Intervista esclusiva:
Per la prima volta il governo degli Stati Uniti ha concesso un
colloquio con Silvia Baraldini, condannata a 43 anni per
terrorismo
Franca Zambonini
I capelli sono tutti grigi, tagliati corti, gli occhi celeste chiaro
guardano dritto, il parlare è preciso e non emotivo, con punte di
ironia e perfino qualche risata che libera dalla tensione. Nelle
cinque ore passate con lei, Silvia Baraldini mi è parsa nel
complesso serena per essere una donna di 44 anni condannata dalla
giustizia americana a 43 anni di carcere.
Ne ha già scontati dieci in varie prigioni degli Stati Uniti.
Adesso è detenuta nell'unità di massima sicurezza della Federal
Correction Institution, la prigione federale di Marianna, Florida.
Questa è la prima intervista che le è stato concesso di rilasciare.
Né io né Silvia sappiamo spiegarci perché. Forse, ma è solo una mia
ipotesi, il permesso d'incontrarci rappresenta un minuscolo gesto di
comprensione dopo che a Silvia è arrivata, proprio in questi giorni,
l'ultima botta: le autorità americane hanno respinto per la seconda
volta la richiesta delle autorità italiane di estradarla per farle
scontare il resto della pena in un carcere nostrano. Eppure in suo
favore erano intervenuti negli anni Cossiga, Andreotti, De Michelis,
Martelli, dall'alto dei loro incarichi pubblici. Niente da fare.
"Ma no, non è stata questa gran botta. Me l'aspettavo. Il trauma
vero l'ho avuto quando mi hanno negato l'estradizione la prima
volta, il 20 dicembre del 1990. Comincia a prepararti per il
ritorno, mi scrivevano i miei amici dall' Italia. Quel "no"
inatteso è stato uno choc duro da assorbire".
L'estradizione era stata chiesta in base alla Convenzione di
Strasburgo, che concede a un condannato in un altro Paese di
scontare la pena in un carcere del Paese d'origine. Perchè nel suo
caso gli americani hanno detto no, pur avendo sottoscritto la
Convenzione?
"Ho molti dubbi sul comportamento delle autorità italiane. Il
periodo in cui fu avanzata la richiesta coincideva con lo scandalo
della filiale di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro, che aveva
prestato miliardi a Saddam Hussein. Adesso i giornali rivelano che
alcuni politici italiani fecero pressioni presso l'allora ministro
della Giustizia Richard Thornburg affinchè il ruolo dei funzionari
italiani della Bnl in quella vicenda venisse ignorato o non
sottolineato. La mia idea è che gli italiani non hanno voluto
imporsi con due interventi contemporanei: uno, molto delicato, a
favore della Bnl e uno, molto sgradevole, a favore di una persona
scomoda come me, cittadina italiana condannata in America per atti
di terrorismo".
Il rifiuto è stato motivato dal viceministro della Giustizia Robert
S. Mueller dal "nostro timore che, nel caso tornasse in Italia, la
Baraldini sconterebbe una pena sostanzialmente minore di quella
comminatale negli Stati Uniti. Tale eventualità sarebbe per noi
inaccettabile per i seguenti motivi:
Non ha mai ucciso nessuno, né sparato contro nessuno.
È stata condannata a 40 anni per "cospirazione" in base alla legge
"Rico", più altri tre anni per "sprezzo contro la Corte".
"Rico" è la sigla di Racketeering Influenced and Corrupt Organization
Act. è la legge promulgata per colpire la mafia e la criminalità
organizzata. Chi fa parte di un'associazione per delinquere diventa
automaticamente corresponsabile dei suoi reati più gravi. La "Rico"
è stata estesa ai movimenti terroristici. "Io non sono una
terrorista, ma una prigioniera politica. In pratica mi sono stati
imputati solo due reati concreti: la partecipazione all'evasione
della rivoluzionaria nera Joanne Chesimard, che è scappata a Cuba;
un tentativo di rapina che non è mai successa. Il resto me lo hanno
addossato con la legge "Rico". Hanno paura che se vengo estradata
in Italia sarò scarcerata molto presto? Io non l'ho mai pensato,
non vedo in Italia tutte queste scarcerazioni. E temono che se per
assurdo tornassi in libertà potrei rappresentare un pericolo per
l'America? Ma andiamo, è assolutamente ridicolo che il Paese più
potente del mondo abbia paura della povera Baraldini".
Allora, perché vuol venire a scontare la pena in Italia? "Dopo la
morte di mia sorella Marina, mia madre è rimasta sola, voglio
esserle vicina anche se in prigione. E poi perché credo che
qualsiasi carcere italiano sia meglio di quelli americani, che sono
efficienti, pulitissimi, organizzatissimi, ma ignorano i bisogni
delle persone detenute".
Rassegnata? "No, per favore, non voglio usare questa parola. Ho
vissuto finora con la speranza di essere estradata, quindi con un
piede emotivo in Italia e l'altro reale negli Stati Uniti. Ma ora
la realtà è che sono in una prigione americana e ci resterò a lungo.
Questa certezza mi aiuta a darmi uno scopo qui in carcere. Non è
questione di resistere. Il 9 novembre finiscono i miei primi dieci
anni di detenzione, ne ho passate di peggio e ho dimostrato di saper
resistere. Non è neanche questione di sopravvivere al regime
carcerario, ma di viverci. Mi sono riorganizzata su questa base.
Ho ripreso a studiare per quella laurea in storia che non avevo mai
preso".
Nell'inferno di Lexington
"La mattina lavoro alla biblioteca legale del carcere. Aiuto le
altre detenute a scrivere ai giudici, agli avvocati. Poi faccio
esercizio fisico, voglio tenermi in forma. Siccome sono la nona
nella graduatoria di anzianità carceraria ho ottenuto il privilegio
di una cella singola. Questo è un carcere di massima sicurezza,
cioè con un livello molto sofisticato di custodia, altoparlanti in
cella e il controllo di ogni conversazione, e anche piccoli
trasferimenti per una visita sanitaria esigono le manette e la
cosiddetta "scatola nera" che non ti permette di muovere le mani...
Ma insomma, una come me che ha passato 19 mesi nell'inferno di
Lexington qui respira".
L'inferno di Lexington. Un carcere sotterraneo, sofisticatamente
persecutorio inventato per tre detenute irreducibili e la Baraldini
era una delle tre: isolamento totale, luci sempre accese,
oltraggiose perquisizioni, bagni senza porte, e per tre mesi di fila
la tortura della sveglia notturna ogni venti minuti. Con un
trattamento simile, noi che eravamo tutte e tre persone adattabili e
perfino allegre, ci comportavamo come belve feroci". Dopo una
campagna di denuncia da parte di Amnesty International contro il
carcere di Lexington, definito la vergogna di un Paese civile, gli
Stati Uniti sono stati costretti a chiuderlo.
A Lexington Silvia si è ammalata di cancro. Attribuisce la malattia
a una somatizzazione delle torture psicologiche. È stata
trasferita a Rochester e operata due volte, le hanno tolto l'utero.
Poi è stata mandata a Marianna.
Marianna, nel Nord della Florida, sorge ai lati della Statale 90.
Una cittadina incredibilmente lunga e stretta, sparsa qua e là, due
miglia separano la Chiesa Battista dell'Est dalla Chiesa Battista
dell'Ovest, il tribunale è distante tre miglia dalla posta,
dall'unico motel alla prigione corrono cinque miglia.
Questo nonsenso geografico è stato fondato da uno scozzese di cui
non si ricorda il nome, mentre si ricorda quello della moglie:
Marianna, appunto. È in mezzo a foreste e acquitrini, i grandi
alberi hanno quelle lunghe barbe pendenti che si vedono in tutte le
foto della Florida, fa molto caldo e umido, un tempo era il regno
degli indiani Seminole, e Seminole si chiama il grande lago. Attira
cacciatori e pescatori, produce cocomeri, meloni e zucche venduti in
capanne ai lati della strada. Ha una sola industria, la Federal
Correction Institution, la prigione federale, molto moderna,
costruita nell'88, sparsa anch'essa per miglia su una pianura
ondulata e rapata di ogni vegetazione che non sia l'erbetta.
L'Unità femminile di massima sicurezza è a un paio di miglia
dall'ingresso centrale, isolata rispetto agli altri edifici. Il mio
arrivo è stato preceduto da un lungo carteggio col Dipartimento di
Giustizia: mi sono impegnata a studiare le otto pagine del
regolamento federale sui rapporti carcerari con la stampa, ad
assumermi le eventuali conseguenze dei rischi connessi ad una visita
alla prigione, a non introdurre né armi né droga, si capisce, ma
neppure soldi, o libri o fogli di carta, a non rivolgere la parola a
nessun'altra detenuta che non fosse la Baraldini.
Quando mi presento, alle otto e mezzo di un mattino caldo e
nebbioso, le formalità sono tutte gentilmente facilitate. Nessuna
perquisizione, borsa, giornali e giacca in un armadietto di cui
tengo la chiave, posso portare in mano il registratore, la macchina
fotografica e il fazzoletto. Mi stampano sulla mano sinistra un
marchio con inchiostro invisibile. Io non lo vedo, ma lo vedono gli
occhietti elettronici che mi seguono localizzando ogni mio
movimento; una detenuta potrebbe impadronirsi dei miei vestiti per
tentare la fuga, ma non di quel mio marchio invisibile senza il
quale non farebbe un passo.
Silvia m'è venuta incontro nella stanzetta separata del parlatorio,
insieme con la guardiana che assisterà al nostro colloquio. Indossa
una maglietta bianca sui jeans, una maglietta "militante" contro
l'Aids, con le parole: "Ignoranza uguale Paura, Silenzio uguale
Morte". è un po' ingrassata rispetto alle sue ultime foto.
"Sì, sto bene. Ho il senso dell'umorismo, mi adatto, riesco a
mangiare perfino quel cibo indescrivibile che passano nelle carceri
americane".
Non ha pena per la sua giovinezza sprecata, gli anni migliori
buttati via? "Accetto le conseguenze delle decisioni che ho preso.
Non puoi tirarti indietro se scopri che le cose sono più dure di
come te le figuravi. E poi in prigione ti inventi una vita che ha
valori e significato. Vorrei convincere la gente che non sono una
vittima delle circostanze, ma una responsabile delle mie scelte.
Anche nei periodi più duri, quando ero rabbiosa e malata, ho cercato
il lato positivo. Manca la libertà, che è fondamentale. Ma ho
interessi, amicizie. A Lexington vincemmo la battaglia contro quel
carcere disumano, che non poteva continuare ad esistere per essere
usato contro altri dopo di noi. Oggi la maggior parte di noi
detenute politiche ci occupiamo di migliorare le condizioni in
carcere, abbiamo la capacità organizzativa imparata nei movimenti, i
nostri contatti e gruppi di opinione ci danno risorse che possono
essere utili alle altre. Qui per esempio, facciamo lavoro di
informazione sull'Aids per le detenute: l'ottanta per cento sono
condannate per reati di droga. L'Aids è l'epidemia delle carceri
americane, una tragedia ignorata dalle autorità".
"Una brava ragazza con idee sbagliate"
Sua madre Maria Dolores, che vive a Roma, ha detto di lei: "Silvia è
una brava ragazza, sono le sue idee ad essere sbagliate". Riferisco
il giudizio e Silvia ha una di quelle risate così sorprendenti
dentro queste mura sinistre tinte di bianco accecante "Con mia madre
ho un rapporto franco e aperto. La mia detenzione ci ha forzate a
parlarci in maniera brutalmente onesta. Per lei e per la mia povera
sorella Marina dev'essere stato un gran passo, molto sofferto,
quando hanno deciso di appoggiarmi".
Le sorelle Baraldini, nate a Roma, raggiunsero i genitori negli
Stati Uniti quando Silvia aveva 14 anni e Marina 10. Il padre,
Michele, era prima dipendente dell'Olivetti a New York, poi
impiegato all'ambasciata italiana a Washington (è morto di infarto
nel '68). "In America ci sentimmo subito due spaesate. Marina,
soprattutto, non si è mai abituata; finita l'università è tornata in
Europa, a 22 anni. Era una ragazza particolarmente intelligente e
delicata, ha trovato subito lavoro, prima al Parlamento europeo e
poi alla Cee".
Le due ragazze volevano cambiare il mondo, anche se attraverso
strade opposte. La vicenda di Marina, che in Italia aveva smosso
l'opinione pubblica in favore della sorella, è tragicamente finita
nel 1988. L'aereo su cui viaggiava come capo della missione europea
di aiuto ai Paesi del Sahel, è esploso sulla Nigeria, forse per una
bomba. Silvia piange ricordando la sorella: "Specialmente negli
ultimi tempi avevamo imparato ad appoggiarci a vicenda. Mi
sconvolge il pensiero che, se mai tornerò in Italia, non la troverò
più".
Il primo incontro di Silvia con la politica risale al suo ultimo
anno di liceo quando entrò a far parte di un gruppo studentesco che
appoggiava la protesta per i diritti civili dei neri. Poi si
iscrisse all'università statale del Wisconsin, la più impegnata
degli Stati Uniti, dove uno sciopero contro la partecipazione
americana alla guerra del Vietnam raccoglieva diecimila studenti e
durava un mese. Era il leggendario Sessantotto, così esaltante e
così infido.
"Io mi trovai molto naturalmente nel cuore del dissenso giovanile.
Ho lasciato l'università nel '70, per impegnarmi a tempo pieno nel
movimento di protesta. Parlavo nelle chiese a favore dei diritti
dei neri, sono entrata nel comitato di difesa politica di una
ventina di Pantere Nere coinvolte in un processo. Infine ho fatto
parte del movimento comunista "19 Maggio", che si ispirava a Malcolm
X il rivoluzionario nero. L'accusa contro di me è di essere passata
da un appoggio verbale a fatti rivoluzionari".
È vero? "Questo non l'ho mai detto e non lo dico adesso, perché la
mia risposta coinvolgerebbe altre persone. Non posso anteporre il
mio benessere a quello di altri. La posizione mia e dei compagni è
sempre stata una responsabilità politica collettiva ma non una
confessione individuale. D'accordo i tempi sono cambiati. Ma ha
ragione Renato Curcio quando sostiene che occorre una soluzione
collettiva alla tragedia di quegli anni. Riconosco i cambiamenti
enormi del decennio, però preferisco finire la mia condanna, anche
se singolarmente ingiusta e persecutoria, piuttosto che
compromettere altri compagni".
Si definirebbe un'irriducibile? "No, questa parola ha un
significato politico col quale non sono d'accordo. Anche se le mie
idee in molte cose sono cambiate, non posso usare questi cambiamenti
per giustificare un pentimentismo che mi porterebbe a collaborare.
La pago cara, ma non sono l'unica".
Come vede il futuro? "Resterò in prigione fino al 2011, con gli
sconti per il lavoro e la buona condotta. E a quel punto,
finalmente, mi butteranno fuori dagli Stati Uniti e tornerò in
Italia". Di che cosa ha paura? "Mi è successo tanto di tutto che
il mio concetto della paura è cambiato. In prigione ho imparato a
non reagire immediatamente, ma prima a respirare a fondo, poi
aspettare un giorno o due poi valutare le possibilità, e infine
scegliere la decisione migliore. Così ho meno paura. Credo sia una
buona regola anche per chi sta fuori".
Famiglia Cristiana n.46
18 novembre 1992
Silvia ha la sua spiegazione:
"Dovevo collaborare con l' Fbi, questo è il punto vero.
Quando sono stata arrestata, il 9 novembre del 1982, gli agenti
della squadra antiterrorismo dell'Fbi mi hanno offerto 25 mila
dollari (in lire, 30 milioni, ndr) per denunciare i compagni. Nel
settembre dell' 85 sono tornati alla carica, e questa volta mi
offrivano la libertà. Ho detto di no. Non si sono fatti più vivi.
Forse aspettano un mio segnale. Ma per loro non ne ho. Non potrò
mai scambiare la mia vita con quella degli altri".