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America latina, lucrosa retrovia per gli Stati uniti


di James Petras e Todd Cavalluzzi*

Molte ragioni vengono addotte per spiegare le politiche di liberalizzazione che si sono generalizzate in America latina nell'ultimo decennio. Per alcuni esisterebbe un ciclo nazional-populista che comincia con l'intervento dello stato, le nazionalizzazioni e il protezionismo, si consolida con una strategia di sostituzione delle importazioni, poi entra in crisi a causa della crescita dei deficit pubblico e commerciale, degli squilibri macroeconomici e del declino della competitività.
Tutto ciò aprirebbe la strada alla "rivoluzione liberale".
Altro tipo di argomentazione: l'emergere, negli anni 70, di una classe di capitalisti latino-americani transnazionali, legati al mercato mondiale, che avrebbero beneficiato di politiche pubbliche di sostegno alle esportazioni e sarebbero diventati gli strateghi della liberalizzazione. Una terza scuola di pensiero mette l'accento sull'indebitamento estero e sull'influenza e le pressioni della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (Fmi) nell'imporre misure liberali come contropartita al rifinanziamento del debito.
Altri analisti privilegiano i conflitti di classe e le modifiche dei rapporti di forza avvenuti tra esse, sia sul piano estero che interno. In questa ottica, la coalizione costituitasi tra borghesia nazionale, classe operaia e contadini, base sociale della politica di sostituzione delle importazioni, si sarebbe disgregata in seguito alla compressione degli utili delle imprese e delle risorse dello stato, e avrebbe ceduto il posto a una nuova coalizione di regimi militari associati alla borghesia esportatrice, partner essa stessa delle ditte multinazionali.
Contemporaneamente, il crollo dei regimi "socialisti" europei eliminava possibilità di finanziamenti e di sbocchi alternativi, costringendo i regimi latino-americani ad adattarsi alle esigenze del solo potere mondiale rimasto, quello dei paesi a capitalismo avanzato.
Indiscutibilmente, ciascuna di queste spiegazioni contiene una parte di verità. Ma ce n'è anche un'altra che sembra aver avuto un ruolo determinante: le esigenze della strategia economica degli Stati uniti. Il primo dato evidente del mondo postcomunista è, infatti, la concorrenza tra Stati uniti, Germania e Giappone per il controllo dei mercati mondiali.
Ognuna di queste superpotenze si è ritagliata delle zone d'influenza che le permettono di produrre con spese minori rispetto alle sue concorrenti. Negli ultimi due decenni, gli Stati uniti hanno perso i propri vantaggi comparativi in settori come l'automobile e l'elettronica, anche se sembra avviarsi una inversione di tendenza. Ne consegue l'accumulo di enormi deficit commerciali con il Giappone (e altri paesi asiatici) e, in misura minore, con la Germania.
Il progressivo ritiro delle truppe americane dall'Europa e dal Giappone priva Washington di mezzi di pressione politico-economici, pressione fino ad allora esercitata tramite la Nato e altre alleanze militari. Quanto alle minacce di guerra commerciale, si rivelano a doppio taglio, perché possono avere conseguenze negative per gli esportatori, gli importatori e per i consumatori americani di prodotti stranieri a buon mercato. La linea di minor resistenza e nello stesso tempo la più conforme alla storia americana (dottrina Monroe, Unione panamericana, Alleanza per il progresso) è quella di una strategia di blocco regionale dove gli Stati uniti, in quanto potenza egemonica, possono trarre dall'America latina il massimo di utili attraverso commercio, investimenti, interessi e canoni.
Da questo punto di vista, il sud del Rio Grande e il Canada costituiscono terreni privilegiati per l'accumulazione e il rimpatrio di utili, interessi e canoni verso gli Stati uniti, compensando, in parte, i deficit commerciali con l'Asia e l'Europa occidentale. I bassi costi di produzione (grazie alla mano d'opera a buon mercato del Messico e dei Caraibi) permettono ai produttori americani di mantenere la loro competitività sia all'estero che sul mercato interno. In questo senso, la liberalizzazione dell'America latina è intimamente legata agli interessi mondiali degli Stati uniti.
Questa liberalizzazione è stata portata avanti sotto l'egida del Fmi e della Banca mondiale, su istigazione dei rappresentanti di Washington che ne fanno parte. Per un certo periodo, i dittatori latino-americani favorevoli alla liberalizzazione hanno ricevuto finanziamenti e appoggio politico. Poi la Casa bianca ha utilizzato i suoi buoni uffici per favorire transizioni elettorali, nella misura in cui, però, i nuovi regimi democratici s'impegnassero ad approfondire una liberalizzazione che avrebbe favorito essenzialmente banche e multinazionali americane e, complessivamente, l'insieme dell'economia degli Stati uniti. E' questo che spiega la battaglia condotta dai negoziatori di Washington per includere la proprietà intellettuale nell'Atto finale del ciclo dell'Uruguay dell'Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (Gatt). I canoni su diritti di sfruttamento, brevetti e marchi sono una voce importante della bilancia dei pagamenti degli Stati uniti: tra il 1972 e il primo trimestre del 1992 sono aumentati fino a 1,06 miliardi di dollari. Mentre la loro media annua dal 1962 al 1971 era di soli 52,6 milioni di dollari, nel 1992-1993 sono passati ad una media di 189,8 milioni di dollari.
I diritti di sfruttamento e i canoni costituiscono una forma di rendita di cui si misura meglio l'importanza nei conti esteri degli Stati uniti quando la si confronta ai redditi degli investimenti diretti in America latina. Tra 1961 e 1971, questa rendita ne rappresentava un terzo - 26 milioni di dollari contro 76 milioni di dollari -, per precipitare a un 6% tra 1972 e 1981 (242 milioni di dollari contro 4,176 miliardi di dollari). Nel periodo 1982-1991, c'è una inversione del bilanciere: i diritti di sfruttamento e i canoni hanno reso 395 milioni di dollari, mentre gli investimenti diretti nel subcontinente non procuravano che perdite. Considerando insieme il 1992 e il 1993, questa voce (379 milioni di dollari) supera di tre volte quella del rimpatrio degli utili.
In venti anni, dal 1962 al 1981, le multinazionali insediate in America latina hanno inviato 4,25 miliardi di dollari sotto forma di retribuzioni, utili distribuiti e non distribuiti ma reinvestiti. Dopo questo periodo di espansione, la depressione mondiale del 1982, la crisi dovuta all'indebitamento e le misure di adeguamento strutturale hanno contratto i mercati latino-americani, poiché le risorse erano canalizzate a favore del debito. Al punto da provocare non solo un crollo brutale dei redditi da investimenti, ma anche perdite: 373,9 milioni di dollari tra il 1982 e il 1991... Ma questo indebitamento ha fornito alla Banca mondiale e al Fmi un argomento forte per chiedere la privatizzazione delle imprese pubbliche, molte delle quali sono state ricomprate da multinazionali americane.
Con la timida ripresa economica successiva, i versamenti di utili agli Stati uniti sono ripresi: 150 milioni di dollari tra il 1992 e il primo trimestre del 1994. Come si vede, la crisi del debito e le politiche di adeguamento strutturale non hanno avuto effetti negativi solo sulle economie del subcontinente: esse hanno assottigliato i trasferimenti di utili delle multinazionali americane.
Tuttavia la fonte principale di flussi finanziari privati dall'America latina verso gli Stati uniti consiste nei pagamenti di interessi, in progressione massiccia dopo il rialzo dei tassi.
Complessivamente questi trasferimenti hanno raggiunto 233 miliardi di dollari tra il 1972 e il 1992, con le conseguenze nefaste che si possono immaginare sulla crescita delle economie locali, importazioni e domanda interna.
Le eccedenze commerciali mettono in evidenza un'altra dimensione dell'asimmetria delle relazioni tra gli Stati uniti e i loro vicini e spiegano il sostegno di Washington agli accordi di "libero scambio". Come media annuale, questa eccedenza ha raggiunto i 426 milioni di dollari tra il 1962 e il 1971 e i 4,34 miliardi di dollari tra il 1972 e il 1981, per trasformarsi in deficit a partire dal 1983: 1,725 miliardi di dollari tra il 1982 e il 1992. Era la conseguenza diretta delle "strategie di esportazione" imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali ai governi latino-americani affinché accumulassero utili da destinare al pagamento del debito.
Tuttavia le perdite di mercati non sarebbero state che temporanee, l'eliminazione delle barriere doganali avrebbe in seguito permesso una penetrazione americana più forte che mai.
Con l'aiuto della ripresa economica, le eccedenze sono ricominciate: 2,25 miliardi di dollari in media nel 1992 e 1993.
Se si sommano le tre sorgenti di reddito che gli Stati uniti traggono dall'America latina (rendita, interessi e eccedenze commerciali) e si mettono a confronto con i deficit commerciali che risultano dagli scambi con Germania e Giappone, si valuta meglio l'importanza del subcontinente. Tra il 1962 e il 1971, questi utili hanno rappresentato i tre quarti del deficit col Giappone e il doppio di quello contratto con la Germania. Tra il 1972 e il 1981 queste entrate hanno equilibrato il saldo negativo con Tokio. Negli anni 1982-1991, l'eccedenza è raddoppiata ma, nello stesso periodo, il deficit con il Giappone è più che quintuplicato e quello con la Germania è aumentato del 700%. Questa è la struttura che sembra conservarsi attualmente.
L'America latina costituisce una posta importante per gli Stati uniti, visto che permette loro di compensare una parte degli squilibri commerciali con le altre due grandi potenze economiche e attenua così il declino della loro posizione mondiale.


note:
* Rispettivamente professore di sociologia e ricercatore all'università dello Stato di New York a Binghamton.


Articolo tratto da Le Monde Diplomatique del febbraio-1995, inserto mensile de il manifesto