Nel 1983-'84 la Baraldini é stata rinchiusa nel carcere metropolitano di New York. Nel maggio del 1984 é stata trasferita in quello di Pleasanton in California.
Il primo appello di Silvia presso la Corte federale di New York é stato respinto il 28 marzo 1985. La Corte ha ammesso la debolezza delle prove portate contro l'imputata, ma ha confermato la pena a 43 anni. Nel 1986 é stata respinta dalla Corte di Giustizia competente una mozione umanitaria per la riduzione della pena.
Quando Silvia é stata arrestata, il 9 novembre del 1982, gli agenti della squadra antiterrorismo dell'Fbi le hanno offerto 25.000 dollari, pari a circa trenta milioni di allora, per denunciare i compagni. Nel settembre del 1985 sono tornati alla carica e questa volta le hanno offerto la libertà. Ma la Baraldini non ha accettato, perché non ha inteso scambiare la sua vita con quella degli altri. Essendosi rifiutata di collaborare, nel gennaio del 1987, é stata giudicata come detenuta pericolosa e trasferita nell'unità sotterranea di massima sicurezza della prigione federale di Lexington, le sue condizioni detentive sono risultate disumane, come si conviene ad un luogo dove si adottano trattamenti che mirano all'annientamento della personalità dei detenuti: isolamento totale in cella sotterranea, perquisizioni corporali continue, luce accesa giorno e notte, l'occhio del monitor addosso anche al bagno, sistematica interruzione del sonno: deprivazione sensoria, cioé un tipo di illuminazione artificale che impediva di distinguere qualsiasi colore.
La sua cella era un cunicolo di quattro metri per due, arredata con una branda, un tavolino, una sedia e un lavandino d'acciaio. Non aveva una finestra vera e propria perché il braccio di isolamento era ricavato in un sotterraneo.
Il regolamento del carcere le vietava il possesso di oggetti personali. Non poteva appendere fotografie al muro ed aveva diritto soltanto a cinque libri per volta. Aveva un'ora d'aria, in un cortile dalle mura altissime dove si vedeva solo un pezzo di cielo.
La sveglia era alle sei del mattino e subito dopo riceveva la colazione attraverso il passavivande. Nella stanza che serviva per la mensa c'era posto solo per tre persone; così a rotazione, ogni due o tre giorni, poteva mangiare con le sue compagne, che erano due detenute politiche e tre comuni.
Le avevano imposto una rigidissima censura alla posta e anche una lista di non più di quindici persone con le quali corrispondere. Aveva diritto a ricevere visite ma solo su appuntamento e poteva essere visitata solo una detenuta per volta. Per il contatto con l'esterno, oltre alla posta, poteva usare il telefono due volte alla settimana per quindici minuti.
Lavorava per otto ore al giorno. In un primo tempo doveva piegare mutande per l'esercito americano per undici centesimi l'ora; ma un'attività così ripetitiva in uno spazio tanto angusto, finiva per schiacciare la mente. Così ha protestato e dopo un braccio di ferro durante il quale per un mese le hanno tolto l'ora d'aria, ha ottenuto il permesso di fare altre cose.
Inizialmente non l'hanno fatta dormire per tre mesi. Tutte le notti, ogni venti minuti, veniva svegliata e una guardia le puntava la luce della sua torcia elettrica negli occhi.
Nel locale della doccia comune c'era una telecamera e poi parecchie volte al giorno la sottoponevano a minuziose e umilianti ispezioni durante le quali doveva mostrare ogni cavità del suo corpo.
In seguito alla sua lotta e a quella di altre detenute e agli interventi dell'associazione americana per i diritti civili e di alcune chiese protestanti, alcune cose sono migliorate. Ha ottenuto almeno una tenda di plastica davanti alla doccia e la possibilità di corrispondere liberamente con chiunque lei volesse.
Silvia ha trascorso diciannove mesi nell'inferno di Lexington, inventato per tre detenute irriducibili: per lei, per Alejandrina Torres, per Susan Rosenberg.
Le organizzazioni americane per la difesa dei diritti civili hanno definito il carcere di Lexington "un centro di tortura mentale e di deprivazione sensoria" per detenuti politici e la "vergogna di un paese civile". Contro il carcere è stata iniziata una campagna di denuncia da parte di gruppi legali e religiosi, che hanno portato il caso all'attenzione delle Nazioni Unite a Ginevra e nello stesso Summit Usa-Urss del 1988.
Nel luglio del 1988 il giudice Barrington Parker ha accolto l'appello della Baraldini e della Rosenberg, sostenuto in questo da Amnesty International e dalla American Civil Liberties Union, riconoscendo incostituzionali, in quanto dovute a cause politiche, le condizioni speciali di detenzione ed ordinando la chiusura dell'unità di massima sicurezza del carcere di Lexington.