Visita a Silvia Baraldini nel carcere di Danbury, dove una detenzione sempre più dura sta mettendo in crisi la sua resistenza psicologica.
il manifesto
Patricia Lombroso
New York Giovedì 1 febbraio 1996
Non vedevamo Silvia Baraldini nel carcere di Danbury da quattro mesi. Da quando, a ottobre, è entrato in vigore - per tutti i detenuti e in tutte le prigioni degli Stati Uniti - un nuovo codice di regole durissime. Ora, ad esempio, ai reclusi è vietato indossare il colore rosso, il nero, il grigio e il blu. "Ci hanno detto - racconta Silvia Baraldini - che i primi due sono colori che appartengono a due gang, il grigio e il blu sono invece i colori delle divise del personale del carcere".
Dal primo febbraio per chi è dentro l'unico mezzo di comunicazione con l'esterno sarà la televisione imposta dal penitenziario. Il nuovo regime di vita carceraria varato dall'attuale direttore dell'istituto di Danbury (prima era a Lexington) applica un programma scientificamente studiato che altera e violenta psichicamente l'identità delle detenute, alienando ogni attimo della vita più intima e privata.
Un trattamento particolarmente efficace, che non ha mancato di produrre effetti anche nella forte Baraldini. Un mese fa, Silvia ci ha telefonato nel pieno della notte dal carcere di Danbury. Una chiamata che tradiva sintomi di cedimento anche nel tenace carattere della detenuta italiana, nella sua forza d'animo e autocontrollo.
"Qui il giro di vite repressivo - sussurrò alla cornetta - si sta concludendo. Ci stanno togliendo tutto".
Quando Silvia Baraldini è stata fatta entrare nella sala delle visite, abbiamo avuto subito l'impressione che non fossero trascorsi pochi mesi, ma anni da quando l'avevamo visitata. Improvvisamente, il suo deterioramento psicofisico era visibile.
Occhi spenti
Indossava una delle divise del carcere, ora imposta per tutte le 24 ore, color verde militare. I suoi grandi occhi azzurri erano diventati dello stesso grigio dei capelli. Spenta in viso, mostrava un palese fastidio per tutto quanto la circondava e tutto ciò che doveva affrontare. Persino la nostra visita, di solito salutata con contentezza. "Sto male", esordisce Silvia Baraldini. "Sono stufa di tutto e di tutti. Sono già 14 anni di questo carcere e sono sicura che ne dovrò scontare altri dieci".
I suoi occhi si arrossano quando cerchiamo di convincerla che speriamo di riportarla in Italia prima che siano trascorsi i 24 anni della condanna. Alla fine le lacrime iniziano a scendere senza più remore né intenzione di nasconderle. E come se, improvvisamente, cedesse tutta la sua forza d'animo.
Silvia Baraldini è molto ingrassata. Le chiediamo della sua salute e dei risultati delle analisi annuali per scongiurare la ricorrenza del cancro: "Fisicamente sto bene "- risponde fissando il vuoto - "Ma quando sono depressa come ora mi ingrasso, mi gonfio. È un periodo brutto" . Cerchiamo, inutilmente di sollevare argomenti diversivi che di solito la interessano. Le ultime dall'Italia, le varie iniziative di solidarietà che si stanno svolgendo per convincere Dini e Clinton dell'urgenza del suo trasferimento in Italia. L'effetto, però, è contrario a quanto avevamo sperato: Silvia sgrana gli occhi e si copre il viso con le mani. Le lacrime tornano a scendere. Il suo legale Elisabeth Fink le ha raccontato della conferenza stampa di fine anno di Lamberto Dini.
Quelle parole di Dini
Il presidente del consiglio ha manifestato il suo impegno a riportare la connazionale in Italia, ma ha ammesso di non conoscerne il caso, le circostanze che avrebbero portato al suo arresto.
"Ora vengo anche accusata di aver ucciso due agenti dell'Fbi durante una manifestazione antirazzista? Io ero a Roma in quell'occasione, perché il mio avvocato in Italia tace?", scoppia Silvia Baraldini.
Dini ha peraltro sostenuto che la detenuta è stata condannata dagli Stati Uniti a 40 anni perché "non vuole pentirsi". Dini sembra essere uno dei pochi rimasti a non sapere che la Baraldini è stata condannata a 43 anni per episodi che non la implicano né in reati di sangue né in possesso di armi e si è sempre rifiutata di dare i nomi di chi militava con lei. Durante il suo processo a New York, nel 1983, non ha mai avuto al suo fianco nessun funzionario consolare a rappresentarla per il suo paese.
Dini ha avuto il coraggio di dire a proposito della sua malattia. "Ora sta bene, perché è stata curata molto bene. Probabilmente meglio che in Italia".
Lunghi mesi di attesa
In realtà a Lexington ha dovuto attendere ben 5 mesi per ottenere una visita medica e due interventi chirurgici in una settimana per carenza di strutture del carcere. Silvia Baraldini, malgrado tante dichiarazioni autorevoli di "interessamento al suo caso" ha perso la speranza di poter tornare in Italia. Il sistema carcerario americano sembra aver ottenuto l'effetto desiderato: distruggere l'identità del detenuto o renderlo talmente disperato, come la Baraldini ora, da distruggersi da solo.