Il quarto NO per Silvia

il manifesto 23 marzo 1996

PATRICIA LOMBROSO
NEW YORK

Il 20 Febbraio scorso, per la quarta volta consecutiva, il governo degli Stati uniti ha comunicato con un documento ufficiale il proprio diniego alla richiesta del governo italiano circa il trasferimento di Silvia Baraldini in un carcere italiano.

Lo scandalo nello scandalo sta nel fatto che il documento con cui Washington comunica l'ennesimo rifiuto al trasferimento giace a tutt'oggi, un mese dopo l'invio, nei cassetti del ministero di Grazia e Giustizia di Roma, presieduto ad interim da Lamberto Dini. Che sia stato tenuto nascosto per non "turbare" l' andamento della campagna elettorale? Forse, fatto sta che nemmeno ai familiari di Silvia Baraldini è stata comunicata la decisione di Washington, figuriamoci a quanti, in Italia seguono il caso di questa concittadina divenuto un contenzioso politico fra Italia e Stati uniti.

E con grande meraviglia di coloro che questa vicenda la seguono in America, della cosa si è appreso solo per caso. Grazie alla Dc Silvia Costa arrivata a New York con la delegazione di parlamentari italiane che partecipano ai lavori del Comitato delle donne alle Nazioni unite. "Vorremmo sottolineare - ha detto due giorni fa Silvia Costa durante una conferenza stampa all'Onu sulla questione delle pari opportunità - l'interessamento delle parlamentari al caso di una concittadina Silvia Baraldini che da 10 anni (sono già 14 ndr) sconta nelle carceri americane la condanna di 43 anni ed è malata. Nel mese di dicembre il nostro governo ha cercato inutilmente di esercitare ulteriori pressioni sull'amministrazione Clinton per il trasferimento, ma purtroppo il nostro ambasciatore ci ha detto che le autorità americane hanno risposto 10 giorni fa con una lettera che porta una risposta negativa".

Già, "una risposta negativa", in barba ai "motivi umanitari" tanto cari a Washington in base ai quali questa volta era stata formulata la richiesta italiana (avanzata il 20 ottobre dello scorso anno). Un rifiuto, comunicato però non "dieci giorni fa", ma molto prima: per l'esattezza il 20 febbraio scorso, un mese fa. Vale a dire ben prima che l'ltalia venisse redarguita dall'ambasciatore americano a Roma per la superficialità con la quale il terrorista palestinese accusato della morte di Kinghoffer durante il sequestro della "Achille Lauro" fuggisse dal carcere dove era detenuto e dall'Italia. Senza nessun pretesto dunque che potesse "spiegare" - certamente non giustificare essendo le due cose assolutamente estranee tra loro - una risposta negativa dettata da un "malumore" di Washington nei confronti delle autorità italiane.

Di più, a differenza che per i tre dinieghi precedenti, questa volta il documento ufficiale che respinge la richiesta italiana non è stato neppure firmato, dal ministro di giustizia americano Janet Reno - come prevede il protocollo tra due paesi amici e alleati di pari sovranità - bensì da un'oscuro funzionario del dicastero. Le "novità", peraltro, si fermano qui, visto che le motivazioni addotte dalle autorità americane ricalcano le giustificazioni addotte dal dicembre 1991 al gennaio 1996: Silvia Baraldini era membro di una organizzazione con attività terroristica e pertanto....

Insomma uno "schiaffo in faccia" all'ltalia in piena regola. Subìto, tanto per cambiare, senza reazioni. A quanto abbiamo accertato, infatti, il governo italiano non si è "limitato" a tenere all'oscuro l'opinione pubblica della "faccenda", ma non ha opposto alla comunicazione ufficiale del governo americano nemmeno una nota di disappunto, pur blanda che fosse.

"Io non mollo" ebbe a dichiarare con foga Lamberto Dini durante la sua conferenza di fine d'anno, rivelando tra l'altro in quella occasione una clamorosa mancanza di informazione sul caso. "E' stata coinvolta nell'uccisione di due agenti della Fbi"; "E' stata condannata a 40 anni perchè non vuole pentirsi"; "In America è stata curata meglio probabilmente che in Italia". Tanto per citare solo alcune "chicche".

Altro che "non mollo". Secondo i termini non scritti nella convenzione di Strasburgo, ma imposti dagli Stati uniti, Silvia Baraldini - per inciso non rea di alcun fatto di sangue - dovrà attendere ora altri 12 mesi perchè l'Italia possa ripresentare la richiesta ufficiale per il suo trasferimento. E il tempo è tutto. Le condizioni di detenzione nel carcere di Danbury stanno mettendo in crisi la sua resistenza psicologica e quando la Baraldini verrà a conoscenza di questo ultimo episodio di superficialità e di cialtroneria da parte del suo stesso governo certo non ne uscirà rafforzata nel morale.