Come liberare Silvia dal carcere

Lucio Manisco
Avvenimenti 11 Aprile 1990

Non ha ucciso, non ha sparato, non ha usato armi. Silvia Baraldini è stata condannata a 43 anni di carcere per aver appoggiato la fuga, incruenta, di una detenuta del movimento di liberazione nero da una prigione del New Jersey. Hanno firmato un appello oltre cento parlamentari di diversi partiti. È intervenuto Francesco Cossiga. Ma il Dipartimento della Giustizia americano ha di nuovo negato l'estradizione, in spregio di tutti i trattati internazionali. E il governo italiano? "Dimostra scarso interesse..." Silvia, I'orgogliosa Silvia, due volte operata di cancro, aspetta che l'Italia alzi la voce.

New York.

Gli Stati Uniti non sono ancora "pronti" ad estradare in Italia Silvia Baraldini in applicazione della Convenzione di Strasburgo che riconosce ai connazionali condannati all'estero il diritto di scontare un'equivalente pena nel paese natale.

L' ennesima obiezione americana comunicata al nostro ministero degli Esteri a fine marzo concerne "l'atteggiamento" della detenuta durante la sua carcerazione a partire dal 15 febbraio 1984 nei penitenziari del Metropolitan Correctional Center di New York, di Pleasanton in California, di Lexington nel Kentucky e nuovamente nel Metropolitan Correctional Center newyorkese ove è presentemente reclusa. Dato che nell'ordinamento giudiziario degli Stati Uniti non esiste la configurazione di "prigioniero politico", l' atteggiamento di un detenuto non può coinvolgere le sue convinzioni o il ripudio delle stesse, bensì la sua osservanza degli statuti carcerari, eventuali insubordinazioni, minacce o altre infrazioni.

A scorrere la voluminosa documentazione raccolta in un dossier o "Libro Bianco" sui casi di Silvia Baraldini e delle sue compagne Alejandrina Torres e Susan Rosenberg, in corso di compilazione a cura dei loro legali, della "American Civil Liberties Union" e di Nina Rosenblum, la regista del documentario sulle vicende delle tre detenute - "Through The Wire", Festival di Berlino 1990 - si trovano ben poche tracce di queste infrazioni addebitate dalle autorità dei tre istituti penali alla cittadina italiana: una sola insubordinazione, il suo rifiuto di aprirsi con le mani le natiche durante una delle quotidiane "ispezioni delle cavità del corpo" condotte dai secondini nella speciale unità di controllo psicofisico di Lexington, e poi una mezza dozzina di sue proteste scritte contro i comportamenti arbitrari del personale di custodia ovvero contro la privazione nei suoi confronti del diritto ad alcune visite di non familiari riconosciuto alle altre detenute.

Positivi invece i rapporti delle autorità carcerarie sull' assistenza sociale prestata dalla Baraldini alle compagne di detenzione e sui corsi di lingua inglese da lei tenuti a Pleasanton ed ora allo M.c.c. alle detenute ispano-americane. È stato comunque osservato che la Convenzione di Strasburgo non contempla eccezioni all'estradizione dovute all'atteggiamento carcerario di un detenuto.

Lo scorso febbraio l'ufficio dello "Attorney General" - il ministro di Giustizia americano - aveva sollevato presso le autorità italiane un'altra riserva sull'estradizione della Baraldini, citando le voci secondo cui essa avrebbe potuto godere di arresti domiciliari o libertà provvisoria e vigilata dopo un periodo troppo breve di detenzione in Italia. Malgrado gli aspetti delicati e complessi della questione che coinvolge l'indipendenza della magistratura dall'esecutivo nel nostro Paese, su intervento del ministro degli Esteri Gianni De Michelis, il ministro di Grazia e Giustizia fornì allo "Attorney General" assicurazioni sull'intento italiano di osservare scrupolosamente su questo caso tutte le norme, anche le più vincolanti, della Convenzione di Strasburgo.

Secondo Elizabeth Fink, legale della Baraldini, obiezioni e remore avanzate dal Dipartimento di giustizia americano sono pretestuose e motivate da un lato da spirito vendicativo nei confronti della detenuta, dall'altro dall'assunto che le autorità governative italiane con l'impostazione tardiva, burocratica e da normale amministrazione data al caso abbiano manifestato un interesse del tutto marginale alla sua soluzione.

Il "Libro Bianco" succitato avalla e documenta questo assunto con l'inclusione di carteggi riservati provenienti dalla Farnesina subito dopo la caduta del governo De Mita: viene ad esempio sottolineata l'anomalia dell'inoltro della richiesta di estradizione - con un ritardo di tre mesi sulla ratifica parlamentare della convenzione -, una richiesta effettuata su iniziativa personale dell'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Peter Secchia. Vengono citati gli inesplicabili ritardi prima e dopo lo scorso luglio da parte dell'ambasciata d'Italia a Washington nello sbrigare pratiche preliminari, nel rispondere a quesiti, nell'inoltrare documenti alle autorità americane.

Viene parimenti menzionata sulla base di una testimonianza resa da un funzionario del Department of Justice un'importante eccezione, l'energico, appassionato intervento a favore della Baraldini presso lo Attorney General Dick Thornburg del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga durante la sua visita a Washington dello scorso ottobre. Subito dopo - viene osservato nel Libro Bianco - da parte italiana c'è stato un ritorno alla normale amministrazione. Se ne è avuta una conferma nella conferenza stampa indetta a Washington dal presidente del Consiglio Andreotti il 6 marzo; alla domanda se intendesse sollevare la questione della Baraldini nei suoi colloqui con gli esponenti governativi statunitensi, l'onorevole Andreotti ha testualmente replicato: "Veramente nei colloqui qui, non direi; nel senso cioè che è un problema che il ministero degli Esteri, già prima e adesso con De Michelis, ha seguito molto attentamente, che il ministro di Grazia e Giustizia nel suo ambito ha deciso di seguire. Ci auguriamo così che venga risolto in termini brevi, in quella che è ormai una questione procedurale e non politica".

Pareri analoghi sono stati espressi in merito da due personaggi politici italiani, la radicale Emma Bonino e il presidente della Regione Emilia-Romagna Luciano Guerzoni che poche settimane fa hanno visitato Silvia Baraldini nel carcere newyorkese: hanno ambedue definito inammissibile l'inadempienza, per la carenza di più energici interventi del nostro governo, di un trattato internazionale ratificato prima dagli Stati Uniti e poi dal parlamento italiano ed hanno sottolineato come ritardi nell'estradizione della detenuta, quali che siano le motivazioni ufficiali addotte, rappresentino un'offesa per l'opinione pubblica del nostro paese.

In un'intervista telefonica, rilasciataci domenica scorsa, Silvia Baraldini ha detto di ignorare se esistano o meno responsabilità italiane, ma si è dichiarata certa dell'intenzione del Dipartimento di giustizia USA di tenerla in un carcere americano più a lungo possibile.

Partendo da questa certezza ha inoltrato tramite il suo avvocato la richiesta di essere trasferita in un penitenziario federale ove possa ricevere l'assistenza medica prescritta dai chirurghi che l'hanno operata due volte di cancro uterino nel 1987 (lo Mcc di New York è un carcere giudiziario superaffollato, privo di una vera e propria infermeria, di attrezzature mediche adeguate e persino di un cortile o di un'area qualsiasi ove i detenuti possano passeggiare per un'ora all'aperto).

Uno strano personaggio questa Baraldini: ostenta una certa durezza di carattere per mimetizzare le crisi di sconforto inevitabili da quando lo scorso ottobre il ministro degli Esteri De Michelis manifestò a Washington la convinzione che sarebbe stata estradata in Italia di lì a due mesi. Non rivela rancore per le autorità statunitensi, ma asserisce di comprendere fin troppo bene lo spirito vendicativo che determina i loro comportamenti nei suoi confronti: la verità è che la Baraldini prima, durante e dopo il processo conclusosi con una pesantissima condanna a 43 anni di reclusione non ha collaborato con gli inquirenti, con l'Fbi, con i magistrati che hanno condotto istruttorie su reati paralleli imputati ai compagni del " 19 maggio", il movimento politico in cui militava all'inizio degli anni Settanta, o dell' altro raggruppamento, "La famiglia", che svolse in maniera piuttosto dilettantesca un ruolo di appoggio logistico ad organizzazioni rivoluzionarie afro-americane come le Pantere nere o l'Esercito Popolare di Liberazione.

I reati specifici di cui la cittadina italiana è stata riconosciuta colpevole non includono sparatorie, spargimenti di sangue, detenzione di esplosivi o di armi da fuoco. Sono solo tre che trascriviamo nella dizione giuridica americana: "18 US Code/Section 1962":

1) Suddivisione C: intento di cospirare in attività criminose punibili ai termini della legge "anti-mafia" R.i.c.o. ("Racketeering Influenced Corrupt Organization Act"), in pratica reati associativi per aver militato nel "19 maggio" e ne "La famiglia"; i crimini commessi da un membro dei due movimenti sono stati automaticamente imputati a tutti gli altri membri, tra cui la Baraldini, anche se è stata riconosciuta la sua non partecipazione diretta o indiretta alla perpetrazione dei suddetti crimini (rapine o tentate rapine a mano armata).

2) Suddivisione D: compartecipazione in un reato contemplato dal R.i.c.o., l'evasione incruenta della rivoluzionaria afroamericana Jo Ann Chessimard, alias Assata Shakur, dal penitenziario federale di Clinton nel NewJersey (la Shakur ha trovato asilo politico a Cuba dove ha scritto un'autobiografia, "Assata", pubblicata con buon successo di pubblico negli USA).

3) "28 US Code, Sezione 401": "Contempt of Court". Rifiuto della Baraldini, colpita in stato di detenzione da un ordine di comparizione, di testimoniare davanti ad un "Gran Giurì" che conduceva un'indagine sulle attività rivoluzionarie degli indipendentisti portoricani.

È stato comunque il reato del paragrafo 2, la partecipazione all'evasione della rivoluzionaria afro-americana - uno dei più duri scacchi inflitti all'Fbi - quello che ha provocato l'applicazione massimale dei rigori della legge nei confronti della cittadina italiana che durante il processo mantenne un atteggiamento di sfida nei confronti del giudice Duffy e poi declinò costantemente di farsi interrogare dai "Feds".

L'iter seguito dalla Baraldini per arrivare ad una radicalizzazione ideologica e politica è tipico di quello degli studenti statunitensi del 1968, sui fili conduttori cioè dell'opposizione alla guerra del Vietnam e della lotta per l'uguaglianza degli afro-americani.

L'etichetta di "sessantottina" è comunque troppo limitativa, sia per la sua cultura e per la sua approfondita conoscenza dei problemi sociali ed economici che affliggono gli Stati Uniti sia per l'ambiente familiare in cui è cresciuta insieme alla sorella Marina, morta lo scorso anno nell'aereo oggetto di un attentato terroristico in Africa: quella dei Baraldini è una famiglia di antifascisti: (uno zio venne ucciso dalle squadre fasciste negli anni Venti) che si trasferì negli Stati Uniti nel dopoguerra.