Pag. 1699 PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE INDICE pag. Seguito dell'esame della relazione sui rapporti tra mafia e politica: Violante Luciano, Presidente, Relatore ................ 1701 1708, 1709, 1710, 1712, 1714, 1716, 1719, 1721 1722, 1724, 1725, 1728, 1729, 1733, 1734, 1736 1738, 1739, 1747, 1749, 1754, 1755, 1756 Ayala Giuseppe Maria ................ 1711, 1716, 1719, 1721 Bargone Antonio ....................................... 1736 Brutti Massimo ...................... 1710, 1712, 1721, 1749 Buttitta Antonino ............................... 1712, 1714 Cabras Paolo .............................. 1740, 1742, 1750 Cappuzzo Umberto .................... 1731, 1733, 1734, 1755 Crocetta Salvatore .................................... 1750 Cutrera Achille ................................. 1709, 1710 1744, 1747, 1749 De Matteo Aldo ............................ 1726, 1728, 1729 Ferrauto Romano ....................................... 1722 Folena Pietro ................................... 1733, 1738 Frasca Salvatore ................................ 1724, 1735 1736, 1737, 1738, 1739, 1740 Fumagalli Carulli Ombretta ...................... 1706, 1708 1709, 1710, 1711, 1712 Galasso Alfredo ..................... 1722, 1724, 1725, 1726 1728, 1729, 1737, 1742, 1756 Grasso Gaetano ........................................ 1729 Imposimato Ferdinando ................................. 1701 Mastella Mario Clemente ......................... 1725, 1755 Olivo Rosario ................................... 1753, 1754 Ranieri Umberto ....................................... 1715 Rapisarda Santi ....................................... 1704 Ricciuti Romeo ............................ 1710, 1726, 1728 Taradash Marco ........................................ 1722 Tripodi Girolamo .......................... 1740, 1754, 1756 Pag. 1700 Pag. 1701 La seduta comincia alle 9,15. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente). Seguito dell'esame della relazione sui rapporti tra mafia e politica. PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'esame della relazione sui rapporti tra mafia e politica. Proseguiamo la discussione. FERDINANDO IMPOSIMATO. Credo occorra riconoscere che la Commissione verrebbe meno ad un suo dovere fondamentale se non formulasse un'approfondita analisi sui rapporti mafia-politica in questo momento storico ricco di conoscenze, episodi ed avvenimenti che sembrano gettare luce sugli anni foschi dell'ultimo trentennio. Negli ultimi anni è stata raccolta una massa ingente di elementi, dati, notizie, informazioni, atti processuali e di relazioni delle Commissioni d'inchiesta che consentono di delineare un quadro non generico, astratto ed inconcludente, ma concreto e definito dei rapporti tra mafia e politica. Dalle indagini dei magistrati di Palermo, di Caltanissetta e di Firenze sui rapporti tra mafia, politica e massoneria, sul golpe Borghese, sulla strage di Piazza Fontana e sulla strage del treno 904, è possibile cogliere alcune linee essenziali dell'intreccio mafia-politica, indipendentemente dall'esito dei processi. Questo perché alcuni processi, anche se sfociati in assoluzioni, come quello sul golpe Borghese, o quello di Palermo a carico di 114 oppure tuttora pendenti davanti all'autorità giudiziaria, hanno accertato l'esistenza materiale di fatti e di legami significativi ed il coinvolgimento in essi di alcuni uomini politici ai diversi livelli, al di là del giudizio sulle penali responsabilità degli imputati ed indagati, che non è di competenza di questa Commissione. Né può attendersi per la formulazione di un giudizio politico la definizione di una serie di procedimenti penali, poiché la loro conclusione, a causa della loro complessità, non appare né facile né breve; non è possibile, cioè, allinearsi ai tempi necessariamente lunghi dei processi penali per dare una valutazione politica di fatti accertati. I due livelli di indagine, infatti, quello giudiziario e quello politico, hanno diversi strumenti conoscitivi, diversi obiettivi e diverse garanzie. Sulla base di una simile regola metodologica si può concludere che le indagini compiute dalle varie autorità giudiziarie della Calabria, della Campania, della Sicilia, della Puglia, della Lombardia e della Toscana e quelle delle Commissioni parlamentari d'inchiesta sulla mafia (ricordo quella presieduta dal senatore Carraro), sulla P2, sul caso Sindona e sul sequestro Moro rappresentano nel loro insieme una base quanto mai solida per un giudizio sul rapporto mafia-politica che abbia al suo centro il ruolo di alcuni esponenti del mondo politico. A questo punto credo si debba rivalutare tutta una serie di inchieste insabbiate e mai portate a compimento per il comportamento di alcuni esponenti degli stessi apparati di sicurezza. Ho letto con molta attenzione la proposta di relazione presentata dal presidente Violante e l'ho trovata estremamente equilibrata, prudente, aderente alla Pag. 1702 realtà. Certamente non poteva essere esaustiva di tutte le complesse tematiche dei rapporti mafia-politica: dà una definizione dei programmi, delle organizzazioni, del modo di agire, dei collegamenti e delle connessioni della mafia; fa inoltre alcuni riferimenti abbastanza precisi al rapporto con la massoneria e con esponenti dell'eversione e dei servizi segreti. Credo che forse sarebbe stato opportuno dedicare un apposito capitolo a ciascuno di questi temi, perché sono troppo importanti per potere essere affrontati un poco di sfuggita, come è stato fatto nella relazione. Ritengo che dobbiamo ripercorrere antichi sentieri, rivalutare una serie di fatti che, presi isolatamente, non hanno alcun significato, mentre oggi, nel loro insieme, alla luce di cose accertate ed emerse indiscutibilmente, rivivono ed acquistano una nuova valenza non tanto sul piano giudiziario quanto su quello politico. Le assoluzioni di molti mafiosi e di terroristi neri sono state la conseguenza inevitabile di depistaggi di "spezzoni" dei servizi segreti, di parti consistenti delle logge massoniche affiliate alla massoneria ufficiale, di esponenti della magistratura, di uomini politici che hanno impedito per anni la ricerca della verità e provocato la disintegrazione di indagini spesso avviate nella direzione giusta. Bene, quindi, fa la relazione a ricordare la vicenda della confessione di Leonardo Vitale che, fin dal marzo 1973 (sono passati venti anni), parlò di cose, uomini, programmi, omicidi e alleanze di Cosa nostra, ma venne considerato un pazzo, condannato, abbandonato a se stesso, infine scarcerato ed assassinato dalla mafia. Questo sempre perché si è voluto improntare l'azione della Commissione, anche nelle passate legislature, a criteri di doverosa prudenza, che però non può essere considerata come sinonimo di cecità e di incapacità di percepire la valenza di alcuni fatti ed avvenimenti. Altrimenti rischiamo di fare una relazione che è molto meno avanzata e coraggiosa di quella della prima Commissione antimafia, presieduta dal senatore Carraro, nella quale erano già contenuti episodi, riferimenti, indicazioni su uomini e su rapporti con esponenti del mondo politico che tuttora hanno un grande valore. Ieri ho letto ciò che quella Commissione ha scritto su Lima, Ciancimino e sui collegamenti che questi due uomini già avevano con esponenti della criminalità organizzata e del malaffare; è impressionante che questi dati siano stati per anni sottovalutati e che il lavoro prezioso svolto da quella Commissione non abbia avuto quello sviluppo che avrebbe dovuto avere. Possiamo dire che la storia del nostro paese è costellata da eccessive prudenze ed eccessive omissioni, che hanno portato poi alla svalutazione e sottovalutazione di collaborazioni formidabili, fornite da uomini non solo di Cosa nostra, ma anche al di fuori di questa organizzazione. Un'altra occasione perduta riguarda, infatti, la collaborazione di Giuseppe Di Cristina, il quale anticipò l'omicidio dell'onorevole Cesare Terranova e parlò delle famiglie emergenti della mafia e dei legami con esponenti del crimine organizzato. Vorrei ricordare un'altra vicenda che coinvolse anche la magistratura e gli esponenti del mondo politico, cioè l'attentato a Mangano che si verificò venti anni fa. In quel periodo furono accertate le responsabilità del procuratore generale della corte di appello Spagnuolo; furono fatte intercettazioni da cui emersero anche collegamenti tra Frank Coppola e l'allora ministro dell'interno Restivo; addirittura furono accertati collegamenti fra il mafioso Coppola e l'allora segretario della Commissione antimafia Romolo Pietroni, che venne poi processato e condannato; furono accertate infiltrazioni della mafia all'interno della regione Lazio. Insomma, tutta una serie di fatti ed episodi, risalenti a venti anni fa, che sono stati svalutati ed assorbiti dalla mafia, perché subito dopo, a parte il clamore di questi episodi, lo Stato non è stato in grado di reagire in maniera efficace e di predisporre un piano che potesse contrastare la Pag. 1703 penetrazione della mafia in tutti i livelli e in tutte le regioni. Voglio dire qui queste cose, perché ho colto anche la preoccupazione dei colleghi della democrazia cristiana e del partito socialista, preoccupati di possibili speculazioni. Devo dare atto alla Commissione, per la breve esperienza che ho maturato in essa, della grande obiettività e prudenza che ha ispirato tutti i commissari; credo che tutti noi siamo ispirati dal desiderio di conoscere la verità e di evitare speculazioni, perché abbiamo un compito che va oltre quello che ci compete come appartenenti ai nostri rispettivi partiti. Tuttavia questo è un fatto che mi preoccupa molto, nel senso che non possiamo commettere l'errore, compiuto in passato, di disperdere l'occasione importante per cercare di definire alcuni rapporti, anche riprendendo in esame fatti ed episodi, che qui vorrei ricordare brevemente, anche se il tempo non ce lo consentirebbe. Vorrei ricordare, per esempio, che nell'indagine sulla banda della Magliana emersero legami tra Flavio Carboni, Diotallevi, Calò ed un ministro della giustizia. A tale vicenda si collegò poi quella relativa all'uccisione di Calvi. Ebbene, in tutti questi casi lo Stato ha perso occasioni storiche per attaccare la struttura militare dell'organizzazione mafiosa ma anche per denunciare i rapporti tra mafia e politica. Vorrei anche ricordare quello che è emerso da alcuni atti della relazione sul caso Moro: vi sono alcuni richiami ad esponenti del mondo politico e anche finanziario che non possiamo dimenticare. Questa relazione, perciò, forse avrebbe dovuto far riferimento ad un fatto importante: oggi si sa con certezza, a seguito di sentenze passate in giudicato, che personaggi come Michele Sindona- dei quali alcuni anni fa non si sapeva che avessero avuto un ruolo fondamentale sia nei rapporti con l'eversione sia nei rapporti con la mafia - sono stati processati e condannati per omicidi di stampo mafioso, per associazioni a delinquere di stampo mafioso e per bancarotta fraudolenta, sicché i loro rapporti con esponenti del mondo politico oggi acquistano un valore fondamentale. Mi riferisco ai rapporti di Sindona con il senatore Andreotti, rapporti nei quali certamente quest'ultimo avrà avuto una serie di distrazioni ma che adesso acquistano una valenza ed un valore più allarmante e preoccupante. Non stiamo certamente facendo il processo ad Andreotti però non possiamo ora non prendere in esame i fatti accertati da altre Commissioni e da giudici con sentenze passate in giudicato, fatti che servono anche a ridefinire e ridelineare i rapporti tra mafia e politica. Dice l'onorevole Gerardo Bianco, uomo giusto e prudente, che nei fatti odierni che coinvolgono la democrazia cristiana c'è la maledizione di Moro. Credo che vi sia qualcosa di più: vi è stata la profezia di Moro basata sulla sua testimonianza. Vediamo cosa scrisse Moro nei suoi diari segreti trovati in via Montenevoso. In particolare, a pagina 122 dell'allegato 2 alla relazione Moro leggiamo: "A proposito di indebite amicizie, di legami pericolosi tra finanza e politica, non posso che ricordare un episodio per sé minimo ma, soprattutto alla luce delle cose che sono accadute poi, pieno di significato. Essendo io ministro degli esteri fra il 1971 ed il 1972, l'onorevole Andreotti, allora presidente del gruppo DC della Camera, desiderava fare un viaggio negli USA e mi chiedeva una qualche investitura ufficiale. Io gli offersi quella modesta di rappresentante di un'importante commissione all'ONU ma l'offerta fu rifiutata. Venne poi fuori il discorso di un banchetto ufficiale che avrebbe dovuto qualificare la visita che Andreotti avrebbe dovuto fare in America. Poiché all'epoca Sindona era per me uno sconosciuto, fu l'ambasciatore Ortona a saltare su per disprezzare e deprecare questo accoppiamento tra Sindona e Andreotti. Ma il consiglio dell'ambasciatore e quello mio modestissimo non furono tenuti in conto ed il banchetto si fece come previsto. Forse non fu un gran giorno per la democrazia cristiana". Questo disse testualmente Moro a proposito dei rapporti tra il senatore Andreotti Pag. 1704 e Sindona. Quest'ultimo ha avuto un ruolo sinistro in tutte le vicende di questi anni, per i suoi rapporti con la mafia, con la massoneria, con il terrorismo nero e per i suoi piani eversivi. Moro, parlando della lotta di Andreotti per il controllo dei servizi segreti in competizione con Cossiga, disse: "Questa persona" cioè Andreotti "detiene nelle mani un potere enorme, all'interno e all'estero, di fronte al quale i dossier dei quali si parlava ai tempi di Tambroni, francamente impallidiscono. La situazione deve essere considerata tenendo presente l'inquinamento del trentennio che deprechiamo". E poi, concludendo la sua requisitoria, Moro dice, secondo quanto riportato a pagina 154 dell'allegato 2: "Tornando poi a lei, onorevole Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del paese che non tarderà ad accorgersene, non è mia intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una colpa... Durerà un po' di più, un po' di meno ma passerà senza lasciare tracce... Che cosa ricordare di lei? La sua confermata amicizia con Sindona? Il suo viaggio americano con il banchetto offerto da Sindona, malgrado il contrario parere offerto dall'ambasciatore? La nomina di Barone al Banco di Napoli?". E qui parla di un prestito di Sindona concesso alla democrazia cristiana e all'onorevole Andreotti. Questa è soltanto una parte di un atto importante contenuto nella relazione Moro ma vi è qualcosa di più; vi sono i rapporti tra il senatore Andreotti e Gelli, del quale adesso sono noti i legami non solo con il terrorismo nero ma anche con la mafia e la camorra. Sono di questi giorni le notizie dei giornali in cui si parla delle visite fatte da esponenti della camorra a Gelli. Dobbiamo ritenere che certamente il senatore Andreotti è andato incontro ad una serie di gravi distrazioni; non possiamo però non tener presente il ruolo importante che egli in questi anni ha avuto all'interno del paese come ministro della difesa, ministro degli esteri, Presidente del Consiglio. I suoi rapporti con Lima e Ciancimino ora acquistano nuova valenza perché nel frattempo Ciancimino è stato condannato per associazione per delinquere di stampo mafioso mentre, all'epoca della Commissione Carraro, Ciancimino, il cui ritratto è stato fatto con estrema decisione, non era ancora né indagato né imputato, era semplicemente sospettato di collusioni mafiose. Forse faremmo bene a riprendere in esame e a collegare episodi già emersi e consacrati alla storia negli atti di varie Commissioni parlamentari d'inchiesta. Devo dare atto all'onorevole Teodori dello studio approfondito che ha fatto sui rapporti tra Andreotti e Sindona, il quale ebbe modo ripetutamente di tentare di ricattare il senatore Andreotti nel momento in cui le sue banche fallirono. Sindona fu colpito da mandato di cattura per effetto della bancarotta fraudolenta delle sue banche italiane e straniere. Ebbene, dagli atti di diversi processi, soprattutto da quelli relativi alla strage di Bologna, emerge chiaramente che vi erano stati coinvolgimenti del senatore Andreotti anche con esponenti del terrorismo nero. Nel 1974 al giudice Tamburrino è stata fatta una dichiarazione molto precisa da parte di Cavallaro secondo cui a capo del tentativo eversivo ci sarebbe stato Andreotti in quanto finanziato da Sindona e fiancheggiato dal generale americano Johnson. Ho citato a caso queste fonti, ho ricordato questi episodi proprio perché ritengo che abbiamo il dovere di essere sommamente prudenti ma abbiamo anche quello di far rivivere dichiarazioni, testimonianze, confessioni, atti, di rivalutare inchieste che sono state insabbiate e che invece debbono essere sicuramente a base di una relazione più completa di quella predisposta, relazione sicuramente molto equilibrata e prudente ma tale da poter essere sviluppata in alcune parti. SANTI RAPISARDA. Signor presidente, quale parlamentare siciliano e come componente di questa Commissione desidero partecipare al dibattito su questa relazione, che condivido pienamente. Nel Pag. 1705 suo contesto sono evidenziati con puntualità tutti i lavori svolti negli ultimi mesi da questa Commissione che ci hanno portato ad audizioni di pentiti, di magistrati, di alte cariche dello Stato eccetera. Desidero quindi esprimere alcune considerazioni che a mio parere potranno essere integrative di quanto è stato detto e scritto. Nella relazione non si fa menzione degli stretti rapporti che ci sono stati e continuano ad esserci in Sicilia fra la mafia ed una certa parte dell'aristocrazia siciliana che, secondo me, in molte occasioni è stata protagonista e parte integrante del fenomeno mafioso, soprattutto in alcuni settori dell'economia siciliana che dovrebbero essere oggetto di approfondimento. Nella relazione sono evidenziate come attività lucrose primarie per la mafia siano stati e sono gli illeciti proventi ricavati dallo spaccio di stupefacenti e dal controllo negli appalti pubblici, sui quali fra alcuni giorni presenterà una relazione il senatore Cutrera a nome della sottocommissione che vi ha lavorato. A questo punto vorrei evidenziare un altro dato che riguarda un settore in cui la mafia ha avuto ed ha partecipazioni determinanti, la gestione dei piani regolatori dei comuni che tanto flusso di denaro hanno apportato sia alle associazioni mafiose sia a chi molto imprudentemente si è ad esse affidato. Chiedo quindi attenzione da parte della Commissione antimafia poiché quella da me richiamata è un'altra rilevante fonte di risorse per i criminali e per chi ne protegge e ne aiuta gli interessi. Desidero evidenziare anche l'attività della pesca e del pescato che da sempre è stata gestita dalla mafia mantenendone il monopolio assoluto ed imponendo prezzi di mercato a discapito di tutta quella povera gente che trascorre in mare molto tempo della propria esistenza correndo spesso pericoli per la propria vita. Vorrei ora accennare all'attività politico-amministrativa di molti comuni e province siciliane ed in particolare delle grandi città come Palermo, Catania e Messina. In riferimento alla città di Palermo, oltre a tutto quello che già sappiamo, sarebbe opportuno acquisire notizie e documenti, anche con la presenza della stessa Commissione, su come è stato gestito soprattutto negli ultimi vent'anni il territorio, con un'azione di controllo tecnico-amministrativa sulle attività condotte da tutti i sindaci, le giunte e le commissioni edilizie che si sono susseguite nel corso degli anni. Facendo ciò sicuramente si evidenzieranno grandi speculazioni fatte sulla pelle dei cittadini a discapito dell'ambiente e della stessa città. Per quanto riguarda Catania e Messina, oltre al controllo della gestione del territorio, al quale bisogna prestare la stessa attenzione che sopra dicevo per Palermo, desidero citare due esempi che ritengo molto importanti e di notevole interesse per questa Commissione. A proposito di Catania cito la gestione e la costruzione delle scuole da parte del comune e della provincia ed il centro sportivo che dovrebbe sorgere a Camporotondo, già finanziato dalla provincia in maniera secondo me illegale. Per quanto riguarda Messina, è sufficiente citare i 112 miliardi del progetto del ponte sullo Stretto, di cui si dovrebbero approfondire alcuni elementi gestionali e mettere in evidenza quali siano le motivazioni per cui la società Ponte sullo Stretto non abbia voluto prendere in considerazione la comparazione di un progetto alternativo a quello del ponte e che riguarda la realizzazione di un tunnel sommerso, progetto di cui la società è in possesso. Su questo argomento mi riservo di dare maggiori chiarimenti e delucidazioni in un'altra seduta. Un'attenzione particolare va rivolta anche alla gestione delle USL siciliane su cui molto ci sarebbe da dire e su cui mi riservo di riferire in seguito. Concludo facendo riferimento all'attività dei governi della regione siciliana che con il beneplacito dell'opposizione hanno governato la Sicilia permettendo sciupii di denaro pubblico in modo assurdo e clientelare; basterebbe verificare le migliaia di miliardi spesi in tutti questi Pag. 1706 anni per opere pubbliche richieste dai comuni, sollecitate da parlamentari siciliani di tutti i gruppi politici (desidero puntualizzare questo aspetto), senza una programmazione e senza averne verificato l'effettivo beneficio generale, agevolando così l'attività delle organizzazioni mafiose che per raggiungere i propri obiettivi si sono servite molto spesso di politici e di funzionari pubblici corrotti. Anche su questo aspetto mi riservo di presentare una lunga e dettagliata relazione che spero darà un contributo alla lotta che si sta conducendo contro la mafia e alla grande rivoluzione democratica che sta avvenendo in Sicilia e in tutta Italia. Spero che queste osservazioni possano diventare parte integrante della relazione del presidente Violante per una maggiore completezza e per avere un quadro ancora più chiaro del fenomeno mafioso siciliano. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Signor presidente, onorevoli colleghi, mi pare che dagli interventi finora svolti sia emersa la complessità della situazione dei rapporti fra mafia e politica e sia emerso come non sia sufficiente ridurli - mi pare lo abbia già detto l'onorevole Sorice - ai meri rapporti mafia-politica, ma si debba avere come oggetto d'indagine anche il rapporto mafia-istituzioni-politica. In questo senso, del resto, anche l'allora nostro capogruppo onorevole Scotti si era rivolto ai colleghi ed alla presidenza perché l'analisi fosse più ampia. Ho ascoltato vari interventi, tra i quali quello dell'onorevole Folena ieri e quello del senatore Imposimato oggi: entrambi mirano a precisare - e do loro atto di queste osservazioni - che nessuno, tantomeno la relazione, vuole criminalizzare un solo partito, la democrazia cristiana, e che pertanto ogni semplificazione è dannosa. Convengo che la relazione non criminalizza affatto un partito in modo globale, ma punta la sua attenzione su diversi schieramenti politici, facendo le opportune distinzioni al loro interno. Do altresì atto al presidente Violante di aver ben puntualizzato tale questione quando ieri ha introdotto i nostri lavori. Vorrei tuttavia dire ai colleghi che, se ogni semplificazione è certamente dannosa, ciò che preoccupa non è soltanto la valutazione politica che una lettura frettolosa può fornire al riguardo della democrazia cristiana o di suoi esponenti, ma è la possibile interpretazione, magari fatta in modo frettoloso (prendendo due brani, staccandoli dal contesto e mettendoli a confronto), che si può dare ad una sorta di rapporto necessitato fra le forze politiche di Governo e la mafia. Mi preoccupa soprattutto questo aspetto della relazione. In diversi punti la relazione - convengo, forse più nell'implicito che non nel veramente esplicitato - lascia intravvedere una specie di equazione, secondo la quale il sistema democratico italiano, almeno fino agli anni settanta, si è imperniato sulla mafia: democrazia italiana fino agli settanta .004 mafia. Ripeto, signor presidente, che se si leggono attentamente i vari passi della relazione si deve riconoscere che si tratta di un'interpretazione frettolosa ed anche errata. Temo tuttavia che qualche interprete della relazione, magari anche qualche giornalista poco attento, possa giungere a queste conclusioni. L'equazione democrazia italiana .004 mafia (fino agli anni settanta perché dagli anni settanta in poi, ne convengo, vi è una riflessione diversa sulla quale non sto a soffermarmi) non riguarda per la verità soltanto la democrazia cristiana, ma - e forse questo è anche peggio - il Governo democratico del nostro paese, cosicché si potrebbe quasi concludere, sempre in base a un'interpretazione frettolosa, che la prima Repubblica è la repubblica della mafia. Della relazione del presidente mi preoccupano soprattutto le possibili speculazioni e semplificazioni che su di essa possono essere fatte. Del resto ieri l'onorevole Folena ha affermato in un inciso del suo intervento - ero presente - che l'effetto della guerra fredda, se ha causato una mancanza di libertà nei paesi dell'est (quindi delle grosse compromissioni dei regimi democratici Pag. 1707 dell'est), ha però determinato nel nostro paese un intreccio di rapporti con la mafia, lasciando in un certo senso sfocato il quesito se sia stata la mafia ad aver bisogno del potere o il potere essere vittima della mafia. Sono queste le interpretazioni che mi preoccupano, signor presidente. Posso convenire con la relazione che la mancanza di alternanza - perché il dato politico è questo - ha certamente provocato, anche se non è stata l'unica causa, l'esplosione della corruzione; su questo posso essere d'accordo, del resto io stesso l'ho affermato in più occasioni. Tuttavia, dalla degenerazione della corruzione come conseguenza, almeno parziale, della mancanza di alternanza, non mi sento di fare un ulteriore passo in là: cioè di affermare che la mancanza di alternanza, almeno fino agli anni settanta, ha in un certo senso costretto la nostra democrazia, il nostro modello democratico a venire a patti con la mafia, o addirittura ad avere la mafia al suo centro motore. Non mi sento di condividere questa valutazione politica, onorevoli colleghi, ma la vedo implicita in qualche frase della relazione del presidente, anche se ritengo che non sia affatto intenzione del collega Violante affermare questo. Del resto egli lo ha detto esplicitamente anche nell'introduzione di ieri. Non sono d'accordo anche perché la stessa relazione fa riferimento all'esperienza Milazzo, importante per la vita e l'impostazione politica della nostra società, non solo siciliana, ma italiana in generale. L'esperienza Milazzo citata nella relazione, a mio avviso forse con un'analisi politico-storica che avrebbe bisogno di ulteriori approfondimenti, non può considerarsi una semplice eccezione del teorema o dell'equazione democrazia cristiana .004 mafia, oppure forze di Governo tradizionali .004 mafia. Questa è la prima osservazione che mi permetto di fare poiché non sono d'accordo su questa linea. Vorrei pertanto che su questi aspetti la relazione venisse integrata e chiarita, che affermasse in modo più esplicito quello che a mio avviso è implicito così da non indurre il lettore a cadere nell'errore. Allo stesso modo non mi sento di accogliere la definizione che la relazione dà della mafia come soggetto politico. Non mi dilungo su questo punto perché lo ha già trattato l'onorevole Sorice e mi riconosco nelle osservazioni da lui fatte, del resto non solo relativamente al punto specifico della critica alla relazione. Una critica, signor presidente, che non vuole essere distruttiva (lo voglio far presente anche qui e non soltanto attraverso le dichiarazioni alla stampa) ma costruttiva. Nessuno di noi vuole distruggere la sua relazione: la consideriamo anzi un punto di partenza, ma vogliamo opportune modificazioni ed opportune integrazioni, eliminando altresì alcune sbavature. Dicevo che non mi dilungherò sul perché non sia accoglibile la definizione della mafia come soggetto politico. Lo ha già detto l'onorevole Sorice: la mafia è un soggetto criminale. La soggettività politica, almeno secondo i nostri schemi politico-costituzionali, è ben altro; non può essere un'associazione criminale ridotta alla categoria del soggetto politico o, peggio ancora, elevata alla categoria del soggetto politico. Sottolineo piuttosto che il fenomeno mafioso mi pare e mi è parso in tutti questi anni nei quali vado approfondendo questi temi (sia in Commissione antimafia in questa legislatura ed in quella precedente sia quando facevo parte del Consiglio superiore della magistratura e chiesi, insieme a Galasso, la costituzione di un comitato antimafia all'indomani dell'omicidio del generale Dalla Chiesa) molto più complesso di quello tracciato dalla relazione ed anche molto più inquientate. Sono d'accordo, almeno in parte, su quanto ha detto l'onorevole Imposimato e ritengo anch'io che vi siano molti più interrogativi che rimangono insoluti, molti più misteri ed anche molti più veleni che non vengono affrontati. Mi rendo conto della difficoltà di stendere una relazione e, beninteso, queste osservazioni da parte mia non sono di critica distruttiva; le faccio proprio perché sono Pag. 1708 consapevole di tutta la difficoltà di stendere un rapporto globale che si faccia carico di tutti i problemi e di tutti gli interrogativi, non soltanto di alcuni. Come ha giustamente puntualizzato il presidente, non ci occupiamo di tutto il fenomeno mafia o di tutte le associazioni criminali di stampo mafioso, ma soltanto di Cosa nostra; tuttavia, anche così delimitata e circoscritta l'indagine al fenomeno di Cosa nostra, sorgono più interrogativi di quelli che sono contenuti e ricevono una risposta, accettabile o meno che sia, nella relazione del presidente. Perché, per esempio, non considerare l'atteggiamento delle forze politiche in Parlamento di fronte alle varie tappe della legislazione antimafia? Sono stata relatore - i colleghi della Camera se lo ricorderanno - di diversi decreti che il Governo ha presentato per contrastare l'avanzata sempre più spregiudicata, pericolosa e sprezzante dell'antistato contro lo Stato e ho avuto molti dubbi nello svolgimento delle mie funzioni di relatore su quei decreti, perché alcuni di essi mi parevano contrastanti con le regole dello Stato di diritto. Ed era così. Ricordo il famoso "decreto salvaprocessi" della scorsa legislatura: ero in aula, pressoché sola insieme con il ministro Vassalli, e si trattava di evitare che uscissero dei mafiosi dal carcere. Quel decreto stava in piedi molto a fatica dal punto di vista dei presupposti di costituzionalità... PRESIDENTE. Si riferisce a quello sui mandati di cattura? OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Sì. PRESIDENTE. Non era Martelli il ministro di grazia e giustizia? OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. No, era Vassalli (si trattava del decreto precedente). Me lo ricordo per un motivo particolare: l'onorevole Mellini, che allora era nostro collega, ebbe parole dure in Assemblea contro il relatore, che ero io, e contro il ministro Vassalli, dichiarandosi stupito che proprio due giuristi facessero passare provvedimenti come quello, che violavano le regole dello Stato di diritto. Ce ne rendevamo conto, ma eravamo di fronte ad uno stato di necessità. Non dico balbettando, ma con un qualche imbarazzo arrivammo a quelle approvazioni. Era un punto necessitato, un'approvazione necessitata. Era necessitato per noi votarla. Ma altre forze politiche contrastavano quella legge, e lo facevano anche sotto profili di legittimi dubbi di conformità ai princìpi dello Stato di diritto. Alcuni decreti vennero reiterati diverse volte: l'onorevole Scotti mi ricordava qualche giorno fa che alcuni suoi decreti sono stati reiterati ben quattro volte, perché il Parlamento tentennava, non li voleva far passare. Eppure erano decreti che poi si sono dimostrati necessari nell'opera di contrasto alla criminalità mafiosa. Credo che anche di questo dovrebbe parlare, almeno per rapidi cenni, la relazione, perché è giusto riconoscere che abbiamo dovuto in certi momenti mettere da parte le regole dello Stato di diritto. Vorrei che qualche passo della relazione lo dicesse. Non solo, ma vorrei anche che si dicesse chiaramente quali sono state le forze politiche che in Parlamento hanno votato quelle leggi, e quindi attraverso quei provvedimenti hanno contrastato l'avanzata della criminalità mafiosa. Così anche mi domando: perché non facciamo l'analisi del voto, specie nelle elezioni amministrative o nelle elezioni in cui c'è un collegio uninominale per il Senato? L'analisi del voto nei quartieri o nelle località ad alta densità mafiosa costituirebbe una specie di monitoraggio, un'indagine da fare. E quali conseguenze trarre da vittorie elettorali in questi collegi? Oggi sentivo dalla rassegna stampa di Radio radicale (non ho ancora letto i quotidiani) che qualche giornale questa mattina faceva riferimento al collegio senatoriale di Corleone-Bagheria, località ad alta densità mafiosa. Dalla rassegna stampa che - ripeto - ho solo sentito (mi scuso con i colleghi per non essere più preparata) ho appreso che lì c'è Pag. 1709 un senatore della Rete, ad esempio. Questo ci deve condurre a valutazioni frettolose, affrettate? Personalmente sarei più cauta, ma certo è che una relazione che voglia farsi carico di tutti gli aspetti del problema, della presenza della mafia e dei rapporti con le istituzioni e la politica deve anche affrontare questi temi come deve affrontarne altri. Perché allora non approfondire (io non li ho trovati, onorevole presidente, ma forse non mi sono rivolta alle persone adatte nei giorni scorsi) le disposizioni date negli ultimi dieci anni dal Comitato interministeriale per la sicurezza, presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri? Perché non guardiamo quali disposizioni sono state date dal CIS alle forze dell'ordine per il contrasto alla mafia? Anche questo dovrebbe essere una sorta di monitoraggio (o di indagine, chiamatelo come volete) necessario per avere un quadro completo dei rapporti mafia-istituzioni. Non è un'istituzione anche il Comitato interministeriale per la sicurezza? Le risposte che lo Stato dà nel contrasto alla criminalità mafiosa non sono soltanto le leggi, le risposte dalla magistratura, ma sono anche tutte le attività di impulso che vengono date alle diverse articolazioni dello Stato nei vari settori. Dai verbali del Comitato (non so se siano pubblici o segreti: probabilmente sono segreti, ma possiamo acquisirli, io credo) si potrebbe ricavare se dal Governo siano state date istruzioni adeguate alle forze dell'ordine o se invece si rimane nell'inadeguatezza e nell'ambiguità. Insomma, il panorama, a mio avviso, onorevole presidente - mi rivolgo a lei anche come relatore - deve farsi carico di molti aspetti, di molti più interrogativi di quelli che sono affrontati, perché lo scenario è più complesso e credo più inquietante di quello che risulta dalla relazione. Questo è il punto, onorevole presidente: è più inquietante! Ci sono stati momenti della nostra storia nazionale che hanno visto l'opera di contrasto alla criminalità mafiosa in grave difficoltà. Dobbiamo riconoscere che forse non lo abbiamo compreso, come istituzione; vi è stata una difficoltà di comprensione del fenomeno e quindi una difficoltà di delineare la strategia istituzionale nel contrastarlo. Era necessario - l'ho già detto prima, ma vorrei tornare un momento su questo punto che è molto importante - in certi momenti superare le garanzie dello Stato di diritto di fronte ad emergenze che continuavano ad esplodere attraverso fatti di sangue gravissimi, omicidi, assassini. Peraltro, ci rendevamo conto in Parlamento di tutte le insidie che per lo Stato di diritto la legislazione di emergenza comportava. PRESIDENTE. Voglio ricordarle, onorevole Fumagalli Carulli, che ha quasi esaurito il suo tempo. Le rimane qualche minuto. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Mi dispiace, ma ho molte altre cose da dire. Chiedo a un collega se... Ieri ho sentito che parlavano... PRESIDENTE. Venti minuti! OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. ... molto più a lungo. PRESIDENTE. I tempi sono quelli. ACHILLE CUTRERA. Tutti abbiamo problemi di tempo. Oggi è una giornata particolare. PRESIDENTE. Comunque, onorevole Fumagalli Carulli, il tempo è esaurito. Veda lei... OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Chiedo ai colleghi se mi lasciano proseguire ancora perché... ACHILLE CUTRERA. Se vogliamo rinviare la seduta, non ho nulla in contrario, ma i tempi di oggi sono problematici per tanti. PRESIDENTE. Le do altri cinque minuti, onorevole Fumagalli. Pag. 1710 OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Signor presidente, sono dispiaciuta di questo perché la complessità dell'argomento è tale che non possiamo limitarci così ad un dibattito... PRESIDENTE. Mi scusi, lei ha esaurito il suo tempo. I tempi sono stati stabiliti dal regolamento della Camera e da tutti quanti noi: li abbiamo decisi insieme. Lei può integrare il suo intervento anche con un documento scritto, anzi le sarei grato se lo potesse fare. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Non l'ho scritto, l'intervento, altrimenti lo farei. PRESIDENTE. Può anche mandarlo domani, eventualmente per fax. Stiamo perdendo tempo inutilmente: continui il suo intervento, che magari contempereremo con altri interventi. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Mi dispiace, onorevole presidente, perché avevo varie osservazioni molto complesse da fare. Vorrei almeno puntualizzare che il nostro giudizio politico non può appiattirsi sul giudizio politico dato dai pentiti. Questa è la sensazione che io ho leggendo parte della relazione: tutto mi sembra più misterioso, tutto più intriso di veleni. Credo che la relazione debba scavare più in profondo. Mi sono fatta portare questa mattina, onorevole presidente, i verbali del Consiglio superiore della magistratura con l'audizione del giudice Falcone, che a mio avviso è un punto di essenziale importanza per la comprensione del fenomeno mafioso. Chiedo alla pazienza dei colleghi di lasciarmi almeno esporre questo punto. ACHILLE CUTRERA. Data l'importanza delle argomentazioni, sarebbe forse più opportuno fissare un'altra seduta, ad esempio lunedì. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Purtroppo non posso venire. Sai che verrei ben volentieri. PRESIDENTE. Comunque, onorevole Fumagalli Carulli, ha esaurito il suo tempo. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. No, non ho esaurito. PRESIDENTE. Non gli argomenti, il tempo! ROMEO RICCIUTI. Rinunciamo ad un altro intervento del nostro gruppo: ne abbiamo quattro, ne svolgeremo solo tre. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Allora facciamo così: il mio gruppo rinuncia ad un intervento e vado avanti io. Ringrazio i colleghi per la loro disponibilità. PRESIDENTE. E' una composizione un po' libanese, però... va bene. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Onorevole presidente, vorrei chiedere a tutti i colleghi di questa Commissione di leggere i verbali del Consiglio superiore della magistratura della seduta del 15 ottobre 1991, ore 9,30. E' un'audizione drammatica del giudice Falcone, convocato davanti al Consiglio superiore della magistratura, a fronte di osservazioni fatte in un memoriale da Orlando, Galasso, Mancuso, oggi deputati della Rete: sono quelli che lo accusavano allora di tenere le prove nel cassetto. Un consigliere gli domanda come mai Orlando lo attacchi, in quale occasione i rapporti tra Orlando e Falcone, fino allora ottimi - c'era la famosa "primavera di Palermo" -, si siano guastati. Anche Ayala ricorderà questo problema. MASSIMO BRUTTI. Ricordiamo anche quello che lei scriveva qualche tempo prima! OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. E Falcone si sfoga lamentando che l'Unità si allinei con la tesi dell'insabbiamento. Falcone, dice: "l'Unità, preferì insabbiare Pag. 1711 tutti". E Falcone ricorda la frase di Enzo Biagi: "Si può uccidere anche con la parola". Un consigliere legge il memoriale che ricorda che nel giugno 1990 è stato richiesto ed ottenuto dalla procura di Palermo un mandato di cattura contro Vito Ciancimino, aggiungendosi sempre nel memoriale: "Come era prevedibile, il provvedimento, superato il clamore della stampa, è stato revocato e Ciancimino è stato rimesso in libertà". Il consigliere dice di avere chiesto a Galasso il significato di quel "prevedibile". La risposta è che era fragile la motivazione, quasi un mandato ad pompam. Falcone risponde che la revoca era stata pronunciata dalla Cassazione ma - ed è questo un punto importante - che i colleghi credono a questa indagine, se è vero, come è vero (è a pagina 89-90 dell'audizione Falcone, per chi voglia andare ad approfondire), che i giudici hanno chiesto il rinvio a giudizio di Ciancimino. Soggiunge: "Questo mandato di cattura" (anzi Falcone dice: " No, è un'ordinanza di custodia cautelare, non è un mandato di cattura") "non è piaciuto perché dimostra che anche quando era sindaco Orlando la situazione degli appalti continuava ad essere la stessa e Ciancimino continuava ad imperare sottobanco. Difatti, sono stati arrestati non solo Ciancimino, ma anche Vaselli, factotum di Ciancimino per le attività imprenditoriali". Falcone conclude: "Devo dire che probabilmente Orlando ed i suoi amici hanno preso come un'inammissibile affronto alla gestione dell'attività amministrativa del comune un mandato di cattura che in realtà si riferiva ad una vicenda che riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo". Insomma, in queste pagine Falcone scopre che dietro gli appalti al comune di Palermo all'epoca della gestione Orlando c'era Ciancimino, e poi tutta la vicenda della COSI e della SICO viene indicata nelle pagine successive (sulla quale mi dispiace di non potermi soffermare per ovvie ragioni di tempo). Così come più avanti, sul terzo livello, Falcone dice: "Magari ci fosse un terzo livello!". Ancora più avanti - devo andare proprio per cenni, e mi dispiace di non poter leggere i verbali dell'audizione del giudice Falcone - a proposito degli attacchi che gli vengono rivolti da Orlando, da Galasso, insomma dalla Rete (perché oggi questi sono parlamentari della Rete, mentre allora erano personaggi che facevano politica in altro modo), si oppone dicendo: "La cultura del sospetto" (ricordate, onorevoli colleghi, che l'onorevole Orlando dice sempre: "La cultura del sospetto è l'anticamera della verità") "è l'anticamera del khomeinismo". E in polemica con Orlando e compagni afferma: "Se mi fossi comportato come loro, avrei dovuto dire che prima di interrogare Pellegriti", il famoso pentito, "ci sono state tutta una serie di strane frequentazioni del personaggio, poi vi sono stati i convegni carcerari in cui certe persone hanno incontrato Pellegriti". Queste sono parole che io ho ripreso ed ho riscritto proprio dalla voce, purtroppo ormai mancata, di Falcone. GIUSEPPE MARIA AYALA. Sono processuali queste cose... OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Sono riprese dall'audizione... GIUSEPPE MARIA AYALA. Lo racconta Falcone ma c'è un riscontro processuale. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Vi sono riscontri processuali, dice il collega Ayala. E più avanti Falcone dice altre cose in quella stessa audizione drammatica, onorevoli colleghi. Giustamente, prima qualcuno mi ha ricordato che avevo criticato Falcone. Certo, prima l'ho detto, onorevole presidente. Io stessa criticai certi atteggiamenti di Falcone, ma rileggendoli adesso rimango ancora più colpita quando dice: "I sospetti sono stati lanciati, non si può andare avanti in questa maniera. Questo è un linciaggio morale Pag. 1712 continuo". Questo dice Falcone a proposito delle accuse rivolte contro di lui. E aggiunge: "Io sono in grado di resistere ma altri colleghi un po' meno" (queste parole mi sono venute in mente quando c'è stato il suicidio del pubblico ministero Signorino!). "Io vorrei", dice Falcone, "che voi vedeste che tipo di atmosfera c'è per adesso a Palermo; facendo in certa maniera, le conseguenze saranno incalcolabili, ma veramente incalcolabili!". Signor presidente, onorevoli colleghi, ho voluto riprendere questa parte dell'audizione drammatica - dico drammatica e invito tutti a leggerla - di Falcone davanti al Consiglio superiore della magistratura perché un aspetto della lotta alla mafia è anche quello culturale: non è soltanto il contrasto, attraverso leggi, provvedimenti, attraverso l'azione della magistratura, della polizia e delle istituzioni ma è anche l'aspetto culturale. E con questo vorrei concludere: ma voi ritenete che con la cultura del sospetto si possa per davvero pensare di combattere - non dico sconfiggere - in modo leale e visibile, in modo che sia almeno minimamente vincente un fenomeno tanto inquietante come la mafia? Anche di questo vorrei si parlasse nella relazione. Ringrazio il collega che mi ha dato la possibilità di concludere il mio intervento, anche se, purtroppo, ho dovuto sacrificare altre cose: mi ero appuntata diversi spunti, li accenno solo brevemente in conclusione. Tutta la questione di Di Pisa resta un enigma, un punto interrogativo lasciato dalla scorsa legislatura e dalla precedente Commissione antimafia e che resta ancora adesso. Rimane tuttora oscura la vicenda del corvo. Di Pisa aveva avviato proprio l'inchiesta su COSI e SICO. Va ricordato anche questo... PRESIDENTE. Aveva chiesto l'archiviazione. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Sto facendo una valutazione politica, non mi addentro nei passaggi giudiziari perché altrimenti dovrei dilungarmi anche su altri aspetti. MASSIMO BRUTTI. Se l'onorevole Fumagalli fosse stata presente al dibattito di ieri, saprebbe che è stata chiesta l'acquisizione di quel fascicolo per vedere chiaro. L'ho chiesta io. OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Mi fa piacere, perché non so quale sia stata la vicenda, che qualche altro collega lo abbia fatto. Ma quello che io ricordo è che proprio quell'indagine, così inquietante, venne avviata prima da Di Pisa, poi, credo, da Falcone. Non ricordo se se ne occupò prima l'uno o l'altro, comunque se ne occuparono entrambi. PRESIDENTE. Onorevole Fumagalli, sta rischiando di dover ringraziare un terzo collega! OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. So che ci sono colleghi molto gentili, molto cavalieri, ma non voglio abusare oltre... PRESIDENTE. Quello è un terreno scivoloso! La ringrazio, onorevole Fumagalli. ANTONINO BUTTITTA. Ho avuto l'opportunità di leggere con molta attenzione la proposta di relazione e dico subito che ne condivido la sostanza. Penso anche che sia giusto e doveroso che la Commissione esprima la propria gratitudine al presidente per il lavoro assai oneroso che ha svolto. Si trattava, come è ovvio, di sintetizzare in un numero di pagine limitato eventi assai complessi che si sono succeduti nel corso di alcuni decenni. E come sempre accade quando si passa dalla realtà alla scrittura, si trattava di convertire la sintagmatica della storia nella paradigmatica della conoscenza e del giudizio: una operazione di necessità riduttiva, costretta a trascurare fatti e soggetti a torto o a ragione ritenuti Pag. 1713 marginali. E' proprio su questo che si possono quindi determinare valutazioni diverse. L'attribuzione di minore o maggior peso a questo o a quell'avvenimento, da parte dell'estensore, rispetto a quanto da altri diversamente giudicato, a mio giudizio non toglie nulla al valore e al significato dell'impianto generale della relazione. D'altra parte, come è detto, si tratta di una proposta e come tale soggetta a integrazioni e correzioni, ove ritenute opportune. A mio giudizio, per esempio, talune parti, in quanto impertinenti - nel senso di non pertinenti, anche se assai interessanti - potrebbero essere cancellate. Faccio un solo esempio: la notizia relativa alle tecniche omicide preferite dalla mafia - argomento assai suggestivo soprattutto per chi ama gli spettacoli truci - potrebbe anche essere cancellata, proprio perché non direttamente connessa al tema della relazione. Altre affermazioni meritano di essere meglio precisate. Per esempio, quella che si riferisce alle elezioni palermitane del 1987. Si dice che in quell'occasione a Palermo la mafia votò per il PSI e per il partito radicale. In questo caso, il referente Palermo è assai generico, perché può significare l'intera area urbana ma può significare anche les alentours. Proprio nei dintorni di Palermo, vi sono le grandi capitali della mafia (Bagheria, Monreale, Partinico). Ebbene, se, come è giusto fare, si va a controllare il voto di queste capitali della mafia, compresa Corleone, ci si accorge subito che quella notizia, se letta in senso estensivo, non è corretta perché proprio nelle grandi capitali della mafia - tranne a non volerla considerare un soggetto fragile ai fini del trainamento elettorale - il PSI ed il partito radicale non hanno avuto successo mentre lo hanno registrato, e grande, altri partiti. Per la conoscenza che ho di quegli eventi, penso che quella affermazione debba essere riscritta, nel senso che in alcuni quartieri di Palermo in effetti la mafia si comportò così, come è detto nella relazione, proprio per dare un segnale. PRESIDENTE. Quindi, la correzione che propone è di usare l'espressione "in alcuni quartieri", anziché "nella città". ANTONINO BUTTITTA. Sì. Bisogna, in sostanza, assumere con maggiore cautela certe verità che risultano dalle dichiarazioni dei collaboratori della giustizia. E' assolutamente vero - questa è una delle affermazioni più acute che ho trovato nella relazione - che la mafia, in quanto dispositivo coercitivo e violento per l'esercizio del potere, non si riconosce in assoluto in nessun partito ma, di volta in volta, in questo o in quell'uomo politico in quel momento detentore delle leve del potere. Non è altrettanto vero, come sostenuto da un pentito, che essa si pone o si poneva dei limiti ideologici: il sostegno - mi dispiace dovere deludere l'onorevole Matteoli - che la mafia diede ai diversi governi Milazzo ne è una prova tranciante. A questo proposito, poiché conosco bene quel collegio, consentitemi di correggere una affermazione che ho appena sentito relativamente ai comportamenti della mafia nel collegio Bagheria-Corleone. In tale collegio, per mia memoria - ed è una memoria lunga, visto che ho i capelli bianchi - la mafia ha sempre votato per i candidati della DC e del partito repubblicano. Dunque, quanto è stato detto a proposito di certe eventualità in ordine a candidature di altri partiti, è notizia sicuramente da non assumere come concreta e seria. Secondo me, per questo aspetto si pone un problema di approfondimenti necessari, anche se trovo che in buona sostanza, per ciò che attiene ai comportamenti politico-elettorali delle organizzazioni mafiose, la relazione percorre una strada assai diritta, chiara e lucida che è, in sostanza, la strada maestra che la mafia ha percorso, come soggetto politico, da alcuni decenni a questa parte. Pag. 1714 Trovo che la relazione dia una rappresentazione del tutto esaustiva del fenomeno mafia per ciò che riguarda la sua dimensione storica, non solo di una storia riferita ad eventi lontani nel tempo. Al contrario, manca a mio giudizio un'analisi della sua struttura verticale: mentre la dimensione orizzontale, cioè quella diacronica, è rappresentata in modo esaustivo, la struttura verticale del fenomeno non è sufficientemente chiarita. PRESIDENTE. Potrebbe specificare meglio questo aspetto? ANTONINO BUTTITTA. A mio avviso, la relazione avrebbe guadagnato molto in spessore se avesse tenuto conto della differenza esistente tra organizzazione mafiosa e società mafiosa. La prima è la manifestazione strutturata e criminale della seconda; la società mafiosa è invece una cultura, con i suoi valori e le sue regole, un sistema di segni ampiamente partecipato - ahimé! - da vasti strati della società siciliana. Hanno necessariamente dimensione, valore, peso politico, e anche penale, diverso, i rapporti tra soggetti politici, professionali e burocratici operanti su ciascuno di questi due diversi livelli. Pone un problema anche l'accertamento della più o meno organicità o episodicità di tali rapporti. Si tratta di un fatto di non poca rilevanza, a mio giudizio, che impone approfonditi accertamenti prima di arrivare a conclusioni definitive in ordine all'identità ed al ruolo dei rappresentanti politici sospettati, a torto o a ragione (secondo me, a ragione), di connivenze mafiose. Penso che lo Stato debba tenere un diverso atteggiamento rispetto ai due livelli del fenomeno. Nei confronti del primo (dico cose ovvie, perché vi è tutta una letteratura meridionalista alle spalle) bisogna continuare a rafforzare gli strumenti repressivi, tanto a livello legislativo quanto sul piano strumentale. Riguardo al secondo, bisogna operare attraverso scelte di politica economica diverse da quelle tradizionali, tali da modificare radicalmente i meccanismi della produzione ed i connessi assetti sociali. Ripeto: dico cose ovvie, visto che, da Colajanni in poi, la letteratura meridionalista più avanzata si è orientata in questo senso. In sostanza, la mafia è non solo un fatto criminale ma anche una realtà sociale e culturale. Contro i criminali valgono le manette e le carceri; per modificare e correggere una società e una cultura, occorrono - com'è ovvio - strumenti diversi. Al di là delle diverse valutazioni su avvenimenti e soggetti, voterò comunque a favore della relazione nei tempi e nei modi che la presidenza riterrà opportuni. Trovo tuttavia francamente odiosa l'implicita equiparazione tra partiti e massoneria. Mi riferisco a quella parte della relazione nella quale si rivolge un analogo invito, ai partiti ed alla massoneria, a purificarsi, a purgarsi. Implicitamente, questo invito mette sullo stesso piano partiti e massoneria. I partiti hanno un riconoscimento costituzionale ed hanno il merito non solo di avere garantito l'esercizio delle libertà democratiche nel nostro paese, ma di averne accompagnato anche il progresso economico e sociale. Le diverse obbedienze massoniche, come filosofia e come pratica, si pongono oggettivamente, anche al di là delle intenzioni di alcuni loro affiliati, al di fuori della Costituzione. In un certo senso e per certi aspetti, esse hanno caratteristiche analoghe a quelle delle diverse famiglie mafiose. Per esempio, quello che il principe Kropotkin chiamava il "mutuo appoggio" rappresenta una condizione che gli affiliati creano tra di loro per il conseguimento di potere e di profitti. Inoltre - ed ho concluso - il non avere esaminato il sistema bancario e finanziario, all'interno del quale - non solo quindi nella sfera politica - si sono saldati i rapporti tra mafia (almeno nel suo aspetto di società mafiosa) ed esponenti politici, costituisce a mio giudizio una lacuna ai fini dell'accertamento delle relazioni e delle connessioni strutturate tra mafia e politica. Si tratta di una lacuna che spero, in questa o in una prossima occasione, possa essere colmata. Pag. 1715 UMBERTO RANIERI. A me pare che la relazione proposta dal presidente Violante contenga una ricostruzione convincente dei processi che hanno determinato il particolare intreccio tra politica e mafia nel corso dell'ultimo cinquantennio. Certo, la discussione aiuterà a precisare e migliorare un testo il cui impianto appare comunque rispondente agli interrogativi ed alle domande che insorgono intorno a questo nodo drammatico della storia italiana. Considero la relazione un documento severo e sobrio, che non concede nulla né a ricostruzioni demagogiche o semplicistiche del rapporto tra mafia e politica né a sottovalutazioni o reticenze. Per la verità, non ho colto nella relazione proposta dal presidente Violante l'equazione di cui ha parlato l'onorevole Fumagalli. Credo, del resto, che una simile equazione sia estranea alla cultura del presidente, il quale ci ha ammonito a non indulgere a semplificazioni. Nessuno di noi pensa che la prima Repubblica si sia fondata e costruita sul rapporto con la mafia, né fino agli anni settanta né successivamente. La parte politica cui appartengo ha sempre rivendicato, anche in momenti difficili della storia civile e politica italiana, il segno che nell'evoluzione del nostro paese è stato impresso dal movimento operaio, mettendo in rilievo il procedere anche se faticoso della crescita civile e sociale dell'Italia. Non vi è dubbio, tuttavia - e si tratta di un aspetto che non può sfuggire all'intelligenza dell'onorevole Fumagalli -, che le classi dirigenti di questo paese, la classe politica di governo (in una prima fase nel clima di un mondo diviso, ma successivamente - e qui le responsabilità si infittiscono - quando la lotta politica in Italia non si è svolta più tra mondi contrapposti) non hanno costruito un argine sufficiente rispetto all'espansione ed alla diffusione dei fenomeni criminali e delle forme di convivenza tra settori della politica e criminalità. Appartiene ormai alla ricerca storica più avanzata, evoluta e documentata di storici italiani e stranieri che hanno meditato sulla vicenda del nostro paese, la ricostruzione delle responsabilità di una classe dirigente che ha in larga misura subìto il progredire del fenomeno criminale, gli intrecci ed i condizionamenti da esso esercitati sulla politica, e che ha coltivato l'illusione di contenere e, in certe condizioni ed in particolari congiunture, di strumentalizzare tale fenomeno. Penso che tutto questo faccia ormai parte di una riflessione comune, costituisca un punto di approdo della coscienza del nostro paese. E' ormai diffusa la consapevolezza del ritardo inaudito e della debolezza dell'iniziativa legislativa tesa a contenere fenomeni mafiosi, nonché della persistente chiusura dei gruppi dirigenti italiani verso fenomeni sempre più macroscopici di connessione tra politica e criminalità. Del resto - diciamo la verità - non saremmo giunti a questo punto se non vi fossero state simili responsabilità. Credo che la relazione al nostro esame possa costituire anche un segnale utile per un paese scosso e tormentato, qual è l'Italia dei nostri giorni. Considero importante che dal cuore del Parlamento, un Parlamento sottoposto al fuoco di fila di una critica spesso distruttrice, la Commissione antimafia parli il linguaggio severo espresso dalla relazione, essa indica che vi è la consapevolezza del punto cui è giunta la situazione e, insieme, esprime la volontà di intervenire con decisione dal punto di vista legislativo, dell'iniziativa politica e della riflessione autocritica della politica. Penso che dalla relazione dovremmo trarre, il Parlamento dovrebbe trarre (così come è avvenuto anche nelle fasi successive alla pubblicazione di altri impegnativi documenti della Commissione antimafia) lo stimolo e le idee per affinare ulteriormente la produzione legislativa contro i fenomeni criminali. Anche la legge Rognoni-La Torre giunse al culmine di un'intensa ricerca ed indagine sul fenomeno criminale e sugli intrecci tra politica ed istituzioni. Sono sempre più dell'avviso che, insieme alla legislazione repressiva ed a quella che aiuta il procedere dell'investigazione in modo più Pag. 1716 penetrante, oggi vi sia l'esigenza di una legislazione sociale e in particolare di promozione della funzione educativa dello Stato. Si tratta in sostanza di concentrare mezzi, risorse e personale nelle parti del paese più esposte ai fenomeni criminali, per contrastare una cultura della violenza, dell'abuso e della soperchieria che si è andata diffondendo, ridando un ruolo ed una funzione - mi limito soltanto a questo breve accenno - alla scuola pubblica nel nostro paese. In questo quadro - mi avvio alla conclusione - dalla relazione ricavo la necessità di una severa riflessione per tutti in questo paese: per la politica, la società civile, la cultura. Una riflessione della quale tutti debbono sentirsi parte, una riflessione autocritica sulle responsabilità e sulle cause che hanno determinato l'attuale situazione. Una riflessione, insomma, che deve coinvolgere un paese con una storia civile drammatica, un paese ancora pieno di misteri irrisolti - questa è la verità -, di stragi rimaste senza autori, di deviazioni. Credo che la riflessione debba riguardare tutti ma, mi permetto di osservare - e lo faccio avendo sempre contrastato ogni semplificazione e grossolanità nella ricostruzione delle responsabilità politiche - che essa debba vedere l'impegno in questo senso di un partito come la democrazia cristiana. Leggo di posizioni fieramente critiche verso la relazione; ho sentito anche nell'intervento dell'onorevole Fumagalli un accento fortemente polemico. Ecco, penso che invece una riflessione critica si imponga in questo partito. Qui vengo ad un punto delicato su cui, concludendo, vorrei esprimere la mia opinione. E' chiaro che discutiamo in un'atmosfera e in un clima turbati da episodi ed avvenimenti che segneranno la storia politica italiana, come la richiesta di autorizzazione a procedere per il senatore Andreotti. Capisco il turbamento, che è anche il mio; tuttavia si tratta di una personalità che riassume - come hanno scritto anche osservatori rispettosi del travaglio di un partito quale la democrazia cristiana - una certa concezione del potere. Credo che su questo punto, nella relazione non si conceda nulla alle tesi che danno per scontato imputazioni o condanne. Quello che tuttavia, in questa sede, non può essere ignorato è che per una personalità come il senatore Andreotti - la cui storia politica si incrocia drammaticamente con personalità e vicende complesse, oscure, drammatiche della storia nazionale - si impone a questo punto della vicenda del nostro paese la scelta per la magistratura di proseguire nelle indagini. Credo che non ci sia nel sostenere ciò alcuna indulgenza a pratiche odiose o a logiche come quella del sospetto che sarebbe l'anticamera della verità. Tutt'altro: sul sospetto non si costruisce nulla e credo che questa sia una logica del tutto contraria alla civiltà giuridica moderna ed evoluta. Infine, vorrei sottolineare l'esigenza che, su un altro drammatico fenomeno criminale che segna la storia del nostro paese, una ricerca equilibrata e seria come quella che ci ha presentato il presidente Violante possa essere predisposta: mi riferisco al fenomeno della camorra ed anche ai problemi - ahimé, evidenti - del rapporto tra questo fenomeno criminale e politica ed istituzioni. PRESIDENTE. La ringrazio molto, senatore Ranieri. GIUSEPPE MARIA AYALA. Dico subito che condivido pienamente la relazione che lei, presidente, ha predisposto, anzi mi complimento per il trasparente - perché dalla lettura risulta tale - scrupolo che in ciascun rigo di essa emerge e per la quantità di lavoro che è stata svolta. Ho dovuto soltanto fare mente locale sul fatto che questa relazione sostanzialmente nasce dalla vicenda Lima; così, riflettendo su questo mi sono reso conto che qualche cosa in più che avrei voluto leggere non c'era, perché la relazione è abbastanza mirata su quella vicenda. Benissimo: la voterò con totale adesione. Mi sembra anche estremamente importante che questo sia il primo documento Pag. 1717 politico incentrato sui rapporti tra mafia e politica, dei quali sino a qualche anno fa non si doveva neanche parlare e se qualcuno lo faceva o scriveva su questo si guadagnava critiche e veleni. Nel 1988, su Micromega, ho scritto un saggio in cui concludevo mettendo in evidenza quel che oggi finalmente tanti, tutti credo, abbiamo capito, che la soluzione del problema mafioso era anche repressiva ma fondamentalmente politica. Oggi, in un momento politico così delicato per la vita del paese, in cui registriamo la verosimilmente non più recuperabile crisi del vecchio sistema di potere al cui interno Cosa nostra è stata una componente organica - non occasionale, ma organica - mi sembra estremamente importante che in Parlamento si avvii sulla base di questo documento - che va ritenuto, secondo me, un primo e certamente importante punto di partenza sotto questo profilo - un nuovo modo di concepire e praticare la risposta politica all'aggressione mafiosa, e non soltanto, s'intende, alla sua componente criminale. Mi sembra che questo sia perfettamente realizzato dal contenuto del documento, che definisco misurato e consapevole. Un altro aspetto importante mi sembra quello che una volta per tutte si sgombra il campo da alcuni equivoci che spesso sono stati determinati da una scarsa conoscenza e consapevolezza del fenomeno ed anche da un po' di superficialità (per esempio, quella tendenza ad insularizzare la mafia come problema siciliano, come se non riguardasse tutto il paese); ma soprattutto credo che molte delle inerzie e dei ritardi vadano ricercati in una difficoltà di comprensione del fenomeno. Credo che la più grande eredità del lavoro svolto dal palazzo di giustizia di Palermo negli anni ottanta - oltre all'esempio di sacrificio di alcuni dei protagonisti di quegli anni - sia proprio aver offerto (anche alla valutazione politica, che diventa quella decisiva) un bagaglio di dati e di conoscenze su questo fenomeno che devono costituire - finalmente, direi - il supporto su cui orientare la nuova risposta politica nei confronti del fenomeno stesso. E allora, è importante, per esempio, che si mettano a fuoco alcune caratteristiche fondamentali della mafia: l'utilitarismo, l'assenza di fede politica, cioè l'orientamento del consenso e del rapporto con la politica in base ad un tornaconto e non certamente ad un supporto ideologico da offrire a questo o quello schieramento politico; tutto, ovviamente, in funzione del conseguimento del proprio potere, se non di un incremento di tale potere. Perché la finalità fondamentale di questa organizzazione è l'attivazione sempre più forte di un circuito con due componenti: potere e profitto. Perché dico un circuito? Perché a tanto maggiore potere corrispondono tante maggiori occasioni di conseguire profitto e tanto più profitto si consegue tanto più potere si riesce ad ottenere. Questa è la finalità essenziale. Ecco perché non ci sono due o tre mafie; la mafia è sempre stata la stessa: si è progressivamente adattata ai cambiamenti intervenuti nella società, nell'economia, nella politica. E questa è forse la più grande caratteristica della mafia: questa sua grande capacità di mimetizzarsi (anche se poi con la politica dei corleonesi questa mimetizzazione è venuta meno e questo forse è stato il grande errore politico-mafioso di Salvatore Riina, ma è un altro discorso) ma soprattutto di adattarsi ai progressivi mutamenti. Nella relazione, per esempio, è molto ben chiarito come un punto di svolta, anche per i suoi riflessi nei rapporti con la politica, sia stato costituito dall'inurbamento della mafia, che si impegnò alla fine degli anni cinquanta e sessanta nella grande speculazione edilizia, nel "sacco" di Palermo. Lì c'è un cambiamento, perché il rapporto con la politica "deve" diventare organico, posto che licenze edilizie, piani regolatori e tutto quel che costituisce supporto dell'occasione di conseguire grandi profitti è un supporto politico-amministrativo. Non è più la mafia del feudo, che può avere occasionali e utili rapporti con la politica. Da quel momento nasce - proprio con l'onorevole Lima e con Vito Ciancimino - la nuova configurazione del rapporto mafia-politica: Pag. 1718 un rapporto organico, che tale deve essere nell'interesse certamente della mafia ed anche nell'interesse - questo è uno dei grandi limiti che ha avuto la risposta politica dello Stato - di quegli esponenti politici che si rendevano strumento del conseguimento del fine dell'organizzazione mafiosa. Perché qui c'è un perfetto sinallagma. Non c'è neanche una scelta ideologica da parte degli uomini politici; non tutti gli esponenti politici che hanno avuto rapporti costanti con la mafia sono mafiosi, anzi, è stato escluso che lo stesso Lima fosse uomo d'onore (anche se Buscetta ha detto che lo era il padre, ma le colpe dei padri non ricadono sui figli). C'era questo reciproco rapporto utilitaristico che aveva due momenti fondamentali: per un verso, quello elettorale e per altro verso quello degli affari. Questi sono i due piani su cui c'è una precisa convergenza di interessi che alimenta e mantiene vivo il rapporto. Un altro passaggio della relazione che ritengo rilevante è quello in cui si ribadisce una cosa importante e che ha dato luogo a confusioni: la mafia ha sede a Palermo, è lì; sono gli affari che la portano anche oltreoceano e purtroppo in molte altre aree del paese, ma il centro decisionale è ancora a Palermo. E' molto opportuno che ciò sia stato chiarito. Secondo me, va subito precisato un altro aspetto, sul quale tempo fa mi sono pronunciato in un dibattito con una frase che vorrei ripetere perché credo sia condivisibile: il rapporto tra mafia e politica non riguarda un solo partito né tutto il partito. Altrimenti, si corre il rischio di poter interpretare equivocamente la relazione come una sorta di atto di accusa nei confronti della democrazia cristiana: questo non c'è assolutamente nella relazione. Né questo vuol dire che tutta la democrazia cristiana siciliana - non dico quella nazionale - sia intrisa di rapporti con la mafia. Non dimentichiamo che in Sicilia c'è stata anche la DC di Pier Santi Mattarella: non credo di dover spiegare ed aggiungere nulla. E' anche vero che all'interno di quel partito, per la semplice ragione che è stato il costante protagonista del potere in questo paese, per forza dobbiamo trovare la maggior parte delle relazioni. La mafia è sostanzialmente conservatrice ma non per una questione ideologica; è conservatrice perché non ha alcun interesse al sovvertimento di un sistema di potere all'interno del quale trova sempre più significative linee di penetrazione. Qualunque sovvertimento politico disturba. Per esempio, se volessimo leggere lo stesso omicidio di Salvo Lima come la risposta alla fine di un sistema politico che non riesce più - non che non vuole - ad assicurare le tradizionali risposte, anche quelle romane, avremmo la dimostrazione che la mafia reagisce con il massimo della violenza, con una sorta di rabbiosa violenza, non solo per saldare un conto ma anche alla presa d'atto che quel sistema sta cadendo e che un altro deve venir fuori. Che poi lo specifico movente possa essere legato, per esempio, alle vicende della sentenza della Cassazione sul maxiprocesso ci porta ancora una volta a sottolineare che questi omicidi hanno una valenza complessa, non sono omicidi con una matrice secca; c'è sempre un'occasione scatenante, che però si inserisce in un quadro di valutazioni spesso anche politiche (mi riferisco ai grandi omicidi). Devo dire francamente che ho trovato eccessiva la reazione della democrazia cristiana e mi auguro che venga ripensata, in una chiave che è forse oggi decisiva: non possiamo più, nessuno può più - anche in buona fede, s'intende - negare che esistono rapporti tra mafia e politica né negare cosa sia la mafia. Occorre oggi più che mai trasformare una volta e per tutte quello che è stato il grande limite della risposta dello Stato nei confronti della mafia: la mafia non è mai assurta a problema politico centrale, da affrontare in maniera quanto più omogenea e unitaria possibile, ma ha sempre costituito un terreno di scontro politico spesso strumentale. Adesso, tra le tante cose su cui dobbiamo aprire gli archivi di questo paese per richiuderli subito, credo vi sia la trasformazione Pag. 1719 della risposta dello Stato alla mafia in un problema politico al quale tutti dobbiamo concorrere. Il passato mette in evidenza responsabilità politiche notevoli; chi ne è stato il protagonista purtroppo piangerà le conseguenze (parlo - lo ripeto ancora una volta a scanso di equivoci - di persone e non di partiti). Ma questo documento deve essere visto soprattutto come una proiezione verso il futuro, specie in un momento così delicato della politica italiana. Si è discusso, signor presidente, sull'affermazione della mafia come soggetto politico. Va condivisa; possiamo discutere sul termine ma nella sostanza va condivisa. Se è vero come è vero che questa componente (al di là della volontà della stragrande maggioranza del mondo politico italiano - su questo non c'è dubbio - ma grazie alla connivenza di una sua minoranza) è diventata una componente organica del sistema di potere, immutabile - per le ragioni di politica internazionale che conosciamo e sulle quali è perfettamente inutile tornare -, come si fa a negare una soggettività politica, naturalmente di fatto? E' come il funzionario di fatto in diritto amministrativo, ai cui atti si riconoscono poi effetti giuridici. Quindi, negare una soggettività politica di fatto ad una realtà della vita di questo paese - soprattutto dal dopoguerra ad oggi, in cui questo è avvenuto - credo sia francamente un voler nascondere il cielo con la rete... (Commenti). Absit iniuria verbis... Non vorrei che qualcuno interpretasse male questa espressione. PRESIDENTE. Comunque, come espressione è molto bella. GIUSEPPE MARIA AYALA. Del mio intervento si ricorderà almeno questo. Però, non si metta in giro la voce che alludevo alla Rete, altrimenti Orlando ... Un accenno vorrei fare anche ad un'altra parte della relazione, che mi sembra molto importante, e lo faccio brevemente poiché il tempo a me concesso sta fatalmente scorrendo. Nella ricostruzione della risposta dello Stato a questo fenomeno, viene giustamente e molto opportunamente messa in evidenza quella che mi pare sia la risposta "a fisarmonica": io l'ho sempre definita basata sulla logica dell'emergenza, emergenziale. Ed ho sempre ritenuto che questo sia stato il grande limite perché accostare il termine emergenza (che sappiamo tutti quale accezione abbia nella nostra lingua) ad un fenomeno che è più vecchio dello Stato italiano, poiché la mafia esisteva già prima del 1861, è la più grande contraddizione in termini che si possa immaginare. Parlare di emergenza terroristica va benissimo: il terrorismo non c'era, è esploso, ha avvilito la qualità della vita democratica del paese; quell'emergenza andava affrontata in termini emergenziali, perché tale era. Ma è stato un limite l'aver affrontato o tentato di affrontare la mafia con una risposta emergenziale; perché è vera un'altra affermazione, cioè che la forza della mafia è tutta derivata dalla debolezza dello Stato, non è una forza autonoma: è ovvio, scontato ma è giusto, a scanso di equivoci, che sia chiarito. Ci sono tre date perfettamente individuate: strage di Ciaculli nel 1963, omicidio Scaglione nel 1971, omicidio Dalla Chiesa nel 1982; esse segnano tre momenti in cui la connivenza di fatto si spezza e si alza lo spessore della risposta dello Stato. Ma l'emergenza col passare del tempo si va allontanando e quello spessore, piano piano, torna al suo vecchio, bassissimo profilo. Poi c'è un'altra emergenza e di nuovo quello spessore si alza e poi si va abbassando. Questo è stato il grande limite della risposta, posto che quando la mafia non uccide vuol dire che è forte, con equilibri ben saldi al suo interno e con ben saldi rapporti con il mondo esterno, in particolare con quello politico, amministrativo, imprenditoriale e delle pubbliche professioni. La finalità della mafia non è uccidere; l'omicidio è uno strumento. Una volta era l'extrema ratio; dai corleonesi in poi tutt'altro, è diventato uno strumento ordinario di gestione e conservazione del potere. Mi riferisco non soltanto agli omicidi interni Pag. 1720 all'organizzazione (vedi quelli della guerra di mafia, che furono consumati a centinaia per consentire la scalata al vertice di Cosa nostra dei corleonesi, e di Totò Riina in particolare) ma anche e soprattutto agli omicidi cosiddetti eccellenti, quelli di servitori dello Stato, di uomini politici. L'omicidio è sempre uno strumento al quale si ricorre con la finalità del mantenimento del potere o della eliminazione di quello che è ritenuto un ostacolo per il progressivo incremento del potere dell'organizzazione. Desidero fare ancora un piccolo accenno, presidente, che non motivo perché recepisco in buona sostanza quanto ha detto il collega Buttitta. Anche io ritengo che sia un passo molto importante quello in cui si precisa, nella relazione, la struttura unitaria e verticistica di Cosa nostra, non fosse altro perché qualche anno fa ciò fu fonte di un grande equivoco che provocò - non voglio dire di più - enormi danni processuali, grazie ad una sentenza della Corte di cassazione. Interessantissimo ho trovato questo ulteriore arresto sull'evoluzione del rapporto in tema di appalti pubblici, nel quale direi che quasi si sublima quell'organicità del rapporto tra mafia e politica che nasce dalla speculazione edilizia degli anni cinquanta e sessanta e che poi si allarga e diventa quasi pervasivo, perché ci sono mafia, politica, pubblica amministrazione, imprenditoria e pubbliche professioni. Questo è il modello mafioso che viene esportato - noi esportiamo arance, limoni e modello mafioso - perché è un modello di grande successo. E' questa una delle spiegazioni del perché in aree, soprattutto del Mezzogiorno d'Italia, fino a qualche anno fa immuni abbiamo assistito e registriamo il proliferare di organizzazioni di tipo paramafioso; essendo un modello vincente, è stato importato, con effetti di inquinamento della vita sociale e politica e della tranquilla convivenza civile in quelle regioni che è perfettamente superfluo ricordare. Un ulteriore passaggio che ho apprezzato - in realtà ho apprezzato tutta la relazione, ma mi sembra di dover evidenziare in particolare qualche punto, per tentare di dare un mio contributo, per quel poco che può valere - è quello che riguarda il rapporto tra mafia e politica, tra struttura di Cosa nostra ed esponenti politici collegati. I politici hanno commesso il tragico errore, che qualcuno ha pagato con la vita, di credere che fossero loro a strumentalizzare la mafia. E' vero esattamente il contrario. In tutta la sua storia la mafia non ha mai accettato rapporti di subalternità con chicchessia, né con la massoneria né con la politica né con altre organizzazioni con le quali per ragioni di business di volta in volta ha ritenuto di entrare in contatto. Il primato della autonomia mafiosa non è mai stato messo in discussione, una subalternità non sarà mai rilevabile, neanche nei confronti della politica o di importanti esponenti politici che con essa hanno avuto rapporti. Credo che questo sia molto giusto e che riguardi soprattutto la vicenda dell'onorevole Lima. Con l'omicidio Lima, probabilmente, si sancisce la fine di un'epoca nei rapporti tra mafia e politica e l'attuale grande responsabilità politica di tutti noi è quella di dare subito corso alla nuova risposta politica che tutti i cittadini italiani attendono, anche quelli siciliani. Mi piace che anche questo nella relazione sia indicato in quel finale che ho trovato molto opportuno e per il quale, come siciliano, sono grato al presidente. E' la verità che tutti noi, che più abitualmente di altri frequentiamo la nostra amatissima e tormentatissima isola, registriamo. C'è una caduta di quel consenso al quale, con ragione, faceva cenno il collega Buttitta: era un consenso spesso più determinato dall'intimidazione, anche latente, che non da una sorta di adesione e nel quale vi erano anche grandi responsabilità dell'inefficienza della presenza dello Stato; però questa vasta area di consenso c'era. Dopo le stragi del 1992 ho visto persone camminare per strada e piangere e non è stata soltanto l'emozione e l'indignazione del momento; sono passati molti mesi e ancora, soprattutto a Palermo - parlo di Pag. 1721 questa perché è la città che più frequento ma lo stesso vale altrove - emergono una grande presa di coscienza e un grande rifiuto di questa sanguinaria e spietata organizzazione. Avviandomi alla conclusione, mi permetto di dire, signor presidente, che, sulla base dei miei ricordi, c'è una piccola ma importante correzione da fare. Non fu Nino Salvo a telefonare a Buscetta ma Ignazio. Nino Salvo scappò da Palermo con il suo yacht e se ne andò in Grecia, risulta da indagini che abbiamo fatto noi personalmente. Questa ricostruzione delle fonti attraverso le quali ristabilire un ordine dei rapporti tra l'onorevole Lima ... MASSIMO BRUTTI. Il matrimonio del figlio ... GIUSEPPE MARIA AYALA. Della figlia. Sì, sospese il matrimonio della figlia. Successe questo a Palermo: il 23 aprile 1981 venne ucciso Bontate e tale omicidio è un fatto di valenza impressionante. PRESIDENTE. Il regicidio, sì. GIUSEPPE MARIA AYALA. Il regicidio. L'11 maggio 1981 Totò Inzerillo. A questo punto Nino Salvo non capisce più niente, prende lo yacht e se ne va; Ignazio rimane. PRESIDENTE. E telefona a Buscetta. GIUSEPPE MARIA AYALA. Abbiamo tutta una serie di intercettazioni telefoniche ... No, non riesce a trovare Buscetta. Non riuscì mai a parlargli perché non aveva il numero di Buscetta in Brasile. Allora si rivolge a Lo Presti, che era il cugino, poi anche lui ucciso con la lupara bianca. Lo Presti telefona a Milano ad uno vicino a Buscetta - ho cercato questa mattina di ricordare il nome però ne sono passati migliaia e questo non lo ricordo più - che era amico di Lo Presti e che questi dava per scontato che avesse il numero di Buscetta. Costui gli dice che non ce l'ha però sa come trovarlo e ci sono tutte queste telefonate, che poi noi abbiamo trovato. Da lì inizia la vicenda giudiziaria dei Salvo. Ignazio Salvo è stato indiziato in base all'articolo 416-bis del codice penale e poi è accaduto tutto il resto che ben si sa: è stato condannato con sentenza definitiva dalla giustizia italiana; è stato condannato con sentenza definitiva da Cosa nostra, perché è stato ucciso l'anno scorso (anche lì per chiudere quel rapporto che aveva come caposaldo l'onorevole Lima). Devo riconoscere che le fonti sono perfettamente indicate ed è veramente equivoco lasciar supporre che questa parte della relazione si possa fondare su giudizi politici dei pentiti (cito testualmente l'onorevole Fumagalli Carulli). I pentiti non esprimono alcun giudizio politico. I pentiti raccontano fatti, circostanze e personaggi che ne sono stati protagonisti. Possono essere credibili o possono non esserlo; compito della magistratura e quello di verificare, attraverso la ricerca ed il ritrovamento di riscontri, se siano credibili. Dai fatti così come sono riferiti, quando sono credibili si possono, anzi si ha il dovere di far derivare conseguenze attinenti alla responsabilità politica che vi è connessa. Ma il giudizio politico non parte dal pentito. Il giudizio politico è un dovere quando dobbiamo assumere la responsabilità di tenere in vita, come mai si è fatto in questo paese - e con questo concludo - la profonda distinzione che deve esserci in una democrazia tra responsabilità politica e responsabilità penale. Sono due cose completamente diverse e mi spiace di dover dire che soprattutto il senatore Andreotti ha sempre teorizzato che a nessun comportamento possono essere collegate conseguenze politiche se non dopo la pronuncia definitiva della magistratura. Questo è stato uno degli strumenti attraverso i quali si è contribuito a conservare l'immutabilità di un sistema. Sul piano della responsabilità politica questo è estremamente grave; noi dobbiamo cominciare ad imparare ed a praticare questa profonda distinzione: è Pag. 1722 compito dei giudici accertare la responsabilità penale, o negarne la sussistenza quando non vi sono elementi; la responsabilità politica è di noi tutti e dobbiamo cominciare a costruire la nuova politica italiana stabilendo che chi politicamente sbaglia deve politicamente pagare. ROMANO FERRAUTO. Vorrei chiederle, presidente, quale sia l'ordine dei lavori. PRESIDENTE. Per intesa tra tutti i componenti la Commissione, ogni collega può parlare per venti minuti e sono ancora iscritti a parlare Galasso, De Matteo, Grasso, Cappuzzo, Frasca, Crocetta, Cabras, Cutrera e Robol. Va poi precisato che gli interventi sono di per sé proposte, delle quali gli uffici stanno prendendo rigorosamente nota. Se poi qualche collega - come so che hanno fatto l'onorevole Borghezio e l'onorevole Matteoli - ha intenzione di proporre in modo specifico di eliminare un'espressione o di inserirne un'altra, può farlo attraverso la presentazione di emendamenti. Poiché tali emendamenti vanno presi in esame, ritengo debbano essere presentati entro la giornata di oggi. MARCO TARADASH. Non sarebbe possibile presentarli entro lunedì mattina? PRESIDENTE. Credo si possa consentire la presentazione al massimo entro le 14 di domani. Proseguiamo ora nella discussione. ALFREDO GALASSO. Signor presidente, colleghi, ho qualche difficoltà nell'intervenire sulla relazione e soprattutto nel preparare - cosa che comunque ho fatto pur non essendo stato presente a Roma - gli emendamenti che mi sono sembrati opportuni. Vorrei svolgere un primo rilievo di carattere generale connesso a questa difficoltà: sarebbe, a mio avviso, opportuno che la relazione mettesse in evidenza quali siano le fonti rispetto alle quali si sviluppa questo ragionamento; abbiamo infatti ascoltato in Commissione antimafia alcuni collaboratori della giustizia o pentiti, i quali hanno fornito determinate informazioni, ma non abbiamo ascoltato (perché questo dovrà avvenire in una fase successiva) esponenti politici e di istituzioni rappresentative (parlo della regione, dei consigli comunali, nonché di colleghi parlamentari e così via). Le valutazioni che nascono dall'ascolto di questi collaboratori della giustizia si mescolano, com'è inevitabile, con valutazioni che il presidente ha tratto dalla sua esperienza, dalle sue informazioni e via dicendo. Risulta quindi molto complicato mettere insieme una serie di emendamenti perché, come si è detto inizialmente, mi è parso di poter considerare la relazione (e come tale la prendo) come uno spunto per una discussione di carattere generale che tra noi non si è mai svolta. Abbiamo infatti sempre posto domande ed ascoltato risposte, ma non abbiamo mai avviato una discussione su che cosa significhi mafia oggi (per dirlo in termini molto semplici). Si tratta di una discussione, che avrebbe dovuto e deve essere molto seria e approfondita, volta ad esplicitare in qualche modo quali siano le fonti di acquisizione, gli elementi presi in considerazione e quant'altro. Ho svolto questa premessa di carattere generale perché comunque considero la relazione, indipendentemente dall'esito che essa avrà nel lavoro successivo della Commissione, come un momento di passaggio rispetto ad un'inchiesta che non considero conclusa dal punto di vista istruttorio. Preciso subito, per una questione di correttezza, che le valutazioni che svolgerò, cercando di dare un senso agli emendamenti che ho presentato, nascono da un'esperienza decennale che è mia personale e assai poco, per la verità, da una discussione ed elaborazione in questa sede, che non vi è stata. Voglio quindi precisare che le cose che dirò non hanno mai avuto occasione di essere confrontate Pag. 1723 qui con i colleghi e solo parzialmente si fondano su elementi acquisiti in questa sede. Per quanto riguarda le ultime vicende, avrei provato (ho proposto un emendamento in tal senso) a metterle al centro della relazione, in quanto dovrebbero non essere limitate ad un paragrafetto di cinque righe ma costituire un punto di partenza: non è infatti usuale trovarsi di fronte all'incriminazione (perché di questo si tratta anche se la formula è quella dell'avviso di garanzia, ma noi sappiamo che cosa ciò significhi perché sappiamo che cosa vi sia dietro questo genere di dichiarazioni ed abbiamo visto anche la richiesta di autorizzazione a procedere) di un personaggio che è stato un pilastro della vita politica e istituzionale di questi anni ed ha integrato una visione politica nelle istituzioni per tanti anni da essere considerato un "pezzo" fondamentale di questo sistema politico. Mi sembra quindi che questo non sia un argomento marginale e rappresenti non la conseguenza ma il punto di partenza di un ragionamento. Lo dico perché le mie convinzioni sull'esperienza e sulla storia di questo personaggio sono abbastanza datate, in quanto risalgono indietro nel tempo, ma ciò non significa che un fatto di questo genere non ne determini un'attualità drammatica. La seconda considerazione consiste nel fatto che sono convinto (l'ho affermato in Parlamento in più di un'occasione) che commetteremmo un errore se continuassimo a ritenere (come mi pare si intenda in alcuni passaggi della relazione) che quando parliamo di mafia ci riferiamo esclusivamente a Cosa nostra, ossia ad un'organizzazione criminale feroce, temibile, che ha seminato (com'è scritto nella sentenza ordinanza di rinvio a giudizio del maxiprocesso) morte e terrore. Credo che proprio i fatti di questi ultimi anni (sto parlando di fatti accertati in sede parlamentare e in sede giudiziaria) dimostrino che in realtà quando parliamo di mafia dobbiamo intendere oggi un sistema che, intrecciatosi con il sistema della corruzione, ha determinato un profondo inquinamento della vita politica e di quella istituzionale, oltre che della vita economica e in alcuni casi anche dell'esercizio delle professioni, che opportunamente il presidente Violante ha messo in evidenza accanto alle altre attività. Ma questa, caro presidente e cari colleghi, è una concezione di fondo, non un punto emendabile: se discutiamo insieme per capire se riteniamo che la mafia oggi sia un'organizzazione criminale che traffica stupefacenti e armi e si è occupata in passato e si occupa nel presente di tutto ciò che può procurare profitto illecito, non vi è dubbio che quanto ci riguarda è il potenziamento dell'azione preventiva e repressiva degli apparati preposti a tale scopo (la polizia e la magistratura). In sede politica il compito è questo, ed eventualmente quello di "potare" alcuni frutti marci che si sono prodotti nel mondo politico. Non credo però che le cose oggi stiano in questi termini: ritengo infatti che la responsabilità politica sia primaria perché stiamo parlando di un sistema di potere che ha determinato la degenerazione grave e profonda della vita politica e della vita istituzionale; da lì quindi bisogna iniziare. Ho provato ad esprimere ciò con un emendamento di circa 10 righe ma desidero sottolineare che non è questione di emendamenti: dovremmo, a mio avviso, aprire una discussione e mi rendo conto che a questo punto dovrei citare una serie di esempi riferendo alcuni fatti e documenti, perché si possa avviare in questo senso una riflessione comune. Ho provato, nell'ambito degli emendamenti, a richiamare in maniera più precisa, per esempio, la vicenda di Aldo Moro, sulla quale vi è qualche richiamo; se riferiamo le audizioni dei collaboratori della giustizia possiamo benissimo riferire che essi hanno sostenuto che in sede politica o per ragioni politiche è stato sconsigliato a Cosa nostra di tentare di salvare Aldo Moro. Ho predisposto quindi un emendamento che fa riferimento a questo genere di vicenda, come ci è stata riferita. Pag. 1724 Sul piano del rapporto di Cosa nostra con Lima e poi con Andreotti, ho specificato quali siano le cose che sono sempre state dette rispetto ai collaboratori della giustizia; la mia idea è quella di una funzione di garanzia nei confronti di questo sistema di potere svolta in questi anni e a lungo dal senatore Andreotti e condivido il fatto (ho ascoltato il collega Ayala) che per tale ragione l'assassinio di Salvo Lima ha rappresentato una svolta, proprio rispetto a questo ruolo di garanzia. Sono convinto (ne ho avuto esperienza anche in una visita negli Stati Uniti) che i tre delitti, anzi quattro, sono strettamente collegati: mi riferisco a quelli di Salvo Lima, di Falcone, di Borsellino e di Salvo. Essi obbediscono ad un strategia che ha messo nel conto perfino la pesantezza dei costi che Cosa nostra avrebbe pagato. Si tratta quindi di una strategia di livello politicamente elevatissimo, probabilmente tuttora in corso. Se il punto di rottura è stato l'assassinio di Salvo Lima, ciò significa che quando parliamo di mafia non possiamo parlare soltanto di Cosa nostra; ritengo anzi che nessuno dei colleghi creda, in maniera assolutamente banale, che la ragione dell'assassinio di Salvo Lima sia stata esclusivamente il venir meno alla promessa dell'impunità in Cassazione. Certamente, quell'elemento ha pesato (io credo che abbia pesato molto) nello scatenare la decisione, ma quando parliamo di strategia molto elevata ci riferiamo ad obiettivi che vanno ben oltre, perché se ci si deve vendicare di una promessa non mantenuta si deve sapere qual è la conseguenza della vendetta e metterla nel conto della convenienza e del calcolo politico effettuato, pensando anche, come ha detto Buscetta, a ciò che accade dopo e probabilmente se non certamente, per l'esperienza di Cosa nostra, mettere già nel conto quale sia il livello di equilibrio politico che si instaura dopo la rottura che si è determinata. PRESIDENTE. Cioè dopo Lima. ALFREDO GALASSO. Dopo Lima, e quindi una volta caduta o colpita la garanzia di Andreotti o, per essere più precisi, del collegamento Lima-Andreotti. Venuta meno questa garanzia, che risulta agli atti, andava raggiunto un equilibrio politico diverso e questo non poteva non essere messo nel conto nel momento in cui si è deciso quell'attentato e gli altri che l'hanno seguito, beninteso dall'altra parte dello schieramento. Desidero svolgere ancora due considerazioni prima di concludere. Condivido il fatto che si debba distinguere tra responsabilità penale e responsabilità politica, ma credo che questo discorso vada espresso in maniera netta (provo ad esprimere il senso di qualche emendamento presentato) per evitare che si ingeneri l'equivoco secondo cui in questi anni vi sarebbe stata un'appropriazione di funzioni politiche da parte della magistratura. Ciò non è accaduto o non è questo il fenomeno significativo al quale possiamo fare riferimento; è avvenuto semplicemente che in un ordinamento democratico il circuito delle responsabilità deve essere assolutamente articolato: devono esservi la responsabilità amministrativa, quella politica, quella professionale e persino la responsabilità morale che, in questi tempi, non mi sembra l'ultima da considerare, mentre considererei per ultima la responsabilità penale. In questi anni è accaduto invece che l'unico circuito di responsabilità in qualche modo attivo è stato quello della responsabilità penale, nel quale hanno agito, provando a socializzare conoscenze secondo lo strumento del processo penale, magistrati spesso isolati. SALVATORE FRASCA. Spesso combattuti da altri magistrati. ALFREDO GALASSO. Combattuti spesso dai magistrati o dai poliziotti della stanza accanto. Quella funzione, non impropriamente (non mi è piaciuto, signor presidente, quell'avverbio) ma propriamente esercitata, di garanzia della legalità e di Pag. 1725 obbligatorietà dell'azione penale ha determinato una rottura degli equilibri politici, perché è evidente che le ripercussioni determinatesi hanno influenzato anche l'andamento della vita politica e della vita pubblica. E tanto si era reso asfittico questo circuito complessivo delle responsabilità penali che abbiamo assistito (e questo probabilmente andrebbe messo in evidenza) al fatto che molti dirigenti politici, anche autorevoli, con responsabilità gravi, hanno delegato alla magistratura il compito di far pulizia, così come si è rilevato quando si è detto che non era possibile allontanare nessuno da una carica politica o da una carica pubblica in funzione di quella necessaria autotutela che ogni formazione politica deve svolgere finché non c'è un'incriminazione sul piano giudiziario. Questo è stato detto più volte: ne abbiamo sentito qualche eco persino nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio a proposito dell'autorizzazione a procedere. Qualche eco si è avuta in questa occasione. Nulla di più grave e di più deleterio è dunque la riaffermazione della diversità dei campi di responsabilità e della necessità di dare il primato alla responsabilità politica: va detto in maniera molto chiara, perché qui non è che vi sia stata una confusione tra responsabilità penale e responsabilità politica, vi è stata semplicemente la mancanza di esercizio dei poteri di autotutela e dunque delle sanzioni di ordine politico. Un'ultima considerazione e concludo, presidente: credo che alcune cose vadano dette con più evidenza, ma anche con più nettezza, col coraggio di una scelta. Ho provato a formularla e mi riferisco particolarmente all'esperienza lunga, tormentata, difficile di quella che continuo a chiamare la primavera di Palermo. La messa insieme di soggetti e di esperienze diverse (che, io credo, da quello che ho sentito - poi leggerò i verbali: mi dispiace di non essere stato presente - la collega Fumagalli ha caricato di ulteriori significati e riferimenti, assolutamente privi di fondamento, per quanto mi riguarda) è la manifestazione di una difficoltà ad esprimere un giudizio politico. Io credo che il giudizio politico vada espresso, che ciascuno esprima il suo, ma va espresso! Perché non sono stati fatti di poco conto a mettere insieme - mi consenta, presidente - Martellucci, Insalaco, Orlando, la Pucci e non so chi altri. Ripeto, indipendentemente dai giudizi che si devono dare di ciascuno di questi, significa veramente accomunare un'esperienza lunga e articolata che ha avuto momenti diversi. Dunque, io ho l'impressione che questo aspetto vada inserito con molta evidenza: è un capitolo che va specificato. Non è possibile... (Interruzione del senatore Brutti). Scusami, Massimo, poi farai il tuo intervento. Sto dicendo che questa vicenda sembra non aver rappresentato nulla per la città di Palermo e per l'Italia, invece va messa in evidenza. Adesso non andiamo a fare la buccia sulla riga, come è scritto e come non è scritto: il senso è questo. Tanto è vero che ci sono state delle prese di posizione, che ho sentito qui dalla collega Fumagalli, molto dure in questa direzione, che considero completamente prive di fondamento, ma che ci sono state. Dunque prendo atto che ci sono state e quindi non intendo che questo argomento venga trascurato o coperto da formule equivoche. Un giudizio su questo deve essere dato, molto netto e molto chiaro. MARIO CLEMENTE MASTELLA. Lo chiediamo tutti, non soltanto tu! ALFREDO GALASSO. Ma perché sto facendo forse qualche rilievo? PRESIDENTE. Colleghi! MARIO CLEMENTE MASTELLA. No, per l'amor di Dio! ALFREDO GALASSO. Non ho capito perché c'è questa particolare eccitazione su questo argomento! MARIO CLEMENTE MASTELLA. L'eccitazione è già nel tono della tua voce, non di altri! Pag. 1726 ALFREDO GALASSO. No, il tono della mia voce: io mi sono riferito all'osservazione che faceva Brutti! ROMEO RICCIUTI. Censuratorio! ALFREDO GALASSO. Presidente, credo che questo sia il succo dei rilievi che volevo fare e che si riferiscono nuovamente, in conclusione, alla difficoltà iniziale rispetto all'andamento dei lavori della Commissione, pur con un non rituale apprezzamento per lo sforzo compiuto dal presidente, ma forse proprio i lavori della Commissione si sono riflessi in questa relazione, rendendo piuttosto difficile questo approccio. Per me questi emendamenti sono di fondo. Per questo li ho voluti illustrare. Non sono marginali, sono emendamenti di fondo. Per il resto, che non ha riguardo alle vicende che hanno a che fare con i lavori di questa Commissione (ripeto, mi dispiace di non aver potuto ascoltare l'intervento della collega Fumagalli) vedrò poi, all'esito della lettura del resoconto stenografico, di che cosa si tratti, anche se fin da adesso ho l'impressione che riguardi abbastanza relativamente i lavori della Commissione e, per quanto mi riguarda, assolutamente nulla. ALDO DE MATTEO. Signor presidente, desidero dichiarare sin dall'inizio un'apprezzamento sincero per il lavoro fatto dalla presidenza. L'ho fatto già in altre circostanze, mettendo in rilievo la qualità e l'intensità del lavoro di questa Commissione. Lo dico in modo particolare oggi, perché non condivido alcune interpretazioni che sono state date: mi sembra di cogliere molta enfasi che non è in sintonia invece con la serietà, l'intensità del difficile, per alcuni aspetti, confronto che si sta realizzando tra di noi. Non vedo quindi né un presidente sfiduciato da una parte della Commissione né un vicepresidente abbandonato dal suo riferimento politico. Questo richiamo ha una valenza politica, presidente, colleghi, perché trova ragione in un convincimento di fondo. Credo che il modo di presentare i lavori e soprattutto le loro conclusioni possa avere un effetto negativo rispetto alla delicatezza delle questioni che si affrontano proprio da parte della gente che ha fiducia in questo punto delicato delle istituzioni della nostra democrazia. Tra l'altro, ritengo - esprimo un parere molto personale - che su alcuni temi non vi possa essere una disciplina di gruppo. L'ho detto anche in alcune riunioni all'interno del mio partito. Ognuno, di fronte a questioni di questo tipo, rappresenta se stesso, si interroga, ragiona e sceglie, naturalmente secondo coscienza e in santa libertà. Ci sono temi che dovrebbero rimanere al riparo dallo scontro politico. L'ho sempre sostenuto anche in altre sedi, forse con un po' di utopia, un sogno che non desidero accantonare neppure in questa circostanza. Sugli obiettivi che sono stati annunciati nella sintesi che il presidente Violante ha presentato l'altro giorno, all'inizio di questa tornata di riunioni, io sono d'accordo. La lotta intensa e senza quartiere alla mafia; non sottovalutare questo rapporto mafia-politica, che c'è ed è una delle ragioni che ha consentito alla mafia finora di resistere; e soprattutto il nuovo che sarà condizionato dalle scelte che faremo su questo terreno, che il Parlamento farà su questo terreno. Quindi, particolarmente significativo trovo il richiamo della relazione laddove si dice che l'impegno contro la mafia, così come l'impegno contro la corruzione, nella politica e nell'economia, è parte essenziale del più generale impegno per il cambiamento del nostro paese. Allora, sarebbe secondo me un grave errore dividerci, anche se è necessario liberare la relazione e soprattutto il rapporto conclusivo che si costruirà da equivoci, integrando dove c'è da integrare, modificando dove lo riterremo, liberamente, attraverso un confronto, nella fase conclusiva di martedì. Pag. 1727 Ma quale attacco scriteriato e fazioso al presidente ed alla Commissione, come leggiamo sui giornali di oggi? Mi sembra che siano cose che non stanno né in cielo né in terra, soprattutto perché non rispondono alla realtà del nostro impegno, alla realtà di questo confronto politico. Presidente, avevo già detto in altre circostanze, ma ho preso atto che si è trattato di una decisione concordata a livello di Commissione, che do particolare rilevanza alle audizioni dei politici che sono programmate. Noi elaboriamo questo rapporto al termine di una fase del nostro lavoro: alle audizioni dei politici già indicati quando abbiamo determinato il nostro itinerario se ne aggiungeranno altre, perché altri nomi, probabilmente, dovremo inserire dopo questo confronto. Quindi, si tratta di sentire i sindaci, uomini politici nazionali, che potrebbero offrire qualche squarcio in più rispetto ad una realtà, quella politica, quella politica siciliana in modo particolare, che non è un tutt'uno omogeneo. Vedo che nella relazione si fa riferimento alle connessioni, che non riguardano soltanto i rami bassi della politica, ma anche questi vanno conosciuti in tutte le loro dinamiche. Uno spaccato lo cogliamo a livello generale attraverso le misure straordinarie adottate, così ben evidenziate nel rapporto del collega Cabras. Ed io vedrei valorizzato tale aspetto in questa relazione, nel senso di cogliere alcune indicazioni che in quel rapporto ci sono e che riguardano proprio i rami bassi, cioè i collegamenti territoriali del fenomeno mafioso. Il richiamo alle audizioni che dovremo fare serve a rafforzare il nostro contributo, che in questo momento riesco a vedere in due fasi (non sto proponendo di fare un rapporto fra alcuni mesi; vedo ormai alcune tappe nel nostro lavoro), al Parlamento, fondato sull'insieme del lavoro, sulle audizioni, su quanto abbiamo accumulato in questi mesi, avendo presenti sempre gli obiettivi generali e i tempi della politica che sono cambiati. Con questo giustifico anche alcune accelerazioni, perché so bene che i tempi della politica non sono quelli di cinque anni fa, di un anno fa, di sei mesi fa, di un mese fa. C'è un'accelerazione nelle cose, che poi comporta anche accelerazioni su altri terreni. Dobbiamo abituarci anche a capire, ad adattarci a queste necessità. E' quindi tenendo conto di questi obiettivi, di questa presa di coscienza del fenomeno e delle sue caratteristiche vere che si deve diffondere e dare una spinta decisiva ad una migliore organizzazione per combattere il fenomeno, sapendo che non ci sono zone franche. Questo è l'aspetto più importante. Se questi sono gli obiettivi generali, riterrei utile liberare la relazione di qualche elemento che può prestarsi ad equivoci, non appiattirla su alcuni dati che possono in un certo senso compromettere il grande significato dell'importante lavoro che stiamo compiendo. Condivido il richiamo che ha fatto il senatore Ferrara Salute nel suo intervento dell'altro ieri rispetto al significato che assume la valutazione sull'iniziativa dei giudici di Palermo mentre è in corso al Senato l'esame della richiesta di autorizzazione a procedere nelle indagini per il senatore Giulio Andreotti. Credo che il riferimento del collega Ferrara sia da accogliere ed anch'io naturalmente lo ripropongo. Vorrei poi svolgere tre osservazioni di merito per portare un modesto contributo a questo confronto: la prima riguarda la qualità della lotta alla mafia. Anche questo problema diventa interessante perché constato che vi sono giudizi non collimanti: io credo che siamo di fronte ad un'organizzazione criminale, la mafia, che per raggiungere i suoi obiettivi ricorre anche ai politici. Il mafioso cerca il potere per assicurarsi l'impunità, non cerca il democristiano o altri (non voglio citare altri partiti); cerca il potere - ripeto - per raggiungere i suoi obiettivi. La mafia non è un soggetto politico, neppure nella formula che citava poco fa l'onorevole Ayala; resta un soggetto criminale che inquina la vita politica anche quando distribuisce voti durante le competizioni elettorali. Queste sono le sue Pag. 1728 caratteristiche, che permangono. Ciò è importante e ci tengo molto a fare questa affermazione, ma su tale elemento vorrei anche confrontarmi, perché spesso ne discende una semplificazione che è terrificante, quella cioè che la mafia è la politica. Ciò ci porta veramente su un terreno minato in una fase in cui siamo tutti impegnati a rilegittimare la politica nel nostro paese. Il grande sforzo è quello di ridare dignità alla politica, restituendole il suo vero significato, che ha perso per ragioni che sono di diverso tipo. Credo che nel rapporto tra mafia e politica si debba compiere un esame ampio delle responsabilità e dei comportamenti. Inserisco anche l'elemento - non per ridurre, ma per ampliare il lavoro - dell'iniziativa dello Stato, costantemente inquinata e depotenziata nel suo cammino. Certo, vi sono ragioni che troviamo anche nelle diverse fasi del dibattito politico, forse vi è anche un eccesso di cultura garantista che ha permeato l'iniziativa dello Stato (è emblematico il dibattito svoltosi sui pentiti), ma questo quadro politico e culturale (che richiamo non in termini di giustificazione, ma di comprensione, aggiungendo che occorre fare un esame dei provvedimenti, delle politiche, delle rinunce e dei condizionamenti che non hanno permesso di andare a fondo nella lotta alla mafia), rappresenta un insieme di dati che non mi sembra emergano nella relazione. Probabilmente, quindi, questa parte del documento va arricchita ed ampliata. Il secondo elemento riguarda il rapporto tra mafia e partiti. Credo che non vi sia un rapporto diretto, ma indiretto, attraverso i singoli politici, e su questo è necessaria un'estrema chiarezza anche se molti amici sono intervenuti in proposito. Chiedo pertanto al presidente Violante se non ritenga opportuno modificare alcune righe della sua relazione, che non corrispondono certamente al suo pensiero, che è stato espresso in diverse occasioni e che mi sembra sia emerso anche nel corso del dibattito. Cito testualmente: "(...) non hanno mai riguardato tutti gli uomini o tutti i dirigenti di un singolo partito". Detto così sembra che vi siano delle eccezioni, che vi siano soltanto delle eccezioni. Probabilmente, la frase... PRESIDENTE. Ho capito, va rovesciata. ALDO DE MATTEO. ...va rovesciata per dare il senso di un concetto che era già stato espresso in modo inequivocabile in tante circostanze. PRESIDENTE. E' giusto. ALDO DE MATTEO. Se invece - e così non è - vi è la convinzione che siamo di fronte ad un intero ceto politico... PRESIDENTE. No. ALDO DE MATTEO. ...allora bisogna essere chiari perché questo potrebbe essere un punto di grave contrasto. Però, così non è e ne sono felice. Con questo stesso stile e con il medesimo rigore credo che dobbiamo guardare ad altre segnalazioni che pure sono emerse nel corso dei nostri lavori, in particolare dalle audizioni: per esempio, il pentito Messina ci ha parlato della Rete. Non abbiamo tratto conclusioni e bene ha fatto il presidente Violante a non trarne rispetto a questo riferimento. ALFREDO GALASSO. Ha parlato a che proposito? ALDO DE MATTEO. Ha parlato della Rete a proposito dei voti di San Cataldo. Faccio riferimento ad una audizione alla quale eravamo entrambi presenti e che quindi cito senza malizia e senza voler formulare su questo niente di... ALFREDO GALASSO. Me lo ricordo; sono completamente d'accordo. ROMEO RICCIUTI. Da oggi in poi per parlare della Rete chiederemo il permesso a Galasso! Pag. 1729 ALFREDO GALASSO. Sto dicendo che sono completamente d'accordo. PRESIDENTE. Quello che esprime l'onorevole Galasso è un consenso. ALDO DE MATTEO. Nella relazione si fa riferimento alle nuove formazioni politiche, ma come ipotesi, come tema presente rispetto agli scenari ed alla strategia che la mafia si è data, o si vuole o si potrebbe dare. Questo mi sembra un modo anche molto corretto per affrontare il problema, con l'obiettivo, sempre chiaro e determinato, di combattere la mafia ed i luoghi da cui essa in questi anni ha tratto linfa e sostegno. Il terzo riferimento riguarda un capitolo da integrare, o probabilmente da riempire, perché la relazione contiene una lacuna che a me sembra importante. Mi riferisco al capitolo sulla massoneria, che mi limito a citare perché ormai il tempo a mia disposizione è quasi scaduto. Abbiamo avuto anche a questo proposito qualche accenno nei colloqui, negli incontri tenutisi nel corso di qualche visita - anche il senatore Cabras ricorderà quello con il giudice di Palmi Cordova - ma il tema ritorna anche nelle audizioni dei pentiti, per la verità non sempre in termini molto chiari. A volte abbiamo avuto la sensazione che qualche pentito non avesse un'idea chiara di quali fossero le finalità della massoneria, ma si tratta di un tema che ritorna. Al di là, quindi, delle osservazioni dell'onorevole Buttitta su questa equiparazione tra partiti e massoneria, che condivido, credo che questo sia un capitolo da approfondire e da "riempire". In conclusione, invito la presidenza a chiarire nel testo conclusivo quanto si può chiarire, individuando un itinerario di ulteriore approfondimento. Sono molto interessato a questo dato, cioè non solo ad una relazione conclusiva del dibattito, ma ad un itinerario che ci consenta di percorrere il rimanente cammino. Credo che questo sia necessario per raggiungere un consenso ampio, che ritengo molto importante anche ai fini dell'efficacia del nostro lavoro. Sono quindi particolarmente lieto di alcuni giudizi che sono stati espressi. Il compito non è facile perché cercare la verità è un'impresa straordinaria; credo di poter affermare - lo dico almeno per me - di non vedere una democrazia cristiana in difficoltà su questo tema. Voglio affermarlo con grande libertà: non vedo il partito della democrazia cristiana in difficoltà; lo vedo anzi impegnato come gli altri per sradicare la mala pianta della mafia, certo in una situazione complicata (non è facile lavorare con un quadro politico come quello nel quale siamo inseriti), ma con lo stesso rigore e la stessa lealtà di tutti gli altri colleghi. GAETANO GRASSO. Condivido in pieno l'impianto e le argomentazioni proposte nella relazione al nostro esame, che giudico assai equilibrata, volendo esprimere con questo aggettivo non il raggiungimento di punti d'accordo, di compromessi anche su un terreno deteriore, ma il fatto che essa contiene giudizi e valutazioni a partire da fatti rigorosamente accertati. Credo che abbiamo l'esigenza di considerare - e quindi di approvare - questa relazione perché con essa possiamo finalmente porre dei punti fermi da cui procedere per avviare una riflessione. Intanto bisogna partire da queste valutazioni e da queste riflessioni e considerare la relazione un inizio: si apre una crepa e bisogna allargarla ulteriormente. Non vorrei, però, che artificiose drammatizzazioni od esasperazioni su tali questioni possano essere finalizzate ad impedire a questa Commissione di porre finalmente questi punti fermi. C'è la necessità politica (l'abbiamo sentito più volte), il bisogno di dare una risposta istituzionale con questo atto alle incompatibilità sopravvenute di cui si parla a pagina 8 della relazione. Vi è una necessità politica sul fronte dell'azione di contrasto alla mafia, perché un atto di questo tipo può aiutare ulteriormente Pag. 1730 quel processo che tenta di spezzare l'omertà nel nostro territorio. Vi è una necessità politica perché, al di fuori di ogni discussione, resta indubbio il fatto che per creare un nuovo sistema politico in questo nostro paese si debbono obbligatoriamente fare i conti da un lato con il rapporto tra mafia e politica e dall'altro con i problemi della corruzione e di Tangentopoli. A questo proposito, voglio richiamare due passaggi contenuti rispettivamente a pagina 8 e 28 della proposta di relazione su cui, a mio avviso, l'attenzione - anche degli organi di stampa - è stata, diciamo così, lieve. Rispetto a come la nostra attività e questa riflessione si collocano nella fase di passaggio che sta attraversando il nostro paese, mi sembrano molto opportuni i richiami ai pericoli concreti (a pagina 8 si parla di tentativi che potrebbero manifestarsi in modo violento, a pagina 28 di un riproporsi del terrorismo politico-mafioso). Vi è il pericolo di un'alleanza, di un'intesa tra gli sconfitti della corruzione e gli sconfitti della mafia. Lanciare un allarme su questo terreno è, secondo me, molto opportuno in un momento delicato come quello che attraversa il nostro paese. Dicevo che si deve avere una relazione da cui partire per porre dei punti fermi e procedere oltre. Vi sono a mio avviso molte questioni sulle quali la nostra azione come Commissione antimafia dovrà continuare. Voglio individuarne brevemente due: la prima è sia interna sia esterna al capitolo sulla massoneria. Abbiamo bisogno di sollecitare, avviare, procedere anche noi con i nostri poteri (azione che nella relazione viene posta come un punto fermo) all'accertamento di tutti quei livelli occulti di potere che ancora oggi esistono nel nostro paese e su cui ancora il livello di conoscenza è assai insufficiente. In secondo luogo penso che sia un errore ritenere che la questione dei rapporti mafia-politica e mafia-istituzioni possa esaurirsi in alcuni nomi perché il pericolo è che questi stessi nomi possano svolgere la funzione di capro espiatorio. Poiché su questo campo siamo agli inizi, non è male ripetere che tante, numerosissime sono le coperture politiche ed istituzionali ancora non venute alla luce e che è necessario emergano presto. Nel dibattito dell'altro giorno ed in quello di questa mattina ho sentito contrapporre la questione militare, o il livello militare della mafia, a quella politica. Qualche collega ha parlato della necessità di privilegiare il quartier generale come obiettivo dell'attacco e dell'azione di contrasto; questa mattina, il senatore De Matteo distingue la mafia come soggetto politico e come soggetto criminale, ritenendola soltanto soggetto criminale. Ritengo che questo sia un errore di valutazione: è impossibile distinguere all'interno del fenomeno mafioso i due livelli che si identificano sempre, si intrecciano; non è retorico richiamare la famosa espressione di Buscetta resa davanti alla nostra Commissione riferita alle entità con le quali la mafia entra in varie relazioni. Un'altra considerazione concerne un aspetto contenuto nella relazione riguardante quale sia il criterio per stabilire l'antimafiosità di un dirigente politico, di una persona, e se è possibile dedurre ciò dal fatto che egli ha approvato o votato importanti leggi repressive nei confronti della mafia. Qualcuno ha ritenuto, attraverso questo argomento, di potere procedere ad una difesa d'ufficio di esponenti politici della nostra Repubblica. A questo proposito mi tornano sempre alla memoria non le parole o le affermazioni di un pentito, ma le dichiarazioni di un ministro della Repubblica, l'allora ministro dell'interno Scotti, che in una intervista alla Repubblica, alla fine di giugno di quest'anno, commentava l'approvazione del decreto-legge dell'8 giugno 1992. In quella occasione il ministro Scotti sottolineava l'indifferenza di ministri, e del Governo in generale, di fronte al provvedimento che si votava in quel momento; in quell'intervista egli denunciava la situazione di solitudine e di isolamento che lo coinvolgeva in quanto proponente del provvedimento. Pag. 1731 Ciò che conta ormai, come ha sottolineato l'onorevole Ayala a proposito della risposta a "fisarmonica", è sempre ed esclusivamente non le cose scritte, ma la volontà politica di attuarle; purtroppo, in questa Commissione abbiamo discusso anche di altri esempi, come per esempio la legge antiracket. Ritengo che il riferimento del collega Galasso alla primavera palermitana vada fatto, nel senso che soprattutto nel rapporto tra mafia e politica quella stessa esperienza, indipendentemente dalle contraddizioni che ha avuto e dentro cui si è sviluppata abbia rappresentato - è innegabile - nonostante tutti i limiti, un fatto indubitabile di rottura per quella città e per la Sicilia. L'ultima osservazione riprende una questione sollevata dall'onorevole Tripodi nel suo intervento a proposito del sistema elettorale; ritengo che, indipendentemente dal sistema che adotteremo nel nostro paese, abbiamo ormai la conferma che la mafia riesce con grande elasticità ad adattarsi ad ogni sistema elettorale al quale sa piegare la propria strategia. UMBERTO CAPPUZZO. Signor presidente, ho ascoltato gli interventi dei colleghi ed ho letto con molta attenzione la sua relazione. Voglio sottolineare che, per la prima volta, abbiamo l'occasione storica di affrontare il tema scabroso del rapporto tra mafia e politica con il distacco che si addice ad una Commissione di così elevata qualificazione. Mi ricollego subito all'affermazione, che ritengo fondamentale, che lei ha fatto a pagina 12 della relazione, laddove sottolinea che: "La Commissione ritiene opportuno sollevare un doppio allarme, nei confronti delle forze di maggioranza perché accettino il principio di responsabilità politica, e nei confronti delle forze di opposizione perché tengano ben distinto il profilo della lotta politica, anche aspro, da quello della responsabilità politica". Ritengo - ripeto - questa affermazione quanto mai significativa, anche se probabilmente dovrebbe essere formulata in modo diverso, ma la verità è questa. La discussione di oggi non è l'occasione per un semplice dibattito politico o per la contrapposizione di schieramenti (i buoni da un lato ed i cattivi dall'altro), poiché è in gioco l'essenza stessa della democrazia. In momenti drammatici come questi, qualsiasi strumentalizzazione di parte o qualsiasi ambizione di soluzioni di tutt'altro tipo, potrebbero essere interpretati come tentativo di trovare una scorciatoia nella soluzione dei gravi problemi della nostra democrazia. A questo riguardo devo sottolineare che problemi analoghi si sono presentati anche nella democrazia americana; basta leggere quanto è stato riportato dalla stampa su presunti rapporti di Kennedy durante il meraviglioso periodo della sua presidenza; rapporti che lo fanno apparire legato in qualche modo alla mafia, o addirittura coinvolto nell'omicidio di Marylin Monroe. Ho citato questi esempi per sottolineare come sia difficile la vita delle democrazie, laddove esistono strutture organizzate come quelle della mafia, che incidono sulla vita sociale, ma non sono soggetti politici. Su questo sono d'accordo: guai se dessimo dignità di soggetto politico alla mafia, un riconoscimento che non abbiamo dato neanche alle Brigate Rosse, signori miei! Eppure lo pretendevano, ma abbiamo rifiutato di accettare la logica che si dovesse trattare da pari a pari. Sono soggetti criminali che si servono della politica. Signor presidente, al riguardo mi sembra veramente illuminante quanto Falcone, che - per la materia che siamo chiamati ad affrontare - è un riferimento concreto per noi - rispose ad un'osservazione di Criscuolo nella seduta, poc'anzi ricordata, del Consiglio Superiore della Magistratura. Egli ebbe a dire: "Per quanto riguarda il Ciancimino come vertice, so che non è il tuo pensiero, ma mi sembra che riecheggi una sorta di terzo livello da cui sono tormentato da anni. Non esistono vertici politici che possano in qualche modo orientare la politica di |P'Cosa nostra|P'; è vero esattamente il contrario e credo di averlo dimostrato in più Pag. 1732 occasioni. Il terzo livello, inteso quale direzione strategica formata da politici, massoni, capitani d'industria, eccetera, che orienta |P'Cosa nostra|P' vive solo nella fantasia degli scrittori, non esiste nella pratica. Esiste una situazione estremamente più grave" - e qui richiamo la vostra attenzione - "più complessa, perché più articolata". E' questa articolazione che dobbiamo cercare di capire, questo complesso di vincoli. E passo ora ad esaminare gli elementi costitutivi di tali vincoli. Falcone dice a Criscuolo: "Lo so che questo non è il tuo punto di vista" e, dopo la conferma di Criscuolo, Falcone aggiunge: "Non sono emersi altri uomini politici, oltre Ciancimino". Ma non mi interessa questo, mi interessa il problema del rapporto tra politica e mafia. Al riguardo mi sembrano particolarmente pertinenti le osservazioni dell'onorevole Buttitta laddove evidenzia la differenza tra mafia e cultura mafiosa. In verità ciò serve a capire quegli ambienti del nostro Meridione in cui tante volte la politica si sviluppa. Ciò premesso, sarebbe assai grave se utilizzassimo questa occasione per metterci su posizioni contrapposte, perché dobbiamo arrivare a soluzioni convergenti. E ritengo che ciò sia possibile. Signor Presidente, la relazione, pur pregevole, appare un po' ponderosa ed è anche male articolata, soprattutto per quanto concerne l'inserimento dell'evoluzione storica, che appare episodica, non articolata per tappe successive. Probabilmente sarebbe stato opportuno svilupparla a premessa della relazione; un'evoluzione storica che, peraltro, deve essere punteggiata da avvenimenti molto indicativi. Mi riferisco al primo dopoguerra, all'inserimento della mafia nel nuovo sistema democratico, all'importantissima |P'esperienza Milazzo|P', che segnò una svolta e fu un banco di prova. In quella esperienza la sinistra, che qui non aveva alcuna particolare propensione a favorire la mafia, ebbe a subire pesantissimi condizionamenti. Questo meriterebbe di essere evidenziato, perché quelle forze, che pure erano progressiste e rifiutavano la logica della mafia, ad un certo punto dovettero subire pericolose contiguità. Quindi, ritengo opportuno suggerire una riarticolazione, anche alla luce di quanto ha suggerito l'onorevole Imposimato, esaminando anche i rapporti tra mafia ed istituzioni. Ritengo che i rapporti tra mafia e magistratura, tra mafia e forze dell'ordine, tra mafia ed istituzioni in genere, tra mafia ed imprese produttive, tra mafia e aziende di credito - quest'ultimo aspetto importantissimo è forse sfuggito, ma è stato sottolineato da qualcuno prima di me - dovrebbero essere passati in rassegna partitamente. Mi chiedo quali motivazioni hanno costituito la base per la concessione di crediti da parte di elementi di potere nel nostro Meridione, quali motivazioni hanno influenzato scelte, assunte a suo tempo per quanto riguarda lo sviluppo del Sud e della Sicilia in particolare. Ritengo che la relazione contenga riferimenti accessori non pertinenti, come ad esempio gli accenni a regole di comportamento a livello familiare (fedeltà), o modalità di azione negli omicidi (strangolamento), che fanno perdere un po' di incisività, e che per me sono inutili, tanto più che ben altri comportamenti meriterebbero di essere evidenziati. Tra l'altro, è fondamentale il fatto che il mafioso esige che gli venga riconosciuta la sua qualifica in quanto "può", nel senso totale del potere. Un giornalista italiano molto qualificato ha detto - e ne convengo - che togliendo il saluto riverente espresso con "vo'scienza benedica" e con la "scoppolata" il mafioso è finito: questo è vero! Perché quello che si è subìto dipende soprattutto dall'avere accettato questa logica della riverenza e concepito il potere come possibilità di elargire favori, altro male che ha attraversato un po' tutti i partiti. Signor Presidente, mi sembra pericolosa, nella trattazione generale del fenomeno mafioso, la semplificazione che si potrebbe trarre dall'ammissione che in fondo la democrazia è stata mafia, e peggio ancora che si arrivi alla delegittimazione Pag. 1733 di un sistema politico democraticamente espresso. Vi sono alcuni punti della relazione che varrebbe la pena di modificare e questo secondo me potrebbe risultare fattibile. A tal fine, signor Presidente, vorrei anche sottolineare che se la mafia riesce ad essere un soggetto sociale che favorisce la politica e consente flussi di voti, razionalità d'impostazione e di trattazione avrebbe dovuto portare ad esaminare lo spostamento, la mobilità del voto in funzione di bacini di presenza della mafia. Un esame del genere sarebbe stato estremamente interessante. Forse è mancato il tempo, ma esaminando i bacini di presenza della mafia avremmo constatato che vi sono stati nel tempo consistenti spostamenti con riferimento a certi nomi. In tal caso avremmo avuto uno spaccato estremamente indicativo, ben altra indicazione rispetto alla relazione presentata, che per me è troppo blanda, mentre avrebbe potuto essere ancor più incisiva. Signor Presidente, voglio ricordare che la relazione sulle forze dell'ordine, di cui sono stato relatore nella precedente legislatura, in alcuni punti risulta molto più dura di quanto non lo sia questa, laddove si afferma, ad esempio, che l'autorità dello Stato è messa in pericolo per certi aspetti: si potrebbe arrivare al |P'punto di non ritorno|P' nel momento in cui la gente abbia percepito che è molto più comodo riferirsi alla mafia per avere sicurezza, anziché allo Stato. Signor Presidente, quali sono state le carenze dello Stato? Vengo ora ad un punto molto importante che riguarda i comportamenti di tutte le forze politiche nei riguardi dei provvedimenti più importanti relativi alla mafia. Un'analisi del genere avrebbe evidenziato per lo meno disattenzioni, omissioni, trascuratezze, connivenze o collusioni. Non voglio, per carità, enfatizzare queste ultime, ma chi sono stati coloro i quali hanno appoggiato certi provvedimenti e non altri? Signor Presidente, mi permetto di ricordare, poiché Lei era deputato anche nella passata legislatura, le sue giuste preoccupazioni nel momento in cui si dovevano assegnare all'Alto Commissario certi poteri, per quanto concerne, ad esempio, le intercettazioni telefoniche. Non possiamo dimenticarlo, ma da questo non traggo certo l'idea che Lei possa aver favorito o avesse l'intenzione di favorire comportamenti scorretti da parte di certe organizzazioni. Nel nostro Paese sono state portate avanti filosofie di fondo che devono essere evidenziate, perché questo è stato il motivo per cui la lotta alla mafia non è stata abbastanza efficace. Le omissioni sono gravissime e riguardano, ad esempio, i poteri sottratti alle Forze di polizia in campo investigativo preventivo, prima ancora che ci sia la notizia del crimine, cioè tutta l'attività informativa che è stata fortemente penalizzata. Le disattenzioni riguardano il garantismo di fondo che ha pervaso tutti questi anni. Personalmente in quella relazione, che ho ricordato, ponevo dubbi sulla validità del nuovo processo penale, avendo io una visione di tipo più restrittivo, forse perché condizionato dalla mia provenienza militare. Se si vogliono esaminare i rapporti tra mafia e politica, si deve mettere in risalto la sensibilità delle forze politiche in materia di lotta alla mafia, i comportamenti della Magistratura e delle Forze dell'Ordine e l'efficacia degli strumenti impiegati. Un'analisi di questo genere sarebbe molto interessante, così come molto interessante sarebbe passare in rassegna il comportamento delle forze politiche nei confronti del pool antimafia. Chi si è schierato pro o contro tale pool? Perché non mettere bene in evidenza... PIETRO FOLENA. Il partito comunista italiano è sempre stato a favore del pool. UMBERTO CAPPUZZO. Non parlo di forze politiche, non so neppure come siano schierati coloro che militano nella sua area in questo momento. Non lo so, non ho fatto un'indagine. PRESIDENTE. Si può fare. Pag. 1734 UMBERTO CAPPUZZO. Vorrei ricordare che Falcone è stato battuto tre volte, signor Presidente, ed è stato battuto con tre sconfitte nelle sue aspirazioni, che non erano ambizioni, ma rientravano nel quadro completo di un disegno strategico. La prima sconfitta fu la mancata nomina a consigliere istruttore. Quali forze si schierarono dalla parte di Falcone? E quali furono contro? Non è forse vero che Magistratura democratica non si schierò con i suoi... PRESIDENTE. Ma non è presente in Parlamento! UMBERTO CAPPUZZO. ...e ben due consiglieri su tre votarono Meli? Non do un significato politico, ma l'esattezza della valutazione deve conseguire dai dati di fatto ed è per questo che non carico di significati dirompenti la vicenda. La seconda sconfitta fu quella di Falcone che aspirava ad essere eletto nel Consiglio Superiore della Magistratura: non ci fu una famosa corrente che non lo fece votare? E la terza sconfitta non fu quella per la designazione alla Superprocura Nazionale Antimafia? Nella commissione incarichi direttivi del CSM alcuni, non voglio dire chi perché non mi interessa, votarono contro e Falcone non fu eletto. Si tratta di responsabilità oggettive e soggettive per impostazione culturale o per altro; ecco perché è complicato parlare di rapporti tra mafia e politica. Una relazione seria non può non affrontare anche questi temi che sono vitali, signor Presidente. Non è mia intenzione sviluppare un'azione dilatoria, ma sarebbe molto importante, al di là delle cose fumose, basarsi su questi fatti: la lotta contro la mafia è stata inefficace. Perché? Per omissioni, trascuratezze, impostazioni ideologiche e collusioni, o presunte tali. Mettiamo in chiaro tutti questi aspetti, signor Presidente, e facciamo anche qualcosa di più! Chi, ad un certo punto, ha fatto dirottare risorse finanziarie verso il Meridione privilegiando gli enti locali erogatori della spesa, che più avrebbero potuto essere manipolati, consentendo così quello sviluppo irregolare della politica e del comportamento della pubblica amministrazione locale più vulnerabile a certe pressioni ? Una valutazione politica in questo senso avrebbe fornito un quadro quanto mai intelligente ed interessante delle cose che avrebbero dovuto essere fatte e non furono fatte, signor Presidente. E' questo un punto assai delicato; ho voluto richiamarlo perché ritengo sia semplicistico basarsi su una relazione sia pur pregevole, di cui condivido molte valutazioni, da integrare con talune considerazioni dell'onorevole Ayala, che condivido, per dire cosa sia la mafia nei suoi rapporti con la politica. La mafia non è un soggetto politico, come ho già sottolineato. Faccio notare, poi, che dalla relazione risulta che la mafia è definita in tre diversi modi: da una parte è organizzazione criminale, dall'altra diventa territorio (non se ne capisce il motivo, perché non si può dire che si identifichi con esso, a meno che non vogliamo rifarci ai princìpi del diritto, con riferimento allo Stato (semmai è una forza criminale che cerca di realizzare la propria attività produttiva sul territorio), dall'altra, infine, diventa soggetto politico. Si dovrebbe eliminare questa discrepanza. Vi è un altro aspetto che vorrei trattare. Per anni ci siamo trastullati con le |P'mappe|P' delle famiglie mafiose che venivano presentate in questa Commissione, ma alle quali non corrispondeva alcun impegno o alcuna attività repressiva. Dobbiamo, quindi, chiederci perché la conoscenza della geografia della mafia non si sia tramutata in attività repressiva da parte delle forze dell'ordine. Passo ora al problema degli "aggiustamenti" che sarebbero posti in atto attraverso tre soggetti: l'individuo che aspira all'"aggiustamento", l'individuo che deve "aggiustare" ed il tramite politico. Se il soggetto che deve "aggiustare" è nella magistratura, cioè in un potere autonomo e che non può ottenere alcun beneficio, mi chiedo quale sia la Pag. 1735 molla utilitaristica che lo spinge ad aderire. Capisco la motivazione utilitaristica della mafia ma non quella del magistrato perché deve accettare l'intermediazione politica? Occorre chiarire questo aspetto. In altri termini, perché mai il soggetto politico ha presa sulla magistratura che è indipendente (pur essendo legata in funzione delle varie correnti di appartenenza? Il problema della triangolazione andrebbe chiarito. Infine, secondo me, manca, per capire l'articolazione perversa della mafia, l'interpretazione di alcuni fatti emblematici: i veleni di Palermo, la storia del "corvo" e i "misteri di Contorno". C'è qualcosa, non so cosa, che non quadra: se ci sono state disfunzioni nella lotta e se queste hanno avuto, come credo, rilevanza politica, perché non districare i nodi di questi misteri. I veleni fine a se stessi. Contorno fine a se stesso e Di Pisa fine a se stesso? Cosa c'è dietro? Vogliamo chiarirlo? Avremmo avuto tutti i poteri per farlo! Nella scorsa legislatura avevo chiesto proprio questo ed avremmo avuto tutte le possibilità per far luce su aspetti inquietanti. La democrazia si affossa anche per effetto delle disattenzioni in materia di chiarificazione! Questo processo di chiarificazione non è stato fatto, ora si impone che si faccia; quindi ritengo che, al di là delle affermazioni che condivido e al di là di tutto quello che i colleghi hanno detto su responsabilità che non sono della sola Democrazia Cristiana, ma sono molto diffuse, molto di più di quanto non si creda, al di là di questo - dicevo - la relazione, che deve dire una parola certa su un argomento così scottante in un delicato momento, quando cioè è in gioco la democrazia del nostro Paese, quando c'è una delegittimazione strisciante della classe politica, deve giungere allo scioglimento di questi nodi vitali: il "corvo" Di Pisa, i "veleni di Palermo". Se riusciamo a portare alla ribalta questi veleni e facciamo finalmente piazza pulita di tutte le impunità, culturali o pseudoculturali o di altro genere, avremo compiuto un'opera meritoria nei riguardi della nostra democrazia. So benissimo che in così ristretti limiti di tempo non si può arrivare ad una chiarificazione di tale portata; voglio tuttavia porre il problema lasciando agli atti la mia richiesta di una revisione e nuova articolazione della relazione che risponda ai punti cruciali del problema, che non si esaurisca nell'indicare soltanto delle ipotesi. Lo sforzo compiuto è notevole, me ne rendo conto, e forse non si poteva fare di più, ma l'avere sviluppato l'indagine soltanto sulla base delle audizioni dei pentiti, non completandola con quelle di altri soggetti (politici, magistratura, ecc.) per togliere di mezzo una volta per tutte i dubbi e le zone d'ombra, rappresenta un limite. Sono d'accordo su tutto il resto, sulla necessità di approfondire i rapporti tra mafia e massoneria, tra mafia e politica, elementi del passato non presi in considerazione, e con i servizi. Questi sono gli elementi da verificare e da approfondire; allora soltanto noi potremo fornire una risposta esauriente ad una richiesta di verità che ci viene dal Paese, dando qualche certezza in un'atmosfera pesante, torbida nella quale forze antidemocratiche potrebbero trarre la deduzione che è più facile trovare altre soluzioni. Signor Presidente, so in che modo è stato risolto il problema della mafia nel periodo del ventennio: ho avuto la gioia di vedere, appena settenne, 120 mafiosi incatenati con i loro cavalli e con i loro muli nella piazza del mio paese ad opera di mio padre che aveva proceduto al loro arresto. Ho, quindi, una visione diversa della lotta contro la mafia, di un impegno di tipo militare. In quel sistema e con quel regime si risolveva facilmente il problema ma in un sistema democratico come il nostro è ben più difficile. Allora chiariamo i misteri e veniamo alle conclusioni. SALVATORE FRASCA. Signor presidente, la delicatezza del momento politico ci impone, allorquando ci accingiamo a consegnare al Parlamento una relazione sul rapporto tra mafia e politica, di usare il massimo equilibrio nella valutazione Pag. 1736 del tema e di compiere uno sforzo, come ieri diceva il collega Calvi, per ottenere su un'unica linea la massima convergenza. Il collega Galasso osservava che forse sarebbe stato meglio discutere prima qui fra di noi, per predisporre la relazione e poi arrivare ad un dibattito su di essa. Probabilmente questo sarebbe stato il metodo migliore; pazienza, ciò che conta è che si discuta su un documento che abbia la massima dignità e ci consenta di poter esprimere con la massima libertà la nostra opinione. A me è dispiaciuto, signor presidente, che la sua relazione sia stata divulgata prima ancora che venisse dibattuta in Commissione. Lei ha detto di non averne alcuna responsabilità, e io ne prendo atto; però vorremmo che le fughe di notizie non divenissero un metodo costante. PRESIDENTE. Questo è il motivo per cui è stato deciso insieme di distribuire le relazioni la mattina del martedì. SALVATORE FRASCA. Lei si era anche impegnato ad emettere un comunicato per precisare come siano andate le cose ma questo non è stato fatto, a meno che io, leggendo i giornali, non abbia omesso la lettura della notizia. Da questo punto di vista c'erano altri impegni che forse avrebbero dovuto essere mantenuti, per esempio quello di far pervenire alla Commissione la videocassetta sulla dichiarazione di quel magistrato al momento dell'arresto di Totò Riina. PRESIDENTE. Quale magistrato? ANTONIO BARGONE. Le dichiarazioni al telegiornale dopo l'arresto di Riina da parte di una persona che non sappiamo se fosse un magistrato. PRESIDENTE. La videocassetta è stata acquisita agli atti. SALVATORE FRASCA. Ne prendo atto; ora bisognerà verificare ciò che è stato detto e da chi. La relazione del presidente fa riferimento soltanto a Cosa nostra. Devo dire che non accetto la linea manifestata dal pentito Leonardo Messina quando ha detto che la mafia è una, una sola, nel senso che abbraccia la 'ndrangheta, la Sacra corona unita, che la mafia è a Milano, Torino, Bologna, Firenze. Non l'accetto perché mi sono battuto moltissimi anni fa contro il fenomeno della mafia nella mia regione, servendomi anche dell'aiuto di alcuni studenti universitari che in quel momento si accingevano a presentare le loro tesi di laurea sulla nascita del fenomeno mafioso in Calabria; la conclusione alla quale con questi giovani siamo pervenuti è che la 'ndrangheta è una derivazione della mafia siciliana (difatti nelle zone della Calabria in cui si sono avute le prime avvisaglie del fenomeno risulta che erano arrivati alcuni confinati dalla Sicilia), ma poi ha assunto una sua peculiarità, assorbendo molti elementi sia dalla mafia siciliana sia dal banditismo sardo. Il sequestro di persona è una tipica arma di quest'ultimo, che purtroppo è stata assunta dalla 'ndrangheta per ricavare i mezzi per finanziare la propria attività e, come afferma Pino Arlacchi, per trasformarsi in mafia imprenditrice. Comunque, ciò che conta è che vi sia una seconda relazione che riguardi le regioni ed i fenomeni di cui ho parlato. La relazione del presidente è condivisibile nelle sue linee essenziali e rispetto ad essa ci poniamo con animo costruttivo perché chiediamo che alcuni vuoti in essa presenti vengano riempiti e che alcune modifiche che appaiono necessarie vengano apportate. Registriamo con soddisfazione che per la prima volta si mette a disposizione del Parlamento una relazione organica sul rapporto mafia-politica, che non può che essere seria e obiettiva, al di fuori di ogni strumentalizzazione partitica. Per lungo tempo alla storia del nostro paese è stata legata l'esistenza della mafia; ci siamo accorti che la mafia vi era, si vedeva, si toccava e che aveva un collegamento con il mondo della politica. Pertanto oggi, Pag. 1737 non soltanto l'esistenza della mafia, ma anche il rapporto mafia-politica non vengono più negati come accadeva fino a 15-20 anni fa. Del rapporto mafia-politica vi sono abbondanti tracce nelle relazioni presentate all'esame del Parlamento; quando oggi ci interessiamo di Ciancimino non scopriamo il mondo, perché già nella relazione dell'allora presidente Carraro è detto con assoluta chiarezza che egli è "l'espressione emblematica di un più vasto fenomeno, che inquinò negli anni sessanta la vita politica ed amministrativa siciliana per effetto delle interessate congruenze ed aggregazioni delle cosche mafiose". Dobbiamo semmai domandarci perché nel corso di questi anni l'autorità dello Stato si sia fermata dinanzi alla soglia di noti mafiosi ma anche di politici con essi conniventi. In Inghilterra si dice che l'autorità di sua maestà la regina si arresta dinanzi alla soglia di casa del cittadino: questo è un principio di democrazia, di rispetto della persona umana, che vuole distinguere il pubblico dal privato. Invece, quando ora affermiamo questo vogliamo denunciare inadempienze, carenze, complicità ed omissioni dello Stato nella lotta contro il fenomeno mafioso e quindi contro coloro i quali con questo fenomeno sono stati e sono conniventi. Nel momento in cui diciamo questo dobbiamo anche prendere atto, signor presidente, che negli ultimi anni nello scontro Stato-mafia sono stati registrati grandi risultati; credo che di ciò vada dato atto alla nuova legislazione e ai suoi proponenti, tra i quali mi piace citare l'ex ministro Martelli e l'ex ministro Scotti. Tali leggi sono enucleate, però sarebbe opportuno che nella relazione tutto questo fosse evidenziato. Il presidente afferma che la sconfitta di Cosa nostra potrebbe essere la sconfitta di tutte le associazioni mafiose: nutro dei dubbi su questo perché, anche se si dovesse sconfiggere Cosa nostra, non si potrebbe sconfiggere anche la 'ndrangheta e, meno che mai, la Sacra corona unita e le altre forme delinquenziali che stanno sorgendo. Il presidente ha compiuto anche un excursus storico del fenomeno mafioso, ma io mi permetto di rilevare che in esso mancano dei periodi che pure andrebbero meglio spiegati e approfonditi. Nella IX legislatura questa Commissione ascoltò tre sindaci - Insalaco, Martellucci e Pucci, uno dei quali purtroppo è morto - i quali ci descrissero lo stato spaventoso dell'amministrazione nel comune di Palermo, le complicità e le difficoltà che si incontravano nella gestione. In particolare Elda Pucci parlò con uno spirito veramente pasionario. Ebbene, da allora altre amministrazioni si sono susseguite, tra le quali l'amministrazione Orlando: vogliamo chiederci, signor presidente, se nel corso di quella amministrazione gli equilibri che stavano alla base della gestione del comune di Palermo nel periodo dei tre sindaci menzionati, equilibri che questi ultimi non furono in grado di rompere, sono forse stati spezzati con la giunta Orlando? Da quanto si evince dagli approfondimenti che stiamo compiendo e dagli studi degli appalti anche in relazione a tale periodo si vede che quegli equilibri non sono stati spezzati e pertanto dobbiamo avere il coraggio di dire la verità, tutta la verità. Non vorrei, signor presidente che avesse ragione Sciascia quando denunciava i professionisti della lotta contro la mafia... ALFREDO GALASSO. Molti sono stati ammazzati. SALVATORE FRASCA. Non vorrei che avesse ragione Sciascia: vi sono molti che dichiarano, affermano, intervistano, ma quando vengono posti dinanzi alla realtà al fine di modificarla e di sconfiggere la mafia non sempre fanno le cose che dicono di voler fare. Vi è un soggetto politico-istituzionale completamente trascurato nella relazione, cioè la regione siciliana. Di questo dobbiamo parlare, perché niente sarebbe potuto accadere, o i fatti che sono accaduti si sarebbero potuti ridimensionare, qualora la regione siciliana fosse stata governata in maniera veramente diversa e Pag. 1738 non si fosse trasformata nel centro del malaffare politico e amministrativo. Poiché si afferma - e l'hanno detto anche i pentiti, dei quali abbiamo accettato la filosofia (ma, come affermava il collega Calvi, sui pentiti abbiamo dei dubbi e chiediamo che le loro dichiarazioni trovino comunque riscontro: non si può costruire una relazione soltanto sulle dichiarazioni dei pentiti) - che la mafia avrebbe votato prima per la democrazia cristiana e, una volta accortasi che quest'ultima non le dava più sicurezza, avrebbe votato per il PSI, ed inoltre si dice che gli unici partiti immuni sarebbero il movimento sociale italiano e il PDS, ci si consenta di dichiarare che tutto questo storicamente non è giusto. Non è neanche giusto dal punto di vista della realtà; non voglio fare chiamate di correo, ma soltanto esaminare la realtà con la necessaria obiettività. Abbiamo appreso dai pentiti che la giunta Milazzo è stata fortemente voluta dalla mafia e sappiamo com'era composto il governo Milazzo. Anche questo andrebbe detto. (Commenti del senatore Brutti). Sì, però in quel governo il mio partito non c'era! PRESIDENTE. Come no! SALVATORE FRASCA. No, mi dispiace! Noi lo abbiamo combattuto il governo Milazzo, tant'è vero che l'espressione "milazzismo" fu coniata da Pietro Nenni. Mi dispiace, ma conosco bene la storia del mio partito e comunque, a prescindere dalla presenza o meno del partito socialista, vi fu la presenza dell'allora partito comunista. Forse non mi son spiegato bene, ma vorrei che nella relazione si correggesse il concetto che esistono dei partiti che sono immuni dalle connivenze con la mafia; a torto o a ragione, chi più e chi meno, l'intero sistema politico ha prestato delle coperture alla mafia in Sicilia e se si va a vedere come stanno realmente le cose in quella regione si ha la conferma di quello che vado affermando. Ieri sera ho seguito la trasmissione di Michele Santoro sulla terza rete, alla quale partecipavano Orlando e Occhetto e mentre tra di loro vi era un amorevole duello oratorio... PRESIDENTE. Non mi sembrava tanto amorevole! SALVATORE FRASCA. ... venivano presentati degli spaccati di vita siciliana. Abbiamo appreso che nella città di Palermo vi sono persino ospedali nelle mani della mafia e che l'autista di Riina ha potuto dirigere persino un ospedale di cui non ricordo il nome. Vi è un governo regionale in grado di rimuovere queste cose? Ho preso atto che il compagno Occhetto, che è sempre addolorato e contrito quando parla di queste cose, ha detto che suo avviso i suoi colleghi devono uscire da quel governo... PIETRO FOLENA. Anche i tuoi, spero! SALVATORE FRASCA. Certo, e mi auguro che quel governo al più presto venga dichiarato sciolto perché siamo in presenza di un fenomeno umiliante dal punto di vista politico, amministrativo e morale, che certamente non giova ad una lotta efficace e coerente contro la mafia e la delinquenza organizzata. La relazione fa riferimento alla magistratura ed alle difficoltà che si incontrano nell'amministrazione della giustizia: mi si consenta di affermare che questo è il vuoto più vistoso e che l'analisi su questo presupposto deve essere approfondita. Abbiamo appreso fatti di una certa gravità, anche da parte dei pentiti, e quanto va emergendo conferma questa gravità; tuttavia di questo non si fa cenno. Pensiamo forse che in Sicilia non vi siano state delle connivenze con la magistratura, così come non vi sarebbero in Calabria? Vogliamo ritornare ai tempi di sua eccellenza Bartolomei, procuratore presso la corte d'appello di Catanzaro, il quale, quando fu posto dinanzi all'eventualità che in Calabria vi fossero connivenze in alcuni comparti della magistratura, gridò allo scandalo e ci portò Pag. 1739 dinanzi al tribunale per rispondere di diffamazione? La mafia è l'ombra del potere e cerca di abbarbicarsi a tutte le istituzioni per cercare di avere ragione: ce lo hanno anche spiegato i pentiti, ma noi lo sapevamo perché l'avevamo già constatato. Le vicende di questi ultimi anni vanno approfondite, così come dobbiamo approfondire le responsabilità e le manchevolezze della magistratura. Ha ragione Marco Pannella, l'unico tra gli uomini politici di un certo livello capace di dire con estrema chiarezza che il sistema politico e costituzionale del nostro paese in tanto verrà ripulito in quanto la magistratura italiana renderà conto al popolo italiano di tutte le connivenze, di tutte le complicità, di tutte le omissioni che al suo interno si sono registrate nel corso di questi anni! E quando andremo a discutere di queste cose avremo la possibilità di dimostrarlo. Ma ci siamo dimenticati dell'esistenza del palazzo dei veleni? Il collega Cappuzzo ha affrontato questi argomenti, ma io voglio riprenderli. Ci siamo dimenticati dello scontro che Di Pisa ha avuto con altri magistrati? Ci siamo dimenticati dell'episodio Falcone? Non ripeto su questo argomento le considerazioni, con dovizia di argomentazioni, del collega Cappuzzo. Mi è però rimasta impressa un'affermazione di Ida Boccassini, che fu una collaboratrice del giudice Falcone e che nel corso della commemorazione a Milano del giudice Falcone ebbe il coraggio di dire: "Falcone è stato ucciso da noi". Possiamo fare un'equazione sul rapporto mafia, politica e istituzioni in Sicilia senza fare piena luce su queste cose? Sull'aggiustamento dei processi che cosa è accaduto? E' vero che c'era il giudice Carnevale, di cui si parla, che a Roma aggiustava tutto, ma sappiamo che c'era un primo stadio di aggiustamento presso le sedi della corte d'appello, e quindi presso i magistrati che operavano in Sicilia. PRESIDENTE. Lei ha esaurito il suo tempo, senatore Frasca. SALVATORE FRASCA. Due o tre minuti e ho finito. E' altresì vero che ad un certo punto si è dovuto prendere un giudice civile per fargli presiedere la corte d'appello. PRESIDENTE. Anche adesso c'è un problema analogo, come è segnalato nella relazione. SALVATORE FRASCA. Se dunque ci sono questi problemi, li dobbiamo segnalare. Si dice che c'è un continuismo nelle forze dell'ordine. In realtà mi risulta che i carabinieri abbiano proceduto a ripetuti trasferimenti. Se c'è immobilismo nelle forze dell'ordine, va detta la verità su queste cose. Concludo sul senatore Andreotti. Signor presidente, mi consenta di fare una dichiarazione di carattere personale: io ho cominciato a sentire (allora non c'era neanche la televisione) e a vedere, nei pochi comizi da lui tenuti nella mia città, questo importante uomo politico del paese quando avevo quindici anni; adesso sono diventato nonno e il senatore Andreotti sta sempre in sella al potere. Questa è la più evidente dimostrazione della mummificazione del sistema politico e costituzionale del nostro paese, che è il problema di fondo che abbiamo da risolvere. Però, dopo aver detto questo, signor presidente, mi consenta di dire che non sono per processi politici. Si sono liberati nell'est europeo dei processi politici, vogliamo farli noi? No. Non posso poi accettare, signor presidente, la frase in cui lei dice che l'autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Andreotti è un atto dovuto. PRESIDENTE. Chiedo scusa, non dico questo: la richiesta, non l'autorizzazione. E' possibile che sia un errore, ma non posso aver detto questo. SALVATORE FRASCA. Nella relazione si dice: "Il 30 marzo 1993 è stata chiesta dalla procura della Repubblica di Palermo l'autorizzazione a procedere nei Pag. 1740 confronti del senatore Giulio Andreotti per i delitti di concorso in associazione per delinquere mafiosa. Sulla base dei documenti di cui dispone la Commissione, l'accertamento dell'eventuale responsabilità penale del senatore Andreotti è un atto dovuto". Siccome le responsabilità penali del senatore Andreotti non si possono accertare se non è stata concessa l'autorizzazione a procedere, essa è un atto dovuto. GIROLAMO TRIPODI. Che c'entra l'autorizzazione? SALVATORE FRASCA. Come si fa ad accertare, collega Tripodi, la responsabilità penale del senatore Andreotti se non c'è un processo e come si fa a processare il senatore Andreotti se non c'è un'autorizzazione a procedere? PAOLO CABRAS. Cosa nostra riproduce un modello di potere inteso come sistema chiuso, con rapporti gerarchici, di comando, di esecuzione, di scopi, di mezzi, con regole attuate e violazioni sanzionate. La struttura, i metodi e le finalità di Cosa nostra sono l'antitesi di una società aperta, delle sue istituzioni: in questo senso Cosa nostra è forza eversiva. Ma questa entità criminale, con questa carica eversiva, ha un forte impatto con la politica, ha bisogno della politica, ma non è la politica. Cosa nostra fin dall'inizio, dalle vicende di una società semifeudale, ha supplito carenze statuali, ha approfittato delle contraddizioni dello sviluppo unitario, che sono state un effetto di quel tipo di sviluppo. C'è una letteratura, da Dorso a Sturzo, che ricorda questo. Nelle pieghe di quelle contraddizioni c'è stata Cosa nostra. Nell'evoluzione successiva, dal dopoguerra, si è insediata e ramificata anche grazie alla cooperazione del governo militare alleato (fa bene la relazione Violante a ricordarlo; molto incisivamente lo ricorda un bel film di Francesco Rosi, quello su Enrico Mattei), quando al seguito degli uomini di tale governo si insediarono i sindaci della mafia Genco Russo e Calogero Vizzini. Nella sua evoluzione dai traffici urbanistici al racket, alla corruzione burocratica, allo sfruttamento di manodopera, al traffico fino ad ora di droga e di armi, alla sua attività economico-finanziaria transnazionale, Cosa nostra non poteva non incontrare e non ripetere questo bisogno della politica, che è anche interesse a condizionare la vita istituzionale per patteggiare, per dominare. Lo stesso suo radicamento nel territorio è non soltanto la ricerca di un "santuario", di una protezione, di una sicurezza, ma è anche in qualche modo il desiderio di essere là dove si possono fare le regole o piegare le regole alla propria volontà, sempre tenendo presente che i politici sono succubi e non sono i supervisori e i registi di Cosa nostra, neanche a livello locale. La mafia ha svolto anche in Sicilia un ruolo politico, indirettamente prestandosi a manovre e disegni altrui: l'uso del banditismo, il rapporto con i monarchici, con gli agrari e con i separatisti, il milazzismo, di cui si è parlato molto in questo dibattito in Commissione, fino alla convivenza con le forze di governo nel periodo della spaccatura del mondo, e quindi anche del nostro paese, in due blocchi. Il rapporto con la politica non esaurisce però l'orizzonte mafioso, e bene la relazione ha fatto ad estendere l'analisi alle istituzioni, alla società civile, alle professioni, a tutto quello che ha concorso al radicamento del potere mafioso ed in qualche modo anche alla sua relazionalità pubblica con effetti politici. La stessa vicenda del Mezzogiorno è in qualche modo emblematica. Il Mezzogiorno - lo abbiamo detto tanto volte - è stato più oggetto che soggetto di sviluppo, la sua autopromozione è stata ostacolata da pregiudizi antichi ma anche dallo strapotere della politica. Quando il consenso localmente si orientava verso il centro e dal centro affluivano le risorse alla periferia con il corredo di assistenzialismo e di clientele, in qualche modo Pag. 1741 si è predeterminata anche la qualità dello sviluppo, della crescita e della lotta politica. Violante parla di sicilianismo. Certo, l'autonomia come recupero di responsabilità e del senso dello Stato: questa era l'intuizione di Luigi Sturzo. Tutto ciò è deviato in questa pratica, però qualche riflessione dobbiamo dedicarla non solo a questa degenerazione clientelare ed assistenziale, ma anche a quanto il meridionalismo dei partiti di sinistra ha operato perché l'uso delle risorse fosse deciso creando centri di spesa e di iniziativa sul territorio sempre a livelli periferici, dove le strutture amministrative e politiche erano più deboli e dove era più possibile la permeabilità all'infiltrazione mafiosa e criminale, comunque la disponibilità alla corruzione del sistema. Comprendo le ragioni politiche di questa rivendicazione del meridionalismo di sinistra rispetto alla contestazione, allora accesa e frontale, nei confronti del Governo centrale, ma anche questo è un elemento della storia delle contraddizioni e degli appesantimenti della vicenda complessiva del paese. Tutto ciò è stato detto tante volte in riferimento ad altro orizzonte istituzionale e a proposito di altri apparati: la giustizia, le conclusioni processuali contrattate con la mafia, ma ancora di più, direi, le indagini mai iniziate. Certo, pensando ai magistrati siciliani oggi abbiamo questa grande remora ed anche questo grande esempio morale: pensiamo a Chinnici, a Terranova, a Livatino, a Falcone, a Borsellino. Rendiamo loro un tributo sincero perché a questi uomini dobbiamo una grande avanzata sul terreno della rivolta civile contro la mafia. Dobbiamo però anche ricordare i giudici che non hanno ottemperato al proprio dovere, i giudici della sicilianissima prima sezione penale della Corte di cassazione, nonché i giudici che oggi sono indagati, quelli che per indagini giudiziarie, per rivelazioni di collaboratori della giustizia, e non soltanto, sono oggetto di sospetti. Anche del maxiprocesso dobbiamo stare attenti a non fare storie ad usum delphini, perché la stagione dei veleni all'interno del Consiglio superiore della magistratura ha responsabilità anche politiche; molti - e lo dico positivamente - hanno cambiato giudizio sul pool e sul giudice Falcone nel corso del tempo. Ma quelle memorie sono precise. Non si può avere una grande attenzione e un richiamo al magistero di Falcone soltanto negli ultimi anni o negli ultimi mesi della sua vita, perché questo è oltraggioso nei suoi confronti. Ed io capisco le reazioni della sorella del giudice Falcone, di Maria Falcone, perché in effetti fu giocata una partita poco chiara utilizzando le induzioni contro il professionismo della mafia di Leonardo Sciascia, un grande intellettuale civile usato per una causa meschina, squallida, così come poco chiaro fu il gioco dei potenti che fra alcuni settori politici e le invidie, le gelosie e le rivalità dei giudici si praticò all'interno del Consiglio superiore della magistratura. E il magistrato Di Pisa non mi sembra facilmente richiamabile o evocabile come testimone della verità, perché allora ci fu non solo la nomina di Meli all'ufficio istruzione al posto di Giovanni Falcone ma ci fu la frammentazione dei processi di mafia, ci fu anche la loro dispersione in mille rivoli, che era anche un modo per aggiustare. Quindi, i ritardi e le distorsioni sono appartenuti alla politica ma anche ad altri ambiti istituzionali. In questo senso, vi è una nostra richiesta - mia e del gruppo della democrazia cristiana - di integrazione e di correzione. Altri hanno parlato - io ve lo risparmio - in riferimento alla lentezza dell'adeguarsi della legislazione per superare quella cultura garantista in cui io credo (quella dei benefici carcerari e del nuovo codice di procedura penale). E' una cultura che mi ha sempre visto schierato a favore, però non c'è dubbio che quando abbiamo dovuto operare all'insegna dell'emergenza abbiamo trovato la difficoltà culturale che ci enunciava, con grande lealtà, Giuliano Amato nella sua audizione Pag. 1742 qui in Commissione e che è stata di tanti (penso anche di quelli che hanno votato contro o che si sono astenuti). Ciò per dire che quel cammino in Parlamento non fu facile - lo ricordavano altri colleghi - per difficoltà obiettive, per obiezioni culturali. Ma di questo dobbiamo tener conto perché, altrimenti, pensiamo che il gioco sia sempre di uno schematismo western in cui i buoni e i cattivi si affrontano una volta per tutte. Fra cielo e terra, come ricordava Amleto a Orazio, ci sono più cose di quanto non immagini la filosofia della semplificazione o la filosofia della pura predicazione. Credo poi che la mafia vada giustamente osservata, come fa la relazione - anche se questa parte può essere approfondita - nella sua risalita per i rami istituzionali e politici. Una mafia che tocca vicende come quelle di Sindona e del Banco ambrosiano; che vede frequenti comparse di Gelli nelle indagini giudiziarie - non soltanto nelle rivelazioni dei pentiti -, nelle intercettazioni telefoniche fatte dalla polizia e dai carabinieri. Una mafia che vede coinvolti apparati dei servizi. Una mafia dove Pippo Calò può avere, con l'eversione nera, progettato e in qualche misura partecipato alla strage del treno 904. Una mafia che si occupa di grandi appalti e che, evidentemente, deve tener presente la sua consuetudine con la politica e con le istituzioni anche a proposito di queste vicende che non si esauriscono né si risolvono a Corleone e a Bagheria. Certo, come è stato ricordato, la vocazione della mafia è la solita, cioè ricercare favori, complicità, coperture. E oggi le inchieste coinvolgono, giustamente, esponenti locali, regionali e nazionali. Ritengo che non vi debbano essere tabù in nessuna direzione ma anch'io, come hanno fatto altri, credo di dover dire, anche per la mia responsabilità, che su indagini come quella da avviare a Palermo a proposito del senatore Andreotti non appare opportuno un apprezzamento che possa significare l'anticipazione di un giudizio che non spetta alla Commissione bicamerale antimafia. E voglio dire un'altra cosa, anche rispetto alla conclusione un po' disinvolta - me lo consenta il collega Galasso - che, dando il suggello della criminalizzazione a quell'avviso di garanzia, apre un problema politico non risolvibile se non, a mio avviso, con il rifiuto di esprimere un'anticipazione di giudizio. ALFREDO GALASSO. Io apro un problema politico... PAOLO CABRAS. No, lo apre con quella definizione, con quell'accezione, con quella versione. ALFREDO GALASSO. Ho fatto riferimento a fatti precedenti. Non posso essere accusato di avere aspettato l'avviso di garanzia. PAOLO CABRAS. Certo, io mi riferisco solo al suo intervento e a quella sua espressione, onorevole Galasso, non ad altro. Su altro ci possiamo confrontare e discutere. Credo che il nemico da abbattere non vada mai individuato nei politici e nella politica. Oggi, il terzo livello vede scarsi ma cocciuti sostenitori, però non mi ha mai convinto. L'identificazione della mafia con le istituzioni e con i soggetti politici ho paura che faccia perdere di vista gli obiettivi di una lotta alla mafia. Giustamente, Violante critica la concezione della mondializzazione, e anch'io ho paura, perché quando tutto è mafia, niente è mafia! Detto questo, aggiungo che il coinvolgimento ed il cedimento dei politici in vicende di mafia è sempre un'esperienza terribile, non di devianza: è un vero tradimento dei chierici, perché sostituire all'idea della politica come solidarietà l'idea della politica come sopraffazione e omertà è la negazione della politica, è la sua morte civile e culturale. Allora, anche solo chi per avidità di voti e di successo consente che i mafiosi si arruolino sotto i propri vessilli elettorali Pag. 1743 è passibile di una dura condanna morale e di un duro giudizio politico. I politici, quelli collusi, che poi operano con la mafia o per la mafia, appartengono alla sfera del reato associativo. Non ho dubbi. Ma esiste anche una responsabilità politica, quella che deve evitare comportamenti che anche indirettamente giovino alla causa mafiosa. Sono molto rigoroso nei confronti di chi partecipa anche a battesimi, a cerimonie o a manifestazioni che possano obiettivamente offrire occasione di contaminazione. E sono contento che questo mio rigore abbia un'eco nella decisione - per me non strana - del vicepresidente della Conferenza episcopale italiana, l'arcivescovo Agostino di Crotone, il quale ha deciso di abolire le feste patronali, non per un rifiuto della tradizione ma perché rappresentavano un'occasione di contaminazione e di inserimento della criminalità organizzata locale. Credo anche che occorra dire di più e meglio sulle logge massoniche, le quali sono, per tante indagini convergenti e concomitanti, un luogo di scambio fra cosche, potentati politici, istituzionali, economico-imprenditoriali. Su questo bisogna lanciare un allarme senza alcun ostracismo, senza alcuna visione di pregiudizio ideologico. Non riesco a capire le ragioni culturali e sociali della massoneria. Sarà un mio limite ma, siccome ho rispetto e tolleranza per le idee, le manifestazioni e la volontà di associarsi di tutti, non nego certo questo diritto ma voglio che esso sia esercitato non solo nell'ambito delle regole e delle leggi ma all'insegna di una dignità anche civile, di un rispetto di regole civili, magari non scritte, che sono quelle di non consentire lo scambio con i poteri mafiosi all'interno delle logiche massoniche. Nessun partito, colleghi, può chiamarsi fuori. I partiti di Governo sono oggetto privilegiato del desiderio mafioso. Ma le esperienze milazziane e certe combines per appalti dimostrano che non c'è uno spartiacque resistente in materia di inquinamento mafioso. Milazzo è stato trasformismo ma anche un'operazione politica che ha rafforzato il ruolo politico della mafia (non la mafia come soggetto politico). E questo lo dicono anche gli storici che a sproposito l'onorevole Macaluso cita in un articolo odierno del Giorno contrapponendoli a Calderone. Tutto sommato, questa volta Calderone diceva una cosa vicina agli storici e che non era assolutamente assolutoria per la politica, neanche per quei politici che vollero il milazzismo per emarginare la forza di maggioranza nella Sicilia. A Palermo, i mafiosi hanno votato per partiti diversi dall'usuale o hanno trasferito voti da una lista all'altra per lanciare messaggi e per punire l'approvazione di leggi repressive. Questo è un fatto, può dispiacere ma è un fatto di cui, forse, occorre tenere conto. I mafiosi potrebbero puntare - lo dicono i pentiti ed è una verifica tutta da fare - su movimenti e partiti nuovi o su gruppi diversi anche all'interno dei partiti tradizionali. Questo è un approfondimento doveroso perché è legato ad una volontà della mafia di aggiornarsi rispetto ai mutamenti e all'evoluzione del potere politico. Forse, è vero anche che puntino a modelli di autonomismo esasperato. Forse è vero che dopo l'uccisione di Lima e di Salvo abbiano superato ogni tentativo di mediazione e accarezzino l'ipotesi di una rottura violenta degli equilibri politici ed istituzionali. Poiché considero questo mio intervento una proposta di indirizzi e di emendamenti alla relazione, vorrei che ci fosse un riferimento a quei partiti minori che crescono in maniera abnorme raddoppiando o triplicando i suffragi in controtendenza rispetto a tutti i livelli regionali e nazionali. Anche questo è un fatto ed è un fatto vecchio. Ricordo, quando per il mio partito mi occupavo di liste in Sicilia, come quelli espulsi dal mio partito perché sospetti di mafia trovassero ospitalità in genere nei partiti minori, a Catania come a Palermo. Ho grande consapevolezza del ruolo diverso che ha un vicepresidente anche rispetto agli altri membri del proprio gruppo parlamentare ed ho sempre avuto Pag. 1744 il culto di una visione distaccata ed obiettiva perché ritengo che il successo di una Commissione come questa sia nel superamento delle appartenenze, non come cultura e convinzioni, è ovvio, ma come tentativo, da portare avanti insieme, di offrire un contributo all'elaborazione complessiva del Parlamento e all'azione di contrasto delle istituzioni. Però consentitemi di dichiararmi offeso, in qualche misura ferito, non tanto da polemiche interne - qui sono state limitate, contenute, direi accettabili - ma da polemiche ed interpretazioni esterne della stampa, forse anche sollecitate da qualche politico che con i giornalisti si lascia andare più di quanto non faccia nelle sue esibizioni istituzionali. Ebbene, sono molto netto nel respingere le interpretazioni che sono state date all'atteggiamento del mio gruppo parlamentare. Non vi è in questo alcun mio timore di isolamento. Quando l'isolamento era coerente ad una convinzione non ho avuto timori. Sono uno che comportamenti anomali rispetto a logiche prevalenti ne ha avuti tanti nella sua vita politica, quindi non è questo che mi turba. Ma io credo che la democrazia cristiana non possa essere evocata come una forza rattrappita e imbarazzata di fronte all'antimafia, in coerenza con una politica che ha espulso Ciancimino quando i giudici non si occupavano del suo ruolo e della sua funzione; che ha voluto, nel 1983, un ricambio di classe dirigente che ha prodotto grandi mutamenti in Sicilia, anche la primavera di Orlando, anche la primavera di Palermo, che viene evocata con accenti così diversi da Ombretta Fumagalli e da Alfredo Galasso. Anche la primavera di Palermo non fu la manna invocata dal cielo da padre Pintacuda: fu l'effetto di un mutamento culturale, si aggregò, piuttosto, a generazioni giovani, a nuovi impulsi che venivano dal mondo della cultura, dalla chiesa, dal centro Arrupe di padre Sorge - e non soltanto di padre Pintacuda -, da una classe dirigente che fu aiutata a sostituire la vecchia classe dirigente. Certo, ha ragione il presidente Campione quando al Corriere della sera confida anche le delusioni, allude ai gattopardismi che sono sempre presenti, non solo in quella terra ma nella vicenda politica in genere. Noi abbiamo pagato come altri il terribile prezzo del buon governo e della lotta alla mafia nel cuore delle istituzioni regionali. Pier Santi Mattarella non è l'evocazione di una nostra litania rituale: fa parte del vissuto della democrazia cristiana, non soltanto siciliana e non soltanto per chi ha avuto con lui una consuetudine di idee, di affetti e di esperienze politiche comuni. Ma anche Michele Reina non è stato ucciso per un errore né per un caso, se è vero che - non vorrei citarlo a sproposito - il libro di Alfredo Galasso, che ho letto con interesse, cita una indicazione in cui Reina si faceva banditore di una politica che chiudeva ulteriori spazi alla mafia. Credo sia questa l'indicazione che vale per chi in questa Commissione non rivendica meriti ma non ha da discolparsi di particolari difetti o vizi. Mi auguro che sempre, d'ora in avanti, il discorso sulla mafia non rappresenti un'arena di palleggio e di rinfaccio continuo di responsabilità, quasi per accaparrarsi un merito, ma auspico che questa lotta sia individuata come il primo capitolo della riforma morale e della riforma istituzionale. ACHILLE CUTRERA. Presidente, credo che la difficoltà del nostro dibattito sia data anche dal fatto che si sovrappongono necessariamente valutazioni di carattere molto generale (e, quindi, attinenti al fenomeno mafioso nei suoi aspetti anche sociologici) rispetto a quello che deve essere il contributo che ciascuno di noi deve offrire alla relazione da lei proposta alla Commissione. Questi due livelli, certo, avrebbero potuto essere distinti meglio se avessimo fatto (o facessimo) un forum della Commissione, che avrebbe permesso, anche all'interno dei singoli gruppi, di approfondire il dibattito ed il pensiero di ciascuno di noi. Ci siamo trovati forse in difficoltà nell'ambito dei Pag. 1745 singoli gruppi, per la mancanza di un sufficiente approfondimento e per una dialettica che non c'è stata su fatti che abbiamo seguito e su documenti che abbiamo letto, senza tuttavia averli discussi insieme. Oggi non si può pensare di sovrapporre, nel giro di pochi minuti, gli aspetti del forum (cioè della valutazione generale del fenomeno, con le sue implicazioni anche politiche) e le osservazioni sulla relazione. Darò prevalenza al secondo aspetto, offrendo un contributo alla relazione, con molta semplicità e, se possibile, con chiarezza, sottolineando che questa relazione io l'ho apprezzata nelle sue linee generali, in gran parte nel contenuto e l'ho apprezzata soprattutto per il coraggio dimostrato nel riuscire ad esprimere una sintesi difficile di un'evoluzione storica complessa e di aspetti così multiformi come quelli emersi in questo dibattito, nella presunzione di affrontare il rapporto tra mafia e politica in 40, 50, 70 pagine. Ritengo sia stato profuso uno sforzo al quale va riconosciuto un rilevante merito culturale e concettuale. La mia è dunque una dichiarazione di apprezzamento senza riserve. In particolare, ho trovato molto importanti e rilevanti sia le pagine relative alla distinzione tra valutazioni politiche e penali sia quelle riferite al fenomeno della massoneria. Il rapporto tra la massoneria e Cosa nostra (o mafia generalmente intesa) non è apprezzato, non è noto. Ritengo, pertanto, che sia stato giusto aver squilibrato la relazione dedicando a questo aspetto molte pagine nell'organizzazione dello schema. Si tratta, ripeto, di un fatto positivo. Sottolineo tuttavia la sovrapposizione dei due elementi e delle due contemporaneità fra procedimento di carattere penale che arriva al Senato in questi giorni in conseguenza delle iniziative dei giudici di Palermo e processo politico (lo definisco processo in senso ampio, non in senso khomeinista). Tale processo giunge in Aula con una coincidenza di tempi a mio avviso non casuale, se pensiamo che ambedue le iniziative muovono dalle ordinanze dei giudici successive al caso Lima e che, quindi, anche i riferimenti di coincidenza storica hanno una loro causalità. Tuttavia, questo rende ancor più difficile il nostro lavoro; credo che avremmo lavorato con maggiore distacco, serenità, chiarezza e, forse, efficacia, se i due momenti non si fossero sovrapposti nella coincidenza temporale. Comunque, tant'è; cerchiamo allora di lavorare all'interno di questa difficoltà, che io invoco per recuperare il concetto, espresso da altri, di superamento, per quanto possibile, di posizioni di parte e frazionistiche. Espressioni coraggiose di individualità, di pensieri, anche in contrapposizione, ne abbiamo sentite diverse questa mattina, ma io spero che in questo caso non abbiano ad operare in modo incisivo le segreterie. Credo che ciascuno di noi debba rifiutare un discorso di segreteria, se davvero ha a cuore l'ipotesi di coordinare ed utilizzare il nostro lavoro nella lotta contro la mafia, come uno strumento importante dell'ordinamento. Se questa è l'impostazione alta che dovremmo e potremmo dare al nostro lavoro, credo che al paragrafo 1 della prima pagina si dovrebbe indicare alla pubblica opinione che leggerà il testo definitivo il fatto che si tratta di una relazione parziale, di una prima tappa. Ciò va detto con chiarezza perché, in caso contrario, se non ci curiamo di difendere il nostro lavoro, le eccezioni che si solleveranno nel paese saranno infinite. Dico questo con riferimento al problema sia della concretezza ed ampiezza dei problemi affrontati sia degli aspetti territoriali del fenomeno di organizzazione, che già altri hanno messo in risalto. Non si tratta quindi di toccare questo punto, ma dobbiamo chiarire perché non lo facciamo. E' una scelta che condivido. Sempre sotto il profilo delle piccole osservazioni - ne farò altre più rilevanti in seguito - vorrei che fosse maggiormente specificato l'elemento del rapporto di Cosa nostra con il territorio. Infatti, non appare abbastanza chiaro che il potere di Cosa nostra coincide con l'intero territorio dell'isola; in certe espressioni, in particolare, può apparire che sia limitato Pag. 1746 ad alcune province. A tale riguardo, vi sono stati interventi significativi, quale quello di Messina il quale, nella sua semplicità contadina, ha detto che neppure uno spillo può cadere sulla terra di Sicilia senza essere controllato. Non so se questa affermazione sia vera ma non se ne può disconoscere la significanza o, perlomeno, la presunzione di significanza. L'organizzazione del territorio attraverso la struttura verticistica non è descritta in modo sufficiente con riferimento agli aspetti - che ormai appaiono con evidenza - che caratterizzano un'organizzazione distribuita per province. Io farei riferimento a quella che può essere definita una cupola regionale. Accanto alla cupola politica, abbiamo infatti vista indicata nel rapporto dei ROS una cupola tecnico-amministrativa regionale. Il problema, allora, presenta un aspetto più complesso di quello finora esaminato. Infatti, vi sarebbe da un lato la direzione strategica, come dicevano altri e, accanto ad essa, la consulta amministrativo-tecnico-scientifica. In sostanza, tendo a dare un elemento di rafforzamento all'ipotesi che rende preoccupato il nostro lavoro nei confronti dell'organizzazione. Sotto questo profilo, mi associo alle considerazioni svolte da alcuni colleghi, i quali hanno affermato che la relazione è prudente. Lo dico con franchezza: trovo la relazione prudente, forse coraggiosamente prudente. Certamente i fenomeni che ci siamo trovati di fronte in questi mesi presentano aspetti drammaticamente gravi. Forse questa prudenza discende in me anche dal fatto di aver riletto, la scorsa settimana, alcune pagine di un libro intitolato La mafia e i mafiosi, anno 1900, scritto da Antonio Cutrera. Questo scritto è attuale. Vi invierò le pagine pubblicate ne Il Giornale di Sicilia dell'anno scorso, che dedicò un intero paginone alla figura di questo sociologo, il quale nel 1900, scrivendo quel libro, dava impulso al trasferimento della nostra famiglia altrove. Nel libro sono espresse una serie di considerazioni che io credo vadano lette per capire come il problema abbia storicamente radici, distacchi ed origini che vanno ben oltre l'inizio del regno d'Italia, come del resto è già stato segnalato. Molte delle espressioni contenute nel libro potrebbero essere inserite nella nostra relazione: lo dico con preoccupazione. Il problema del rapporto con la magistratura, per esempio, ha aperto pagine inquietanti nel 1900 e forse ne apre oggi di più pesantemente inquietanti. Vanno quindi considerati la prudenza dell'analisi proposta dal presidente ma anche il coraggio di estenderne gli orizzonti, innanzitutto agli aspetti sociologici - nei quali mi permetto di avventurarmi con prudenza - con riferimento al fatto che la mafia non sempre va vista come un elemento che coabita o coesiste, quasi immaginandolo come una presenza fisicamente contestuale ma comunque distinta (vi sono alcune pagine che fanno riferimento a tale aspetto). Al contrario, nell'evoluzione dei secoli, molto spesso la mafia si è manifestata e si è espressa con l'inserimento nelle strutture dello Stato. Debbo ritenere che tale aspetto vada sottolineato perché le deviazioni della magistratura o dei corpi di polizia ed amministrativi discendono dal fatto che molto spesso i figli dei figli, disponendo di mezzi diversi da quelli degli originali soggetti della civiltà contadina, oggi possono inserirsi nei grandi livelli dell'università, della scienza e, quindi, anche dell'amministrazione. Credo che da un lato dobbiamo parlare - come giustamente si fa - di coabitazione, coesistenza e convivenza ma, dall'altro, anche di inserimento e di penetrazione, ai fini di spiegare meglio il fenomeno. Non voglio comunque andare avanti su questa strada, che diventerebbe complessa ma che comunque credo abbia un pesante fondamento. Mi ricollego anche al discorso che si sintetizza nella distinzione tra società mafiosa ed organizzazione mafiosa, proposta con grande conoscenza ed intelligenza dal collega Buttitta. Al di là delle osservazioni che ho finora formulato, credo che il punto più rilevante rispetto al quale si debba esprimere un dissenso più pesante in ordine Pag. 1747 alla relazione riguardi le valutazioni storico-politiche. Si tratta di un campo nel quale diventa molto difficile valutare se sia più fondata la mia valutazione o se lo sia quella del proponente, atteso che la valutazione riguarda fatti di questi giorni: è molto difficile essere storici di noi stessi! Alle pagine 43, 44 e 45 della relazione manca, a mio parere, la descrizione dello scontro in atto. Si parla di fattori che incidono sulla coabitazione (rapporti internazionali, tendenze isolazionistiche in Sicilia, eccetera), e si passa subito ad affrontare l'aspetto dell'azione repressiva dello Stato. Credo che vadano inserite anche poche righe per descrivere lo scontro in atto nell'ultima decade tra la mafia ed i tentativi dell'organizzazione statale. Vanno quindi ricordati gli omicidi avvenuti nel decennio. Questo richiamo va fatto anche per constatare come per nessuno di essi si siano scoperti autori o mandanti. Deve essere ancora sottolineato! Non possiamo lasciare che le vedove di costoro continuino a lamentarsi senza che ci sia una pagina nella relazione, che magari contiene una valutazione sociologicamente di alto profilo ma poco incisiva sul piano dei rapporti anche concreti e dovuti con i cittadini. Quindi, lo scontro va visto attraverso la ricostruzione degli omicidi, dei grandi episodi negativi, dell'insuccesso dello Stato. Ma, ancora, lo scontro va esaminato alla luce della vicenda epocale che si è verificata nel 1991. Su questo potremmo avere una differenza di vedute ma ritengo che nella lealtà e nella onestà delle opinioni si possano trovare convergenze. Il 1991 e il 1992 sono anni critici di tutta la vicenda. Gli omicidi Lima e Salvo non sono cosa da nulla - lo abbiamo già detto - ma non sono da meno per la storia del nostro paese gli omicidi Falcone e Borsellino, che seguono di pochi mesi. Qualcuno giustamente ha detto che sono quattro gli omicidi dell'anno 1992. Aggiungo anche, con pesanti sottintesi che però non sono in grado di portare oltre, che ci sono stati allontanamenti che hanno rappresentato per il sistema dello Stato qualcosa forse di significativo. Trovo molto grave che nello stesso periodo di tempo il ministro di grazia e giustizia e il ministro dell'interno abbiano dovuto abbandonare il loro incarico; probabilmente per ragioni fondate, però la coincidenza a me fa pensare. Quindi, tutta l'équipe Falcone, Borsellino, Martelli e Scotti è stata eliminata dalla circolazione, con la sua esperienza, le sue conoscenze e le sue azioni. Qui vengo al 1991, che chiamo lo "splendido anno", il primo della storia della Repubblica che mi commuove. Colleghi della democrazia cristiana, non sono d'accordo sul fatto che non si debbano fare riconoscimenti sulle pesanti responsabilità del potere, che invece vanno rimarcate, se no non se ne esce. Tuttavia, non sono dell'idea che il nuovo sia ancora da venire - questo è il passaggio della relazione del presidente dal quale divergo sostanzialmente - perché credo che il nuovo, come ora dirò, per merito di forze plurime sia già iniziato in Sicilia e sia iniziato nel 1991, anche se nel 1988 ci sono stati i prodromi. Perché credo a questa ipotesi, che sottopongo alla vostra attenzione? Perché sto ai fatti come interprete del diritto, come sono solito fare, sempre vicino alle norme e agli atti, credendo alle parole meno di quanto rilevo dalle letture. Allora, nel 1991 c'è stata una successione difficile di attività del Parlamento, come altri colleghi hanno ricordato. Lo scontro tra garantismo e non garantismo passa all'interno del partito socialista, quindi non vorrei che si recuperassero schieramenti. PRESIDENTE. Certo. ACHILLE CUTRERA. Il passaggio dal ministro Vassalli al ministro Martelli è un cambio nell'interpretazione del diritto o della politica del diritto. Come sanno tutti coloro che hanno letto i miei libri, io sono sulla linea della politica del diritto ma certo - voglio dirlo - soffrivo in aula di fronte alle interpretazioni degli anni 1987-1988. So che qui ci sono differenze di vedute ma preferisco privilegiare Pag. 1748 gli obiettivi, forse con una visione un po' anglosassone, anche per il retaggio dei miei studi, per cui si può fare a meno anche delle norme per raggiungere risultati: io ci credo. Allora, l'elencazione di cui alla pagina 45 della relazione è fondata sul fatto che questa serie di norme consegue alla tesi dell'impegno "a fisarmonica". Sono d'accordo quando si afferma che di fronte ad un grave fatto c'è una reazione emotiva del Parlamento e delle forze dell'ordine, ma questo è evidente, è normale. C'è stato molto di più della "fisarmonica", penso ci sia stato un suono importante, quello che viene da un complesso di leggi che non sono collegate agli omicidi di mafia del 1991, più gravi e più numerosi rispetto al periodo precedente, ma non è questo il problema, che invece deriva dal fatto che è cambiata la titolarità politica delle responsabilità. Non parlo solo del ministro di grazia e giustizia ma anche di quello dell'interno, nei cui confronti ho sempre manifestato apprezzamento, pur avendo avuto magari occasioni di contrapposizione. La successione degli eventi - che ieri ho recuperato - inizia con l'arrivo di Falcone a Roma il 10 aprile. Falcone vive a Roma 13 mesi: una stagione brevissima. Questa è stata una vera "primavera" del Parlamento, nella quale dopo l'arrivo di Falcone il 10 aprile, si susseguono una serie di provvedimenti: l'8 giugno, il decreto sul soggiorno obbligato dei sospetti mafiosi; il 22 luglio, la legge sullo scioglimento dei consigli comunali inquinati (della quale stiamo vedendo le applicazioni e studiamo gli effetti); a ottobre viene istituita la DIA e a novembre la DNA; il 31 dicembre, il decreto-legge antiracket e il 30 dicembre il provvedimento sulle limitazioni elettorali passive per gli imputati di reati di mafia. E' un anno, o meglio un semestre, clamoroso! Questo semestre clamoroso è determinato da una precisa realtà politica, legata ad una certa conduzione di ministeri di responsabilità: mi riferisco al ministro di grazia e giustizia e al ministro dell'interno. Dietro le loro proposte, come si comprende leggendo i suoi scritti e guardando le prospettive, c'è il pensiero di Falcone. E' importante che qui sia stata ricordata l'audizione di Falcone al CSM del 15 ottobre 1991 ma teniamo presente che quella relazione, la sofferenza di cui parlava la collega Fumagalli, è coeva a quella stagione di risultati in Parlamento. Vuol dire che questa persona, chiamata a Roma - secondo alcuni trasferitosi per paura ma altri sanno che ciò avvenne per dispiegare un impegno ulteriore e maggiore - è stata l'ispiratrice di norme importanti: non lo possiamo dimenticare! Nel contempo, egli subì attacchi anche personali, sino ad essere denunciato sulla stampa per esibizionismo, quando si disse che scriveva troppi libri o che compariva troppo spesso in televisione, come se altri oggi apparissero di meno. Vorrei quindi valutare complessivamente la figura di Falcone, fuori dagli opportunismi, anche per i suoi meriti propositivi oltre che giudiziari per una stagione di grande cambiamento, che è già cambiata nel paese. Qui non possiamo dimenticare che nelle audizioni dei rappresentanti delle procure distrettuali tutti hanno riconosciuto l'importanza delle grandi innovazioni legislative introdotte di recente. Allora, in questo clima, Andreotti lo lascio da parte nelle mie valutazioni; non so se abbia agevolato o appesantito. Sono prudente e non esprimo opinioni ma sostengo che certamente ai fini delle nostre valutazioni l'importanza del ruolo di Falcone e delle responsabilità assunte dai ministri di grazia e giustizia e dell'interno merita di essere non solo accennata ma inserita a pieno titolo nella relazione. A questo proposito, è necessario che alcune parti della relazione siano modificate. Sempre su questa traccia, nella relazione poi si dice che la faticosa approvazione dei provvedimenti è stata frenata da un lento processo applicativo. Mi permetto di dire che, come abbiamo constatato insieme, il processo applicativo ha avuto il massimo dell'accelerazione possibile. Pag. 1749 MASSIMO BRUTTI. Nel 1992? ACHILLE CUTRERA. Sì, dopo il 1992. A pagina 46 della relazione, dopo l'elencazione dei provvedimenti, si dice: "La faticosa approvazione di questi provvedimenti (...) è stata frenata da un lento processo applicativo". Secondo me, questa espressione non può essere mantenuta alla luce dei provvedimenti recentemente adottati, perché credo che una significativa accelerazione sia stata riconosciuta unanimemente in Commissione. PRESIDENTE. Mi scusi, senatore Cutrera, la legge antiracket non è ancora operante, è occorso circa un anno perché la DIA cominciasse a funzionare, la procura nazionale funziona da alcune settimane, anche se la legge era stata approvata un anno e mezzo fa; erano questi gli elementi? Forse bisogna distinguere, se mi permette, le norme che comportavano organizzazione amministrativa da quelle immediatamente operative. Questo ragionamento vale per le prime e non per le seconde. ACHILLE CUTRERA. Le dirò una cosa. Ho avuto una impressione altamente positiva - anche se non ne abbiamo mai discusso e non abbiamo mai espresso una valutazione - dell'evoluzione della composizione degli organi della magistratura negli ultimi due anni. PRESIDENTE. Sì, certo. ACHILLE CUTRERA. Che la Boccassini sia a Caltanissetta, nonostante le difficoltà in cui ha messo alcuni settori del mio partito a Milano, fa piacere. Credo sia un elemento che vada ricordato proprio perché abbiamo visto come la procura di Caltanissetta abbia manifestato un atteggiamento assai diverso da quello del 1900, dai tempi de La mafia e i mafiosi; è un altro atteggiamento, è una battaglia che va riconosciuta. PRESIDENTE. Certo. ACHILLE CUTRERA. Anche perché, presidente, tendo a spostare il discorso sui tempi perché vorrebbe dire dare una speranza alla gente di questo paese, che non è solo in attesa e alla ricerca di una svolta che dovrebbe venire da una politica diversa, perché sappiamo che questa politica dipende dagli uomini che la esercitano. Vorrei sottolineare un altro punto. Nella fase successiva il gruppo del PSI porrà molta attenzione sul problema Carnevale-Cassazione (lo anticipo senza andare più a fondo). E' un problema che, al di là del monitoraggio, comporterà impegnative valutazioni da parte della Commissione e il gruppo socialista sarà assolutamente impegnato nella ricerca della chiarezza. Chi era Carnevale? Da dove arriva? A chi è succeduto? Quali rapporti ha avuto? Mi fermo a questi interrogativi. Infine, se il presidente me lo consente, individuo un altro aspetto carente della relazione nella sottovalutazione del rapporto politica-amministrazioni locali, che considero - oltre alle giuste osservazioni del collega Frasca sulla regione - molto importante, perché la collusione in Sicilia prende le mosse dagli enti locali. Qui ricordo le suggestive parole del pentito Messina. Quando lei, presidente, gli chiese come si ponesse la mafia, per quanto riguarda le speculazioni edilizie, di fronte ai piani regolatori, Messina rispose che il problema non esiste, perché la mafia manda propri elementi negli enti locali che devono amministrare i piani regolatori. Questo è il punto fondamentale dell'interpretazione di quel passaggio sugli enti locali. Partendo da lì, mi riservo di porre attenzione, all'interno del comitato appalti, al problema del rapporto tra enti locali e appalti in Sicilia. Si tratta di un elemento importante a proposito del quale, a pagina 65 della relazione, sarebbe opportuno aggiungere un riferimento alla recente audizione sul problema degli appalti per le scuole a Palermo e su quello della conduzione del patrimonio immobiliare comunale sempre a questo fine. Pag. 1750 SALVATORE CROCETTA. A questo punto del dibattito, chi interviene avverte anche un certo imbarazzo. Tuttavia, desidero svolgere alcune osservazioni, anche perché nel dibattito sono emerse alcune teorie che non mi convincono assolutamente. Mi riferisco ad uno degli ultimi interventi dei colleghi della democrazia cristiana, quello del senatore Cabras - persona che ho sempre apprezzato, come ho avuto modo di dire pubblicamente anche in occasione di altri dibattiti -, che tutto sommato ha esposto teorie che non sono molto diverse da quelle di altri colleghi scesi in campo come se andassero ad una crociata, con la lancia in resta: alla fine il risultato è identico. Non mi convince, in particolare, la teoria per cui il rapporto tra politica e mafia è quasi di subordinazione. Personalmente non sono per uno schema prefissato e ritengo che nella storia della mafia e del rapporto tra mafia e politica vi siano posizioni diverse, che non solo si susseguono nel tempo ma possono presentarsi anche contemporaneamente. Vi sono personaggi politici che sono contigui e quindi vengono utilizzati dalla mafia, uomini politici che hanno utilizzato la mafia, uomini politici che sono contemporaneamente mafiosi e politici. Ciancimino, ad esempio, non era un mafioso o un politico, era mafioso e politico nello stesso tempo, e come lui ve ne sono stati tanti. Ricordo, ad esempio, Calogero Volpe, deputato della democrazia cristiana per tanti anni, che il giorno delle elezioni stava seduto nella piazza principale del piccolo comune di Villalba (tremila abitanti), proprio nel posto in cui spararono a Li Causi, con accanto un certo signor Farina della democrazia cristiana, bancario, che aveva con sé una borsa contenente soldi o in cui mettere gli appunti per fare avere prestiti, finanziamenti ed altro per comprare quella decina di famiglie che servivano per vincere le elezioni. Sempre Calogero Volpe, facendo comizi nelle piazze di due città siciliane nelle quali mancava l'acqua diceva: "Votate pure comunista, l'acqua la vedrete quando piove!". C'è una storia che noi non possiamo cancellare; qui nessuno vuole condannare, ma non si può neanche assolvere, non si può dire che la democrazia cristiana è scevra, che avendo espulso Ciancimino ha il merito di un grande cambiamento, perché mentre espelleva Ciancimino, altri dubbi rimanevano. Il problema di Lima si è risolto, purtroppo, nel modo violento che conosciamo ed oggi vi sono ancora le implicanze di quelle vicende. Dunque, il rapporto tra mafia e politica va approfondito e va approfondito sul serio. Non è che richiamando la vicenda Milazzo si cerchi di sviare da un problema che ha avuto in Sicilia caratteristiche particolari nel rapporto tra mafia e politica. Purtroppo, in Sicilia la democrazia cristiana è stata un partito che nella stragrande maggioranza - non è che non vi siano uomini che sono stati lontani dalla mafia e che, magari, avrebbero voluto combatterla - ha avuto con la mafia un rapporto molto stretto, che è continuato e, per alcuni aspetti, ancora continua. Infatti, alcuni avvisi di garanzia che arrivano alla Camera e riguardano le ultime elezioni non possiamo dimenticarli o far finta che non vi siano. PAOLO CABRAS. Li ho ben presenti! SALVATORE CROCETTA. Ma non ho visto alcun atteggiamento di condanna da parte della democrazia cristiana, non ho visto alcun tentativo di cercare di colpire in questa direzione. Il sistema di potere che ha consentito gli imbrogli, che ha consentito di truccare gli appalti continua ad esistere, nonostante tutte le leggi varate in materia di appalti. Perché si possono fare le leggi ma, indipendentemente da queste, i trucchi continuano; se vi è, infatti, un sistema di controllo, questo continua ad esistere, come continua il controllo sulle elezioni. Quindi, sono fortemente preoccupato per l'insufficienza della relazione sotto questo aspetto. Ritengo che sia estremamente importante aver fatto questa relazione ed aver aperto il dibattito, ma abbiamo bisogno di dare ai cittadini maggiori certezze. Pag. 1751 Inoltre, ritengo anch'io che vi siano nella relazione i limiti e le insufficienze che da alcuni colleghi sono stati indicati. Non si può parlare soltanto di Cosa nostra e della Sicilia; abbiamo fatto bene a parlarne e non credo che si debba ritardare ancora l'approvazione di questa relazione per procedere ad un'indagine su ciò che riguarda la Campania (oggi, ad esempio, il caso Cirillo è tornato d'attualità), la Calabria (dove una vicenda coinvolge un ex ministro della Repubblica, l'onorevole Misasi) o la Puglia (dove vi sono stati e continuano ad esservi collegamenti tra mondo politico e Sacra corona unita) ma parlare solo della Sicilia non è sufficiente. Voglio ricordare che un senatore comunista scomparso nella passata legislatura, Vito Consoli, ha condotto in Puglia una battaglia che ha poi portato alle dimissioni di un sottosegretario democristiano in relazione alla vicenda del racket dell'usura; in quell'occasione vi furono pesanti pressioni nei confronti della magistratura pugliese e delle forze di polizia e vi furono anche trasferimenti. Si è detto che tra i carabinieri i trasferimenti sono frequenti ma non sempre sono della stessa natura; a volte servono a rinnovare, altri ad impedire la continuazione delle indagini. Sono fortemente preoccupato per il fatto che non venga esaminato nell'ambito del rapporto tra mafia e politica, o non venga esaminato a sufficienza, il problema dei servizi deviati, per cui si possono esprimere giudizi positivi su alcuni trasferimenti che, in realtà, hanno un significato fortemente negativo. Ricordo, ad esempio, che nella passata legislatura l'onorevole Mannino e l'onorevole Lauricella presentarono un'interrogazione sul trasferimento di due carabinieri che si erano occupati di certe questioni nella provincia di Trapani, tra le quali quella relativa al teatro di Marsala: i due carabinieri furono trasferiti l'uno in provincia di Caltanissetta, l'altro in provincia di Agrigento perché, nel loro piccolo, lavoravano come un pool e riuscivano a colpire. Né mi convince tutta una serie di teorizzazioni secondo le quali il rapporto tra mafia e politica si è accentuato di più in quella che viene definita la seconda fase, cioè dopo il passaggio dalla mafia della campagna alla mafia della città (mi pare l'abbia detto Ayala, il quale ha fatto anche altre affermazioni che non mi convincono). Per quanto ne so, il rapporto tra mafia e politica in Sicilia è storico e ricordo che vi sono stati personaggi politici che hanno utilizzato la mafia persino in alcuni episodi di lotta alla mafia stessa, per cui si è trattato di un problema di lotta interna. Scelba, ad esempio, ha utilizzato la mafia contro il bandito Giuliano; ma lo ha fatto per coprire alcune vicende, questo si evince dal processo di Viterbo (le cose le dobbiamo dire e le dobbiamo dire tutte). Quando c'è stato il trasferimento dalla mafia della campagna alla mafia della città, si è avuto bisogno di rapporti più organici, più diffusi, che consistevano non più soltanto nella protezione del personaggio politico di alto livello ma nell'entrare a far parte dei consigli comunali, perché era lì che si decidevano i piani regolatori, quindi l'assetto del territorio e l'affare che la mafia poteva fare. Lo stesso vale per tanti altri settori. Quel rapporto che prima era privilegiato con alcuni personaggi di rilievo, ha inglobato oltre a questi anche personaggi di secondo piano della politica, che sono diventati di primo piano, o comunque ha fatto eleggere uomini della mafia all'interno dei consigli comunali e delle istituzioni in genere. Quello che abbiamo vissuto in tutti questi anni è stato, dunque, un rapporto tra mafia e politica molto diffuso ma non si può dire che non sia possibile combattere questa situazione o che per farlo dobbiamo andare ad approfondire il rapporto tra mafia ed istituzioni, che è quello principale, mentre il rapporto tra mafia e politica viene dopo, come mi pare abbia affermato nel suo intervento l'onorevole Sorice. Non viene dopo: la politica è quella che ha utilizzato le istituzioni e, se non vi fosse stata la copertura di personaggi politici all'interno delle istituzioni, Pag. 1752 forse vi sarebbe stata meno disponibilità a favorire la mafia e ad imbrogliare le carte, come spesso è avvenuto. Con l'intervento dell'onorevole Tripodi abbiamo posto alcune questioni che riteniamo importanti ai fini di un giudizio complessivo sul documento che andremo ad approvare. Riteniamo, cioè, che vadano approfondite le questioni concernenti la massoneria ed i servizi deviati e vada eliminato il riferimento alle leggi elettorali poiché - come mi pare l'onorevole Grasso abbia giustamente rilevato - la mafia utilizza qualsiasi sistema elettorale. Anzi, sono convinto che con l'introduzione del sistema maggioritario ed uninominale sarà semplificato il problema dell'appoggio all'uno o all'altro candidato, perché sarà più facile ottenere il differenziale necessario per l'elezione. Qualcuno vuole spiegazioni riguardo a quanto accaduto a San Cataldo; io non sono stato eletto a San Cataldo, nel mio comune ho ottenuto il 18 per cento dei voti, ma si tratta di un comune grosso. La mafia è potente ma, vivaddio, non può controllare il 100 per cento dei cittadini! Dunque una parte di questi, i cittadini onesti, votano e votano liberamente; certo, la mafia pretenderebbe di occupare tutto il territorio ma fortunatamente non è così. Altrimenti non saremmo qui a discutere, non ci sarebbe una Commissione antimafia, non ci sarebbero i parlamentari disposti a discutere; se tutto questo, invece, esiste, vuol dire che la mafia controlla, ha un grosso peso, ha le coperture politiche ed anche, in qualche caso, istituzionali però vi è anche chi la combatte e riceve il premio per combatterla. Non vorrei, dunque, che in questa sede si facessero discorsi devianti. Mi avvio alla conclusione, signor presidente, anche se avrei tante cose da dire e potrei dimostrare l'esistenza di certi rapporti antichi. Avrei potuto parlare, ad esempio, del mafioso Bontate, qui citato parecchie volte e che allora mi pare si chiamasse Stefano Bontà, mentre Bontade si chiamava la cugina, l'onorevole Margherita Bontade, eletta con i voti di Stefano Bontà: mi pare che queste cose le abbiamo lette nei rapporti della vecchia Commissione antimafia, le abbiamo lette sui giornali, le abbiamo conosciute direttamente, per la storia che ognuno di noi ha vissuto nella propria realtà. Una sola cosa desidero aggiungere, presidente: sono dell'opinione che si debba valorizzare al massimo l'apporto dei pentiti ma ho il dubbio che in alcune occasioni le stesse persone che collaborano introducano qualche elemento deviante. A questo riguardo desidero citare una vicenda che ritengo emblematica, quella del pentito Pellegriti e delle accuse a Salvo Lima. Dire che Salvo Lima è mafioso e dire cose precise che lo riguardano per poi inserire elementi falsi a tal punto da essere individuati attraverso riscontri semplicissimi mi fa pensare che a volte la stessa mafia utilizzi questi pentiti per scagionare il personaggio politico in questione e per fargli dare la patente di non mafioso, addirittura per fargliela dare da giudici che non possono assolutamente essere messi in discussione, come nel caso del giudice Falcone. Si tratta quindi di un utilizzo dei pentiti in termini diabolici per effettuare alcune operazioni, per dare patenti quasi definitive di non mafiosità. Si tratta di questioni sulle quali dovremmo riflettere. Ho voluto citare in conclusione proprio tale questione non per mettere in discussione qualcosa che oggi sta funzionando ma per dire che occorre considerare i riscontri e valutare le cose con serietà. Per quanto riguarda le questioni aperte, come quelle che riguardano il senatore Andreotti o l'onorevole Gava, sarà chiaramente il Parlamento a prendere una decisione. Qui però non possiamo neppure dare assoluzioni. Sarà il Parlamento - lo ripeto - a decidere. Se per ipotesi mi trovassi implicato in una vicenda giudiziaria di qualsiasi tipo, chiederei di essere mandato sotto giudizio, perché solo in questo modo si può affrontare e chiarire la situazione. Se, come purtroppo temo, questa vicenda si concluderà con uno o più rifiuti di concedere l'autorizzazione a procedere (come sta accadendo in questi giorni al Pag. 1753 Senato con riferimento a vicende che riguardano non la mafia ma fatti di concussione e di violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, con verdetti di non procedibilità emessi a maggioranza), allora questa sarà un'altra pagina nera sulla quale dovremo tornare per esaminarla con serietà. ROSARIO OLIVO. Il mio sarà un intervento breve perché i colleghi del gruppo socialista hanno già espresso in modo approfondito la posizione del mio partito. Non ripeterò quindi le cose che hanno detto i miei compagni di partito intervenuti l'altro ieri, ieri e questa mattina. Stiamo discutendo su un documento di estrema rilevanza, in quanto, se non ricordo male, si tratta della prima relazione della Commissione parlamentare antimafia sul rapporto mafia-politica. Essa rappresenta un tentativo generoso, uno sforzo che deve essere valutato assai positivamente e che quindi va apprezzato, non sul piano formale ma per la sostanza del contributo che la Commissione, attraverso questa relazione, sta dando su un tema decisivo. Si tratta quindi di uno sforzo che può rappresentare, a mio avviso, una svolta significativa nella storia del nostro paese (di questo dobbiamo avere piena consapevolezza). Il lavoro svolto in questi mesi dalla Commissione ha reso in tutti noi forte il convincimento di un intreccio profondo nel rapporto tra mafia, politica e istituzioni, che nelle aree a rischio del nostro paese è un elemento costante. La relazione si è soffermata molto su questo elemento di fondo, che è il filo conduttore - lo ripeto - del lavoro svolto dalla Commissione in questi mesi e della relazione che stiamo esaminando. Sui contenuti della relazione, è importante, signor presidente, avere una grande capacità di ascolto, ed io ho apprezzato molto questa sua capacità, visto che lei non ha perso alcun intervento ed ha stimolato i contributi e gli approfondimenti. Non ho riscontrato assolutamente, da parte del presidente Violante, impermeabilità al dialogo e al confronto; in questi giorni ho invece notato - ne do volentieri atto allo stesso presidente Violante - il desiderio di approfondire e di arricchire i contenuti della relazione, per l'importanza estrema di questo documento nella vita del nostro paese. E' quindi giusto che si sia svolto un dibattito ampio, a più voci, con una pluralità di contributi e di stimoli convergenti sull'obiettivo di migliorare questo testo fondamentale. I contributi del gruppo socialista (da quello del capogruppo Calvi all'ultimo, quello del mio amico e compagno Cutrera) si muovono, a mio avviso, nella direzione di migliorare e di rendere ancora più incisivo questo documento, senza tattiche dilatatorie, senza tentativi, non dico di nascondere, ma di ammantare di veli pietosi realtà che sono crude e vanno denunciate, perché sono quelle che sono. Nella relazione viene raccolta una serie di elementi che provengono dalla realtà, dalle cose che abbiamo sentito e compreso in questi sei mesi così densi di impegno da parte della Commissione nel suo complesso. Possono comunque essere ulteriormente approfonditi e migliorati alcuni aspetti dell'impostazione della relazione che stiamo discutendo. Mi limiterò, in questi pochi minuti, a qualche notazione, anche perché altri compagni del gruppo socialista hanno introdotto elementi di approfondimento. E' giusto, a mio avviso, inserire nella relazione una riserva di carattere politico sulle dichiarazioni rese dai pentiti, in quanto la Commissione non ha potuto, per la sua funzione e le sue responsabilità, riscontrare elementi tali da rendere possibile una verifica di esse. E' altresì importante inserire nella relazione il sistema delle interferenze politiche sul Consiglio superiore della magistratura in relazione alla vicenda di Falcone e soprattutto all'esito di questa vicenda, che obbligò lo stesso Falcone ad abbandonare la Sicilia. Dobbiamo fare questo non per un omaggio formale alla memoria di questo indimenticabile magistrato ma per il dovere che abbiamo Pag. 1754 verso la ricerca della verità. Si tratta quindi di un punto importante e di grande rilevanza, ed è anche essenziale inserire nella relazione il gioco delle interferenze, anche sul piano giudiziario (sia nella realtà palermitana sia in quella catanese), per aggiustare i processi di primo e secondo grado. La vicenda del giudice Carnevale, in tale contesto, deve essere, a mio avviso, attentamente approfondita e rapidamente chiarita, perché essa appare agli occhi dell'opinione pubblica (mi auguro che ciò possa essere smentito) come l'epicentro degli interessi di quanti premevano sulla Cassazione per demolire i processi di mafia. La stessa indagine avviata dai giudici siciliani su Carnevale conferma l'emblematicità della questione, su cui è quindi necessario arrivare, nell'interesse del paese, ad un chiarimento di fondo, per far emergere finalmente la verità in tempi ravvicinati, non in tempi storici. Sotto questo aspetto, la nostra Commissione deve sollecitare tutte le istituzioni interessate e competenti perché provvedano a farci conoscere un profilo analitico del giudice Carnevale. Signor presidente, la Commissione deve sollecitare questa sorta di esame ai raggi X nei confronti della personalità di questo magistrato, valutando da dove provenga, come si sia formato, come sia avvenuto il suo ingresso in magistratura, come egli abbia fatto carriera giudiziaria, chi l'abbia messo alla guida della famosa prima sezione. Se vi è il sospetto che tramite questo giudice si aggiustavano le cose in Cassazione, occorre capire fino in fondo se ciò sia credibile e vero (mi auguro che non sia così e che questo venga smentito dai riscontri); se però ciò è credibile, questa può essere la chiave di volta per gettare finalmente un fascio di luce sulla grande questione di cui ci stiamo occupando. La relazione deve approfondire maggiormente, in tutti i loro aspetti, le responsabilità e gli interessi politici ed economici che sono stati all'interno dell'amministrazione comunale di Palermo attraverso gli anni. Sotto questo aspetto, mi sarei atteso (devo essere molto sincero) un contributo anche dei colleghi della DC siciliana, che invece è mancato. Naturalmente, non mi ergo a giudice nei confronti di nessuno ma dalla DC siciliana poteva e doveva venire un contributo maggiore. GIROLAMO TRIPODI. C'è qui il senatore Cappuzzo, che è siciliano. ROSARIO OLIVO. In tal caso chiedo scusa. PRESIDENTE. Comunico anche che l'onorevole Riggio è assente in questi giorni per accertamenti medici. ROSARIO OLIVO. Rivolgo allora al collega Riggio i più cordiali e fervidi auguri. In questa direzione, possono essere utili i contributi che attraverso gli anni sono stati offerti da tanti organismi siciliani e palermitani. Ne conosco alcuni perché con i loro dirigenti ho svolto dibattiti e tavole rotonde nella mia regione. Mi riferisco, tra l'altro, a centri studi e di documentazione siciliani sul fenomeno della mafia. So che il presidente Violante si è messo in contatto con alcuni di questi centri studi ed ha raccolto del materiale importante di questi organismi, che negli anni si sono impegnati con grande determinazione, non certo sul terreno della passerella o del professionismo dell'antimafia, ma su quello di una battaglia vera, autentica e generosa condotta in Sicilia. Il materiale raccolto potrà rappresentare, anche nel prosieguo del nostro impegno, un contributo utile per capire meglio la realtà della mafia siciliana. Si tratta infatti - lo ripeto - di testimonianze importanti per comprendere l'intreccio autentico tra Cosa nostra, la politica e le istituzioni. Le ultime vicende giudiziarie, che hanno portato i magistrati siciliani ad avviare un'indagine sul senatore Andreotti, possono in qualche modo, anzi certamente, mettere in evidenza il salto di Pag. 1755 qualità determinatosi nel rapporto mafia-politica. Proprio per questo, presidente, è importante (certo con tutte le cautele necessarie: questo elemento è stato sottolineato da molti colleghi e io condivido questo invito alla cautela) che la Commissione richiami tutti i poteri dello Stato a chiarire rapidamente e fino in fondo questo caso, per la sua portata, per la sua dimensione enorme, dirompente, nell'interesse del paese. In conclusione, credo che esistano tutte le condizioni per portare a sintesi unitaria un impianto più completo della relazione, perché ritengo che il presidente Violante vorrà raccogliere gli elementi di arricchimento e di approfondimento che si sono ricavati da questo dibattito stimolante, interessante, a più voci. In quest'ottica tutto il gruppo socialista si orienterà a votare la relazione finale per darle il massimo di incisività, di valore, di impegno forte e unitario, in questa battaglia dura, aspra, difficile, ma esaltante per debellare, per colpire la mafia. La relazione sarà sicuramente un contributo rilevante, che segnerà in profondità la storia politica del nostro paese. E personalmente sarò lieto di contribuire con il mio voto favorevole a rafforzare questo fondamentale passaggio. PRESIDENTE. Le sono molto grato, onorevole Olivo. Con questo intervento il dibattito si è concluso. Onorevoli colleghi, desidero osservare, non perché lo si debba ora deliberare (vi provvederemo nella prossima seduta), che, per il livello veramente elevato, significativo ed utile del dibattito, sarebbe utile, qualora il testo definitivo della relazione venga approvato, che sia inviato alle Camere anche il resoconto stenografico del dibattito stesso, affinché si abbia il quadro complessivo delle valutazioni di ciascuno. A questo fine dispongo che venga messo a disposizione dei singoli colleghi il testo del proprio intervento, in modo da potervi apportare tutte quelle correzioni che, avendo parlato a braccio, siano necessarie, disponendo anche del tempo necessario a tal fine. Ritengo che ciò possa essere utile per il dibattito e l'approfondimento finale. Mi pare che la stragrande maggioranza dei rilievi che sono stati avanzati, di cui ringrazio molto i colleghi, rientrino pienamente nel quadro e nell'indirizzo politico della relazione e quindi credo che potranno essere assunti nella loro massima parte. MARIO CLEMENTE MASTELLA. Nel momento in cui dice che gli atti saranno allegati, significa che la relazione sarà trasmessa al Parlamento così come è? PRESIDENTE. No, no, ho già detto che sarà inviato il testo definitivo della relazione, qualora venga approvata. MARIO CLEMENTE MASTELLA. Quindi sarà trasmessa la relazione che sarà approvata con l'apporto di tutti, benissimo. Ho rivolto la domanda non per una mia interpretazione maldestra, ma per sapere il tipo di procedura che poniamo in essere. Vorrei sapere se ella, avendo ascoltato i contributi dei colleghi intervenuti nel dibattito, alcuni condividendoli altri non condividendoli (evidentemente, questo appartiene alla sua responsabilità istituzionale di guida della Commissione) modificherà la relazione tenendo conto dell'estensione, nella sua interezza, del contributo delle varie parti politiche. PRESIDENTE. E' senz'altro così, onorevole Mastella, tenendo presente che qualche collega ha ritenuto di formalizzare alcune questioni specifiche (e questo è liberissimo di farlo, naturalmente). UMBERTO CAPPUZZO. Qual è il termine di presentazione degli emendamenti? PRESIDENTE. Domani alle dodici, altrimenti il tempo per valutarli è troppo breve. In sintesi, direi che chi ritiene di inviare proposte specifiche di correzione Pag. 1756 debba farlo entro mezzogiorno di domani. Comunque si terrà conto non solo delle proposte specifiche ma anche degli indirizzi emersi. Ve ne sono alcuni molto importanti, non concretizzati in emendamenti, che saranno recepiti. Martedì alle dieci il testo sarà stato corretto e integrato. L'ordine del giorno della seduta di martedì 6 aprile 1993, alle ore 15 è il seguente: replica del presidente alle osservazioni effettuate nel corso della discussione generale; dichiarazioni di voto e votazione sulla relazione. GIROLAMO TRIPODI. Poiché è stata convocata la Commissione ambiente della Camera in orari coincidenti per discutere del provvedimento sugli appalti (argomento che ha attinenza con i problemi di cui ci stiamo occupando) chiedo se possiamo anticipare di un'ora la seduta, iniziando alle 14. Alle 15 è convocata la Commissione ambiente ed io, l'onorevole Bargone ed altri colleghi, essendo interessati a quella riunione, anche in qualità di membri del Comitato dei nove ... PRESIDENTE. Il problema è un po' delicato per questo motivo: non credo che anticipare alle 14 risolva i problemi che lei pone, perché c'è da votare una serie di testi. Se lei ritiene, se i colleghi lo ritengono, per quanto riguarda le dichiarazioni di voto, si potrebbe dare la priorità ai colleghi che sono impegnati in altra Commissione, in modo che possano intervenire subito, dopo di che, quando sarà il momento del voto, i colleghi saranno chiamati. Questo credo si possa fare per agevolare ... GIROLAMO TRIPODI. Vogliamo anche sentire la sua replica. Se non alle 14, si potrebbe fare alle 14,30, in modo di avere la possibilità ... ALFREDO GALASSO. Concluderemo sicuramente entro martedì sera? PRESIDENTE. Qual è il senso della sua osservazione? ALFREDO GALASSO. Sapere se per caso andremo a mercoledì mattina. PRESIDENTE. Essendovi tredici gruppi, 10 minuti per gruppo fanno 130 minuti e poi si vota. Poiché numerosi colleghi non sono presenti in questo momento e raggiungerli di domenica è difficilissimo, non è possibile anticipare l'orario di inizio, che pertanto rimane stabilito alle 15. La seduta termina alle 14,25.