Intervista a Silvia Baraldini, cittadina italiana detenuta
ingiustamente nelle carceri americane.
Claudio Giorgi
Danbury (Connecticut). Un carcere "blindato" ma non di massima
sicurezza in un paesaggio ridente, boschi di betulle, prati
verde-smeraldo, storni di oche canadesi, il tutto a un'ora e mezza
da New York e poi tanti visitatori, giornalisti, familiari, amici,
bastano a spiegare il cambiamento di umore di Silvia Baraldini che
ci accoglie con un grande sorriso nella sala delle visite del
penitenziario femminile di Danbury sotto lo sguardo vigile ma non
ostile del vice-direttore dell'istituto, la signora Lisa Austin. Ci
sono altri tre visitatori in quella sala: l'avvocato della detenuta,
Elizabeth Fink, Giampietro Troiani del coordinamento dei comitati di
solidarietà in Italia e l'eurodeputato di Rifondazione Lucio
Manisco, che da sette anni segue da vicino il caso di questa
cittadina italiana condannata a quarantatré anni, negli Stati Uniti
per reati di associazione di presunta matrice terroristica, reati o
imputazioni che non includevano fatti di sangue, detenzione di armi
o di esplosivi.
È Lucio Manisco a spiegarci che, paragonato ad altre carceri dove
avevano visitato la Baraldini, quello di Danbury, pur con i suoi
statuti restrittivi e disciplinari, rappresenta un salto di qualità
dei più appariscenti: nell'unità speciale sotterranea di Lexington,
dove era stata sottoposta ad un regime di deprivazione sensoria e ad
altre torture psico-fisiche, in diciannove mesi aveva visto poche
volte la luce solare. A Marianna in Florida, una delle località più
sperdute ed isolate d'America (ventiquattro ore di viaggio tra
cambi di aereo e pernottamento nel capoluogo di Talahassee), le
condizioni carcerarie erano di "massima sicurezza", isolamento,
sorveglianza speciale, scarsi controlli medici malgrado le due
operazioni di cancro squamoso uterino e per forza di cose, rarissimi
i visitatori, italiani o americani.
Dopo gli abbracci e le strette di mano Silvia Baraldini conferma:
"Certo, qui sto molto meglio: lavoro come bibliotecaria, nel
pomeriggio seguo un corso di teleinformatica avanzata e poi ho fino
a quattro ore di tempo libero che trascorro con le altre detenute
del braccio".
"Qui a Danbury ho ritrovato l'indipendentista portoricana
Alejandrina Torres che aveva condiviso con me le infauste
esperienze nei sotterranei di Lexington e sta per raggiungerci anche
Susan Rosenberg, processata insieme a me in quel lontano 1983".
Proviamo una certa emozione a parlare con questa intellettuale
marxista che ne ha viste di cotte e di crude nei peggiori lager
d'America, che non ha rinunziato ai suoi principi e quindi non è una
"pentita", anche se ammette che le circostanze storiche sono
radicalmente cambiate da quando militava nei movimenti di
liberazione degli afro-americani. Una personalità forte, d'acciaio,
ma anche una donna molto dolce che ci sorride con quei suoi grandi
occhi incredibilmente azzurri (definiti "bruni quasi neri" da un
testimone a carico che disse all'Fbi di averla frequentata mentre
complottava con altri una rapina bancaria peraltro mai tradotta in
realtà).
Il sorriso scompare quando parla della visita di sua madre Dolores
al Dipartimento di Giustizia americano il 2 agosto scorso. Erano
presenti la direttrice per gli affari penali Jo Ann Harris, Gerald
Shur il funzionario più accanito nel bloccare qualsiasi soluzione
del "caso Baraldini", e poi diversi esponenti dell'Ambasciata
d'Italia a Washington: "A quanto mi è stato riferito la posizione
delle autorità americane non è affatto cambiata; continuano ad
opporsi al mio trasferimento in un carcere italiano come prevede, ma
non impone, la convenzione internazionale di Strasburgo: menzionando
la mia "mancanza di rimorso" tra i motivi della loro intransigenza;
e per mancanza di rimorso intendono ovviamente il fatto che non ho
mai voluto collaborare con l'Fbi, che non intendo abiurare o
rinunziare alle mie idee e alle mie convinzioni". "Comunque hanno
detto che stanno riesaminando il mio caso e che una decisione
definitiva, se accogliere o meno la richiesta di trasferimento in un
carcere del mio paese, verrà presa presumibilmente prima della fine
dell'anno". Le chiediamo se è a conoscenza di qualche iniziativa a
suo favore presa dal governo Berlusconi: "Mi dicono, anzi me lo ha
detto per telefono Manisco, che il ministro di Grazia e Giustizia,
Biondi, ha promesso di seguire il mio caso".
So anche che il direttore degli affari penali, dottor Mele, è atteso
a Washington, ma passi concreti fatti in questi ultimi otto mesi
dalle autorità italiane non ce ne sono stati, o almeno a me non
risulta che ci siano stati. Dalle migliaia di lettere e cartoline
che ricevo qui a Danbury e da quanto leggo sulla stampa italiana
principalmente su il manifesto e su Avvenimenti dal gran numero di
giornalisti che vengono a intervistarmi, deduco che la mobilitazione
dell'opinione pubblica italiana a mio favore stia aumentando di
giorno in giorno; il che mi commuove profondamente, mi fa sentire
meno sola ed in un certo senso mi prepara ad affrontare il peggio,
l'eventualità cioè di un ennesimo rigetto americano per una scarsa
incidenza delle istanze che il governo Berlusconi potrà o non potrà
sollevare presso le autorità di Washington entro i prossimi quaranta
giorni...".
Ci chiede scusa perché deve cedere alla prepotenza del compagno
Manisco che, armato di registratore, dà inizio ad una lunga
intervista in inglese. Verrà trasmessa per due giorni consecutivi
insieme a dibattiti sul caso e a telefonate degli ascoltatori dalla
rete radio progressista di New York nei programmi speciali, di
Robert Knight e di Sally O'Brien.
Liberazione del 23-09-1994