Lucio Manisco
Non ha ucciso, non ha sparato, non ha usato armi. Silvia Baraldini
è stata condannata a 43 anni di carcere per aver appoggiato la fuga,
incruenta, di una detenuta del movimento di liberazione nero da una
prigione del New Jersey. Hanno firmato un appello oltre cento
parlamentari di diversi partiti. È intervenuto Francesco Cossiga.
Ma il Dipartimento della Giustizia americano ha di nuovo negato
l'estradizione, in spregio di tutti i trattati internazionali. E il
governo italiano? "Dimostra scarso interesse..." Silvia,
I'orgogliosa Silvia, due volte operata di cancro, aspetta che
l'Italia alzi la voce.
New York.
Gli Stati Uniti non sono ancora "pronti" ad estradare in Italia
Silvia Baraldini in applicazione della Convenzione di Strasburgo che
riconosce ai connazionali condannati all'estero il diritto di
scontare un'equivalente pena nel paese natale.
L' ennesima obiezione americana comunicata al nostro ministero degli
Esteri a fine marzo concerne "l'atteggiamento" della detenuta
durante la sua carcerazione a partire dal 15 febbraio 1984 nei
penitenziari del Metropolitan Correctional Center di New York, di
Pleasanton in California, di Lexington nel Kentucky e nuovamente nel
Metropolitan Correctional Center newyorkese ove è presentemente
reclusa. Dato che nell'ordinamento giudiziario degli Stati Uniti
non esiste la configurazione di "prigioniero politico", l'
atteggiamento di un detenuto non può coinvolgere le sue convinzioni
o il ripudio delle stesse, bensì la sua osservanza degli statuti
carcerari, eventuali insubordinazioni, minacce o altre infrazioni.
A scorrere la voluminosa documentazione raccolta in un dossier o
"Libro Bianco" sui casi di Silvia Baraldini e delle sue compagne
Alejandrina Torres e Susan Rosenberg, in corso di compilazione a
cura dei loro legali, della "American Civil Liberties Union" e di
Nina Rosenblum, la regista del documentario sulle vicende delle tre
detenute - "Through The Wire", Festival di Berlino 1990 - si trovano
ben poche tracce di queste infrazioni addebitate dalle autorità dei
tre istituti penali alla cittadina italiana: una sola
insubordinazione, il suo rifiuto di aprirsi con le mani le natiche
durante una delle quotidiane "ispezioni delle cavità del corpo"
condotte dai secondini nella speciale unità di controllo psicofisico
di Lexington, e poi una mezza dozzina di sue proteste scritte contro
i comportamenti arbitrari del personale di custodia ovvero contro la
privazione nei suoi confronti del diritto ad alcune visite di non
familiari riconosciuto alle altre detenute.
Positivi invece i rapporti delle autorità carcerarie sull'
assistenza sociale prestata dalla Baraldini alle compagne di
detenzione e sui corsi di lingua inglese da lei tenuti a Pleasanton
ed ora allo M.c.c. alle detenute ispano-americane. È stato
comunque osservato che la Convenzione di Strasburgo non contempla
eccezioni all'estradizione dovute all'atteggiamento carcerario di un
detenuto.
Lo scorso febbraio l'ufficio dello "Attorney General" - il ministro
di Giustizia americano - aveva sollevato presso le autorità italiane
un'altra riserva sull'estradizione della Baraldini, citando le voci
secondo cui essa avrebbe potuto godere di arresti domiciliari o
libertà provvisoria e vigilata dopo un periodo troppo breve di
detenzione in Italia. Malgrado gli aspetti delicati e complessi
della questione che coinvolge l'indipendenza della magistratura
dall'esecutivo nel nostro Paese, su intervento del ministro degli
Esteri Gianni De Michelis, il ministro di Grazia e Giustizia fornì
allo "Attorney General" assicurazioni sull'intento italiano di
osservare scrupolosamente su questo caso tutte le norme, anche le
più vincolanti, della Convenzione di Strasburgo.
Secondo Elizabeth Fink, legale della Baraldini, obiezioni e remore
avanzate dal Dipartimento di giustizia americano sono pretestuose e
motivate da un lato da spirito vendicativo nei confronti della
detenuta, dall'altro dall'assunto che le autorità governative
italiane con l'impostazione tardiva, burocratica e da normale
amministrazione data al caso abbiano manifestato un interesse del
tutto marginale alla sua soluzione.
Il "Libro Bianco" succitato avalla e documenta questo assunto con
l'inclusione di carteggi riservati provenienti dalla Farnesina
subito dopo la caduta del governo De Mita: viene ad esempio
sottolineata l'anomalia dell'inoltro della richiesta di estradizione
- con un ritardo di tre mesi sulla ratifica parlamentare della
convenzione -, una richiesta effettuata su iniziativa personale
dell'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Peter Secchia. Vengono
citati gli inesplicabili ritardi prima e dopo lo scorso luglio da
parte dell'ambasciata d'Italia a Washington nello sbrigare pratiche
preliminari, nel rispondere a quesiti, nell'inoltrare documenti alle
autorità americane.
Viene parimenti menzionata sulla base di una testimonianza resa da
un funzionario del Department of Justice un'importante eccezione,
l'energico, appassionato intervento a favore della Baraldini presso
lo Attorney General Dick Thornburg del Presidente della Repubblica
Francesco Cossiga durante la sua visita a Washington dello scorso
ottobre. Subito dopo - viene osservato nel Libro Bianco - da parte
italiana c'è stato un ritorno alla normale amministrazione. Se ne è
avuta una conferma nella conferenza stampa indetta a Washington dal
presidente del Consiglio Andreotti il 6 marzo; alla domanda se
intendesse sollevare la questione della Baraldini nei suoi colloqui
con gli esponenti governativi statunitensi, l'onorevole Andreotti ha
testualmente replicato: "Veramente nei colloqui qui, non direi; nel
senso cioè che è un problema che il ministero degli Esteri, già
prima e adesso con De Michelis, ha seguito molto attentamente, che
il ministro di Grazia e Giustizia nel suo ambito ha deciso di
seguire. Ci auguriamo così che venga risolto in termini brevi, in
quella che è ormai una questione procedurale e non politica".
Pareri analoghi sono stati espressi in merito da due personaggi
politici italiani, la radicale Emma Bonino e il presidente della
Regione Emilia-Romagna Luciano Guerzoni che poche settimane fa hanno
visitato Silvia Baraldini nel carcere newyorkese: hanno ambedue
definito inammissibile l'inadempienza, per la carenza di più
energici interventi del nostro governo, di un trattato
internazionale ratificato prima dagli Stati Uniti e poi dal
parlamento italiano ed hanno sottolineato come ritardi
nell'estradizione della detenuta, quali che siano le motivazioni
ufficiali addotte, rappresentino un'offesa per l'opinione pubblica
del nostro paese.
In un'intervista telefonica, rilasciataci domenica scorsa, Silvia
Baraldini ha detto di ignorare se esistano o meno responsabilità
italiane, ma si è dichiarata certa dell'intenzione del Dipartimento
di giustizia USA di tenerla in un carcere americano più a lungo
possibile.
Partendo da questa certezza ha inoltrato tramite il suo avvocato la
richiesta di essere trasferita in un penitenziario federale ove
possa ricevere l'assistenza medica prescritta dai chirurghi che
l'hanno operata due volte di cancro uterino nel 1987 (lo Mcc di New
York è un carcere giudiziario superaffollato, privo di una vera e
propria infermeria, di attrezzature mediche adeguate e persino di un
cortile o di un'area qualsiasi ove i detenuti possano passeggiare
per un'ora all'aperto).
Uno strano personaggio questa Baraldini: ostenta una certa durezza
di carattere per mimetizzare le crisi di sconforto inevitabili da
quando lo scorso ottobre il ministro degli Esteri De Michelis
manifestò a Washington la convinzione che sarebbe stata estradata in
Italia di lì a due mesi. Non rivela rancore per le autorità
statunitensi, ma asserisce di comprendere fin troppo bene lo spirito
vendicativo che determina i loro comportamenti nei suoi confronti:
la verità è che la Baraldini prima, durante e dopo il processo
conclusosi con una pesantissima condanna a 43 anni di reclusione non
ha collaborato con gli inquirenti, con l'Fbi, con i magistrati che
hanno condotto istruttorie su reati paralleli imputati ai compagni
del " 19 maggio", il movimento politico in cui militava all'inizio
degli anni Settanta, o dell' altro raggruppamento, "La famiglia",
che svolse in maniera piuttosto dilettantesca un ruolo di appoggio
logistico ad organizzazioni rivoluzionarie afro-americane come le
Pantere nere o l'Esercito Popolare di Liberazione.
I reati specifici di cui la cittadina italiana è stata riconosciuta
colpevole non includono sparatorie, spargimenti di sangue,
detenzione di esplosivi o di armi da fuoco. Sono solo tre che
trascriviamo nella dizione giuridica americana: "18 US Code/Section
1962":
1) Suddivisione C: intento di cospirare in attività criminose
punibili ai termini della legge "anti-mafia" R.i.c.o.
("Racketeering Influenced Corrupt Organization Act"), in pratica
reati associativi per aver militato nel "19 maggio" e ne "La
famiglia"; i crimini commessi da un membro dei due movimenti sono
stati automaticamente imputati a tutti gli altri membri, tra cui la
Baraldini, anche se è stata riconosciuta la sua non partecipazione
diretta o indiretta alla perpetrazione dei suddetti crimini (rapine
o tentate rapine a mano armata).
2) Suddivisione D: compartecipazione in un reato contemplato dal
R.i.c.o., l'evasione incruenta della rivoluzionaria afroamericana Jo
Ann Chessimard, alias Assata Shakur, dal penitenziario federale di
Clinton nel NewJersey (la Shakur ha trovato asilo politico a Cuba
dove ha scritto un'autobiografia, "Assata", pubblicata con buon
successo di pubblico negli USA).
3) "28 US Code, Sezione 401": "Contempt of Court". Rifiuto della
Baraldini, colpita in stato di detenzione da un ordine di
comparizione, di testimoniare davanti ad un "Gran Giurì" che
conduceva un'indagine sulle attività rivoluzionarie degli
indipendentisti portoricani.
È stato comunque il reato del paragrafo 2, la partecipazione
all'evasione della rivoluzionaria afro-americana - uno dei più duri
scacchi inflitti all'Fbi - quello che ha provocato l'applicazione
massimale dei rigori della legge nei confronti della cittadina
italiana che durante il processo mantenne un atteggiamento di sfida
nei confronti del giudice Duffy e poi declinò costantemente di farsi
interrogare dai "Feds".
L'iter seguito dalla Baraldini per arrivare ad una radicalizzazione
ideologica e politica è tipico di quello degli studenti statunitensi
del 1968, sui fili conduttori cioè dell'opposizione alla guerra del
Vietnam e della lotta per l'uguaglianza degli afro-americani.
L'etichetta di "sessantottina" è comunque troppo limitativa, sia per
la sua cultura e per la sua approfondita conoscenza dei problemi
sociali ed economici che affliggono gli Stati Uniti sia per
l'ambiente familiare in cui è cresciuta insieme alla sorella Marina,
morta lo scorso anno nell'aereo oggetto di un attentato terroristico
in Africa: quella dei Baraldini è una famiglia di antifascisti: (uno
zio venne ucciso dalle squadre fasciste negli anni Venti) che si
trasferì negli Stati Uniti nel dopoguerra.
Avvenimenti 11 Aprile 1990