffinatissime (la citazione, nota, è di una persona che di mafia se ne intendeva!), per cui dalla grande visibilità, dall'aggressione, dalla consumazione di omicidi, intesi quasi come strumenti ordinari per la gestione e l'incremento del potere mafioso o la rimozione di ostacoli, si possa passare ad una progressiva e quanto più forte sua clandestinizzazione. Su questa ipotesi vorrei conoscere l'orientamento del prefetto Parisi, perchè se essa fosse vera comporterebbe maggiori difficoltà d'indagine. Se il prefetto condivide questo tipo di eventualità, vorrei sapere che genere di risposta intenda dare dal punto di vista operativo. Non vi è dubbio che parlare di sconfitta della mafia - credo siamo tutti d'accordo - sia un dato che appartiene al mondo dei sogni; è vero invece che essa non vive una situazione felice, attraversa un periodo di sbandamento. Sono per altro convinto che nell'associazione mafiosa vi sia una sorta di duplice oggettivo indebolimento, di tipo esterno ed interno. Infatti, dal punto di vista esterno, essa vede venire meno alcuni tradizionali rapporti con "pezzi" della polizia e delle istituzioni; dal punto di vista interno, la pressione terroristica e dittatoriale di Riina ha provocato, come avviene in ogni regime di potere analogo, la ribellione ed il rifiuto. Tutto questo spiega l'elevato numero dei pentiti, incoraggiati, peraltro, dalla legislazione premiale adottata dallo Stato - anche se non possiamo attribuire soltanto ad essa la proliferazione del fenomeno del pentitismo. A mio avviso la causa è stata innanzitutto una crisi oggettiva interna all'associazione mafiosa, che ovviamente è stata favorita dalla positività di questa normativa, anch'essa purtroppo tardiva. Infine, vorrei conoscere la valutazione del prefetto Parisi, sicuramente la più qualificata, sull'attuale stato di concretizzazione del famoso coordinamento di cui Pag. 870 tanto si parla e che è indubbiamente necessario; in particolare, vorrei che egli esprimesse il suo punto di vista sulla figura del Segretario generale, cui ha fatto riferimento anche il ministro Mancino. Un'ultima curiosità personale riguarda Piddu Madonia. Per quelle che sono le mie modeste conoscenze sull'argomento, Francesco Madonia, e la sua famiglia di San Lorenzo, può essere indicato come un boss mafioso, ma Piddu Madonia cosa c'entra? Vi sono forse delle novità rispetto alle mie conoscenze, purtroppo datate da almeno due anni? Sono rimasto molto meravigliato nell'apprendere che Piddu Madonia, che non è parente dei Madonia di Palermo, è assurto al secondo posto della scala gerarchica della mafia. SALVATORE FRASCA. Ringrazio innanzitutto il prefetto Parisi per l'ampia ed interessante relazione svolta. Questo è un momento in cui il popolo italiano si sente particolarmente vicino e legato alle forze di polizia. Il prefetto sa che nella storia del nostro paese non sempre il popolo si è identificato con le forze dell'ordine; ora questa sorta di iato si sta via via superando grazie ai risultati conseguiti dalle stesse forze dell'ordine nel corso della lotta contro la mafia e la criminalità organizzata. Per quanto riguarda l'arresto di Riina, di questo contabile di impresa, così come si è qualificato, vorrei chiederle se a suo giudizio si sia effettivamente concluso un ciclo e, in caso affermativo, come pensa si possa ristrutturare la mafia in Sicilia. Come si pongono le forze di polizia di fronte ad una probabile ristrutturazione della mafia in Sicilia? Come ben sappiamo, la mafia siciliana è la madre di tutte le mafie e, come è stato osservato da qualche collega, essa è purtroppo presente anche in Calabria. Al riguardo occorre dire che sia il ministro dell'interno sia le forze dell'ordine dovrebbero prestare maggiore attenzione al fenomedo dei sequestri di persona. Lei certamente saprà, signor prefetto, che ancora oggi cinque sequestrati sono nelle mani della cosiddetta onorata società. Si può intensificare lo sforzo per cercare di restituire queste persone alle proprie famiglie? Vediamo se lo Stato è in grado di rispondere al grido straziante di queste famiglie! Ritengo inoltre che la regione Calabria sia la zona ove le indagini, soprattutto quelle riguardanti gli omicidi, non sortiscono i risultati sperati. Nella mia zona di origine, la piana di Sibari, collocata nella provincia di Cosenza, nel corso degli ultimi due anni si sono registrati ben venti omicidi tutti di stampo mafioso; esecuzioni spietate che ci fanno pensare alla Chicago degli anni trenta. Cosa si può fare perché si venga a capo di tutti questi delitti? Per quanto riguarda il caso Contrada, il prefetto Parisi ci ha fornito un'occasione per far cessare una polemica. A questo punto ritengo che si debba attendere le risultanze delle indagini condotte dalla magistratura, evitando di attuare quel principio di Kaifa di cui ho parlato altre volte (in questa Commissione a volte traspare una cultura da me definita bulgara) e secondo il quale è bene che un uomo muoia per la salvezza del popolo. Non vorremmo che a pagare un duro prezzo per cercare di tacitare una polemica velenosa registratasi nei vari palazzi dello Stato a Palermo, a cominciare da quello della giustizia - che mi sembra non ne esca bene nonostante gli sforzi ed i sacrifici compiuti - fosse un funzionario di polizia. SAVERIO D'AMELIO. Ringrazio anch'io il capo della polizia per la sua relazione, che ci dà il quadro della situazione e ci induce, come organo politico, a compiere alcune riflessioni. Del resto, gli interventi dei colleghi che mi hanno preceduto vanno proprio in questa direzione, grazie agli stimoli ricevuti dal prefetto Parisi. Per quanto attiene allo scenario descritto dal capo della polizia in ordine alle difficoltà che incontrano le forze dell'ordine nel difficile rapporto con la mafia, soprattutto nel momento della penetrazione, credo che la relazione Pag. 871 svolta ci faccia escludere (almeno io sono portato ad escluderlo) che si vada sempre e comunque verso rapporti che possono essere confusi con la contiguità. Certo, il problema rimane aperto ma proprio le difficoltà di penetrazione in quel mondo impongono regole più serie. Quando il collega Ayala parlava di parametri che devono essere ben definiti, dava un valido suggerimento, anche se purtroppo non siamo in presenza di un problema matematico al quale dare una soluzione certa. Ecco perché i problemi vanno affrontati caso per caso: ciò che conta è che non si arrivi mai a stabilire una sorta di contiguità. Detto questo, vorrei rivolgere una domanda al prefetto Parisi. Subito dopo il fermo di Riina, a Palermo si è fatta circolare la voce secondo cui il covo del boss sarebbe stato tenuto sotto controllo per diversi giorni, tanto che sarebbero state acquisite registrazioni televisive di visite fattegli. La notizia è stata subito smentita da un portavoce dell'Arma dei carabinieri, però, come spesso capita, le notizie, vere o false che siano, producono certi effetti nell'opinione pubblica e noi, come organo politico, dobbiamo essere sempre attenti e sensibili agli umori dell'opinione pubblica, non certo per assecondarla sempre e comunque ma per cercare di orientarla attraverso informazioni certe che devono essere date soprattutto in questi momenti. Vorrei pertanto sapere dal capo della polizia se sia a conoscenza delle indagini compiute e cosa ci possa dire per conseguire l'obiettivo cui ho fatto cenno, ossia quella serenità dell'opinione pubblica che deve apprezzare sempre di più lo sforzo compiuto dalle forze dell'ordine in operazioni tanto difficili. CARLO D'AMATO. Per quanto riguarda la vicenda Contrada, non mi unisco a chi ritiene improvvido l'intervento del capo della polizia. Lo dico con molta chiarezza, anche perché ritengo che il responsabile di un'organizzazione non possa esprimere giudizi se non sulla base degli atti di cui dispone. Devo pertanto rilevare che dall'esame della documentazione in nostro possesso non mi sembra emergano elementi tali da poter ritenere (salvo diverso avviso della magistratura, ed il capo della polizia è stato molto corretto nel dichiarare di volersi rimettere a tale giudizio) il Contrada un possibile sospettato. Probabilmente a qualcuno è sfuggito che taluni magistrati che hanno operato nel campo della lotta alla mafia (mi riferisco, in particolare, ad una nota scritta dal dottor Falcone) hanno più volte sottolineato la capacità, l'impegno, l'intelligenza, la fattiva collaborazione della Criminalpol di Palermo nelle indagini relative a procedimenti penali particolarmente gravi, facendo specifico riferimento al dottor Contrada, dirigente della stessa Criminalpol siciliana. Queste considerazioni mi fanno ritenere che evidentemente il massimo responsabile delle forze dell'ordine non può, allo stato degli atti, che esprimere un giudizio quale quello che ha espresso. Se emergeranno fatti nuovi di diversa natura, allora la situazione muterà, tuttavia la cultura del sospetto non può essere certo privilegiata. Facciamola propalare da altri, lasciando alla magistratura il compito di svolgere le indagini. Vorrei chiedere al prefetto Parisi come mai il questore di Palermo Immordino, descritto in maniera particolarmente negativa, abbia potuto per tanti anni mantenere incarichi di alto livello fino, appunto, a dirigere la questura di Palermo. Come è stato possibile che un uomo il quale aveva avuto una serie di collusioni con la mafia (se sono veri i verbali citati), che si era reso autore di un atto gravissimo, come l'espunsione del nome di Sindona da un verbale redatto da Contrada, grazie all'aiuto del dottor Impallomeni, anch'egli sospeso dalla polizia perché appartenente alla P2 e poi riammesso dallo stesso Immordino, abbia ricoperto nel corso degli anni responsabilità di alto livello? La prassi è che nelle zone cosiddette calde dovrebbero essere inviati funzionari di un certo peso e di un Pag. 872 certo livello, per cui non si capisce come si sia potuto inviare Immordino a Palermo. Vorrei riallacciarmi per un momento ad una valutazione fatta dall'onorevole Scotti, che mi sono permesso di riprendere più volte, relativa al salto di qualità compiuto dalle forze di polizia nel corso di questi anni, probabilmente grazie alle leggi varate recentemente. In pratica, qual è il giudizio del capo della polizia rispetto alle attività delle questure e degli organi investigativi circa l'accumulazione di ricchezza sviluppatasi in questi anni da parte di organizzazioni mafiose e camorristiche? Penso a capitali e a patrimoni che ascendono a centinaia se non a migliaia di miliardi. Solo le leggi recentemente approvate hanno determinato questo salto di qualità? Che tipo di rapporto si è avuto nel corso di questi anni, prima dell'emanazione di alcune leggi, tra gli apparati dello Stato e la magistratura, per cui solo adesso in maniera incisiva si è potuto operare? E' vero che prima non c'era l'inversione dell'onere della prova, però, vivaddio, si sapeva che a Napoli Nuvoletta accumulava miliardi, che in Sicilia c'erano mafiosi che avevano patrimoni per centinaia di miliardi; si sapeva che i Galasso a Poggio Marino o nella zona del Torrese avevano patrimoni per decine e centinaia di miliardi. Com'è possibile che non si sia potuti intervenire in questa direzione se non nel momento in cui è stata approvata una legge che ha fornito alla polizia e alla magistratura quei poteri? Il nuovo clima che si respira e che conclude una fase con l'arresto di Riina rappresenta un salto complessivo di cultura, di modo di agire della polizia, o è soltanto susseguente all'approvazione di alcune leggi? Che tipo di giudizio viene dato rispetto a quanto verificatosi in passato e a valutazioni che hanno visto presenti ed impegnate le forze di polizia? Come ultima considerazione, signor prefetto, vorrei ricordare che in Parlamento si riportano sempre le opinioni della gente. Noi per mesi, per anni abbiamo sentito dire che Riina era il capo della mafia, il capo di Cosa nostra, addirittura qualche pentito ha ritenuto che fosse il capo di tutte le mafie, così com'è stato ricordato in questa sede. Le immagini televisive di questo personaggio - forse perché i mass media hanno abituato i cittadini a vedere i responsabili mafiosi come manager di grande livello, culturalmente preparati - fanno sorgere qualche perplessità. Certamente ci saranno elementi tali da far ritenere, in attesa che si concluda l'attività giudiziaria in corso, Riina capo di tutte le mafie. Tuttavia, nel giudizio popolare si fa strada l'immagine di un uomo dimesso, che oggi la radio ha definito un ragioniere. Non si sono ancora concluse le indagini giudiziarie, e già si diffonde tutta una serie di notizie. ALTERO MATTEOLI. Non dimentichiamoci che la condanna all'ergastolo è già stata emessa. CARLO D'AMATO. Certamente. Tuttavia, vorrei conoscere il giudizio del capo della polizia, anche perché sono convinto che non ci siano errori in ordine a questa vicenda. PRESIDENTE. Vorrei avere due informazioni ed una valutazione. Nel documento che ci ha inviato il capo della polizia, contenente una relazione sulla vicenda Immordino-Contrada, si fa riferimento ad un episodio che getterebbe una luce particolare sul dottor Immordino. Questi, pur essendo funzionario di polizia, avrebbe mantenuto la carica di segretario della sezione del partito comunista italiano di Villalba ed in tale veste avrebbe partecipato ad uno scontro tra seguaci di Li Causi e seguaci di Vizzini (capo mafia del posto). L'unico scontro che storicamente ricordi è quello che vide Li Causi oggetto di colpi di arma da fuoco durante un suo comizio. Vorrei sapere se si tratti di questo episodio o di altri e coglierne meglio il significato. Pag. 873 ANTONINO BUTTITTA. Quanti anni avrebbe Immordino? PRESIDENTE. E' morto quattro o cinque anni fa. VINCENZO PARISI, Capo della polizia. Aveva circa 65 anni negli anni ottanta. PRESIDENTE. Un tale Ammendolito ha inviato alla Commissione alcuni documenti; se il prefetto dispone di alcune notizie, credo sia interesse della Commissione avere un quadro più completo al riguardo. Infine, sono state poste due questioni strategiche: la prima, sulla quale è tornato in particolare l'onorevole Scotti, a noi interessa in particolar modo. In sostanza, si tratta della strategia incentrata sulla figura del confidente che è stata seguita dall'autorità di polizia nella fase precedente alla legislazione di sostegno sui pentiti, sugli infiltrati, sulle consegne controllate e così via. Tutti noi sappiamo che, mentre il confidente a Varese o a Pinerolo poteva significare una certa cosa, a Castel Vetrano, a Trapani o a Marsala aveva un altro significato. Quindi, vorremmo capire se sia stato un problema di carenza di mezzi e di strumenti giuridici a portare ad una relazione eccessivamente stretta tra funzionari di polizia e capi mafia o uomini del crimine. Lei ha parlato di pregressi corrispettivi per i confidenti e ha detto che adesso le cose sono chiare, al contrario di quanto accadeva prima. Nel pregresso corrispettivo quale tipo di prestazione era compresa? C'era la licenza commerciale, il voler chiudere un occhio su un comportamento, su una presenza o su una latitanza (il tutto ovviamente lasciato alla discrezionalità del funzionario, che di volta in volta poteva ritenere più utile un certo comportamento al fine di conseguire un risultato di maggior significato, in un'indagine di più ampio respiro)? Evidentemente in questo contesto ciascuno rischiava di porsi di fronte al problema con una sua personale visione; c'era chi era più rigido, più mediatore, più negoziale e così via. La seconda questione strategica riguarda il problema di cosa adesso accadrà nell'ambito di Cosa nostra. Lei dice che si è chiuso un ciclo. Tutti noi speriamo che questa sia l'occasione buona per dare un colpo se non decisivo così duro da bloccare definitivamente un processo di ricostituzione. Vorremmo, quindi, sapere se vi siano le condizioni per andare avanti con la necessaria durezza su questa strada ed infine cosa sia possibile ed utile fare per evitare che si realizzi una terza fase per la mafia. Non credo sia possibile una clandestinizzazione organizzativa così come si verificò dopo il 1963 (strage di Ciaculli); infatti, oggi la mafia gestisce una tale mole di traffici nazionali ed internazionali che clandestinizzarsi significherebbe perderli e venir meno al ruolo svolto fino ad oggi. Una valutazione di queste vicende, data dal suo osservatorio, ci aiuterebbe a lavorare con una massa di informazioni maggiori rispetto a quelle di cui oggi attualmente disponiamo. ALTERO MATTEOLI. A me pare poco dignitoso dare al prefetto Parisi soltanto pochi minuti per rispondere alle nostre numerose domande. PRESIDENTE. Per martedì prossimo è fissata una seduta pomeridiana, che manteniamo nel nostro calendario dei lavori e nella quale proseguiremo l'audizione del capo della polizia. Probabilmente il prefetto Parisi vorrà utilizzare i pochi minuti che restano a nostra disposizione per cominciare a dare alcune risposte. VINCENZO PARISI, Capo della polizia. Evidentemente cinque o sei minuti non sono sufficienti a rispondere. Intanto ringrazio il presidente, il vicepresidente e i parlamentari tutti per questa opportunità che mi si offre per dare un contributo di conoscenza più aggiornato su tutte le vicende che ci riguardano. La vicenda Contrada non mi vede in una posizione diversa da quella iniziale, Pag. 874 seppure qualche malinteso possa avere ingenerato dubbi sul ruolo che volevo assumere, che non era né di supermagistrato né di avvocato difensore. Il mio ruolo era strettamente istituzionale e si inseriva in una logica pienamente aderente con la conoscenza del curriculum del funzionario. Ricordo che la documentazione relativa al dottor Contrada è stata messa a disposizione della Commissione che ha potuto verificarla, consultarla e rendersi conto, com'è stato riconosciuto autorevolmente, del fatto che si tratta di una documentazione ineccepibile. Preciso che si tratta di documentazione non da me predisposta e le cui valutazioni non sono da me ispirate. Il dottor Contrada aveva avuto da me soltanto quel blocco di tipo operativo dal momento che ero stato io (e non lui) a decidere il suo impiego in un'attività non operativa. Tale iniziativa, presa il 31 dicembre 1985 e che valse per i tredici mesi di mia successiva permanenza fino ad esaurimento dell'incarico, fu adottata al solo scopo tuzioristico di protezione del funzionario, che non era in una posizione di sicurezza completa, piena, per lo stesso ufficio, nel momento in cui vicende precedenti avevano creato quelli che a me sembravano degli equivoci. Nella documentazione relativa al funzionario emergono valutazioni di autorevoli personaggi quali il prefetto Rocco, già vicecapo della polizia, del prefetto Zecca, funzionario di grandissimo merito e prestigio, del prefetto De Vito, che aveva svolto alcune ispezioni, spesso con riferimento a temi che poi sarebbero stati riconsiderati nelle imputazioni successive. Tale documentazione mi induceva a ritenere che fosse per me doveroso ricordare il curriculum di questo funzionario contro dichiarazioni che potevano essere state fatte in perfetta buona fede da parte di pentiti, al di là di ogni interesse personale. Prescindo dall'episodio relativo al dottor Contrada, che è affidato al giudizio della magistratura, per cui non desidero far alcuna valutazione. Quella del dottor Contrada è una carriera pulita, svoltasi secondo le regole; non c'è niente di anomalo in essa, come non c'è niente di anomalo nel redigere una lettera di apprezzamento. Nel momento in cui il capo di un ufficio si congeda, a fronte di un dipendente meritevole, usualmente si comporta in un determinato modo; non c'è niente di strano. Non vorrei assumere un ruolo di difensore che non mi compete, tuttavia non possiamo esaminare la condotta operativa di oggi non tenendo conto dei metodi operativi in vigore negli anni settanta, ottanta e precedenti. Le leggi sul pentitismo hanno consentito alle autorità di polizia di operare in maniera lineare, trasparente e soprattutto pulita. I rapporti precedenti (prescindo dal caso Contrada perché non vorrei attribuirgli condotte di comportamento che non sono in grado di giudicare, dal momento che non abbiamo mai lavorato insieme nella polizia giudiziaria) erano usualmente equivoci; si producevano rapporti apparenti di contiguità in cui spesso da un lato il funzionario valorizzava la sua capacità di acquisire il confidente, dall'altro quest'ultimo valorizzava il fatto di essere riuscito ad "avvicinare" il funzionario di polizia o altri. Naturalmente, nessuno dei due poteva dire diversamente. Il funzionario era sicuramente proteso alla ricerca di un informatore, ovviamente su temi limitati, perché in ambienti di mafia spesso tutto era legato a piccole guerre tra piccole mafie, per cui non si arrivava mai molto in alto. Il pentitismo ha mutato la situazione: chiara la posizione del funzionario, come quella del magistrato che deve contattarlo; chiara la posizione del pentito e del collaboratore, i quali forniscono per iscritto le proprie dichiarazioni, assumendosi le relative responsabilità, in un ruolo di dignità e direi anche di piena aderenza alle possibilità di intervento probatorio e di valutazione dei riscontri successivi. In questo senso, è evidente che possono esservi situazioni pregresse che tendiamo a valutare come se fossero attuali. Una capacità di penetrazione bisogna averla ma oggi può esistere limitatamente Pag. 875 alla capacità di contattare persone in grado di collaborare e di offrire contributi. Ogni attività che fosse portata a diversi tipi di conclusione sarebbe negativa, perché rischierebbe nuovamente di ingenerare equivoci. Il che non toglie contatti limitati con informatori da retribuire con denaro - solo con denaro -, evitando qualunque altro tipo di compromesso e di compenso. Naturalmente, ciò è un fatto fondamentale. Siamo di fronte ad una stagione nuova; d'altra parte - come chiarirò meglio nel corso dell'audizione di martedì prossimo - il pentitismo ha acquisito una sua grande dignità, la quale va tutelata tenendo però conto del discrimine che bisogna porre in merito a ciò che riferiscono il pentito o il collaboratore in ordine a fatti direttamente vissuti o riportati de relato, laddove possano essere anche ignari trasmettitori di informazioni non fondate. Ancora un flash sulla stato della mafia dopo l'arresto di Riina. Indubbiamente, ci troviamo di fronte al rischio di un mutamento del panorama della mafia. E' forse prematuro dire cosa accadrà, perché potremmo sbagliare. Anche noi, per quanto riguarda Piddu Madonia restammo sorpresi, ma vi sono rivelazioni - sempre stando ai pentiti - convergenti ed univoche in questa direzione. Vi è una cupola con alcune persone, vi è addirittura un quinto nome assolutamente inedito e sul quale non abbiamo ancora le idee chiare. E' evidente, quindi, che ci troviamo di fronte ad un nuovo ciclo essendosene chiuso un altro, un nuovo ciclo apertosi anche perché la crisi della rotta balcanica ha spostato verso l'est i traffici di droga. Dunque, l'epicentro delle attività di mafia, relativamente ai traffici illeciti, si colloca verso il centro-est europeo ed ha abbandonato o tende ad abbandonare quelle che erano le capitali naturali, le quali vedevano soprattutto la Sicilia come epicentro di questi movimenti, come centro di raffinazione della droga. Tutto ciò lo constatiamo dal fatto che numerosi mafiosi sono stati trovati in Germania. I paradisi fiscali e bancari, le possibilità di investimento agevolato che vi sono all'estero portano alla periferizzazione della mafia, cioè ad una sorta di clandestinizzazione della mafia che rispecchia l'internazionalizzazione della mafia stessa. Cosa accadrà adesso? Quali sono i fatti veri? Cosa è avvenuto all'interno della compagine mafiosa? Vi sarà o meno uno scontro tra bande? Finora non è accaduto nulla. E' possibile che una parte della trasformazione sia già avvenuta, almeno a giudicare dal numero di latitanti che sono stati trovati in Germania (abbiamo riempito più di un aereo per riportarli in Italia). Indubbiamente, la situazione è cambiata in maniera considerevole ed il rapporto della Commissione con altre strutture internazionali si rivela sempre più utile. Ritornando al tema dell'autotutela, che è stato sensibilmente affrontato, vorrei dire che esso ha rappresentato una costante: nel periodo della mia direzione, i provvedimenti di espulsione, di allontanamento e destituzione sono stati così numerosi che lei non può neanche immaginarlo. Così come non è stato taciuto nulla. Quando la magistratura deve procedere a carico di qualcuno che ha delinquito, che si è comportato male, ci trova al suo fianco. Non abbiamo nulla di personale. Distinguiamo fra illeciti privati e illeciti legati all'attività di lavoro. Nei primi, il personale è abbandonato. Nei secondi, cioè quelli che riguardano l'attività di istituto, abbiamo il dovere di intervenire, se non altro per dimostrare all'intera polizia giudiziaria, da noi dipendente, che in caso di problemi l'amministrazione non l'abbandona. Poi, la magistratura e la giustizia fanno il loro corso. La legislazione sui pentiti è adeguata, come per ora lo sono i mezzi. Certo, in futuro questa espansione crescente potrà determinare qualche necessità in più. Indubbiamente, senza i provvedimenti legislativi non avremmo fatto tanti progressi. Gli stessi interventi sui patrimoni sono maturati perché la legislazione ha Pag. 876 permesso l'intervento della Guardia di finanza (più specificamente della polizia tributaria), mentre per le forze dell'ordine nel loro insieme è stato necessario professionalizzarle, prepararle. Inoltre, non è detto che non sia in corso una serie di interventi sui patrimoni (una premura costante non solo dei ministri dell'interno che si sono succeduti ma anche nostra); si sta mettendo a fuoco un programma per intervenire sui patrimoni, programma che non ha escluso, neanche per il passato, attenzione per il patrimonio di Riina. Concludo ribadendo la mia disponibilità a riferire ulteriormente su argomenti così importanti la settimana prossima. PRESIDENTE. Nel ringraziare il prefetto Parisi, resta stabilito che la Commissione tornerà a riunirsi martedì prossimo alle 15,30. La seduta termina alle 11,30. Pag. I ALLEGATI Pag. II Pag. III ALLEGATO N. 1 Lettera del Capo della polizia, prefetto Parisi, al direttore de la Repubblica, dottor Scalfari. Pag. IV Pag. V ...(omissis)... Pag. VI ...(omissis)... Pag. VII ...(omissis)... Pag. VIII ...(omissis)... Pag. IX ...(omissis)... Pag. X ...(omissis)... Pag. XI ALLEGATO N. 2 Profilo operativo del "pentitismo". Pag. XII Pag. XIII ...(omissis)... Pag. XIV ...(omissis)... Pag. XV ...(omissis)... Pag. XVI ...(omissis)... Pag. XVII ...(omissis)... Pag. XVIII Pag. XIX ALLEGATO N. 3 Evoluzione del fenomeno mafioso. Pag. XX Pag. XXI ...(omissis)... Pag. XXII ...(omissis)... Pag. XXIII ...(omissis)... Pag. XXIV ...(omissis)... Pag. XXV ...(omissis)... Pag. XXVI ...(omissis)... Pag. XXVII ...(omissis)... Pag. XXVIII ...(omissis)... Pag. XXIX ...(omissis)... Pag. XXX ...(omissis)... Pag. XXXI ...(omissis)... Pag. XXXII ...(omissis)... Pag. XXXIII ...(omissis)... Pag. XXXIV ...(omissis)... Pag. XXXV ...(omissis)... Pag. XXXVI Pag. XXXVII ...(omissis)... Pag. XXXVIII ...(omissis)... Pag. XXXIX ...(omissis)... Pag. XL Pag. XLI ALLEGATO N. 4 Profilo giudiziario di Salvatore Riina. Pag. XLII Pag. XLIII ...(omissis)... Pag. XLIV ...(omissis)... Pag. XLV ...(omissis)... Pag. XLVI ...(omissis)...