Una scelta che, se approvata anche dal Consiglio dei ministri degli stati membri (è qui che si prendono le vere decisioni) e dal parlamento - il che potrebbe avvenire entro l'anno -, avrà un doppio effetto negativo. Innanzitutto penalizzerà le esportazioni di cacao di molti paesi africani: si stima infatti che porterà ad una riduzione di almeno 100-120 mila tonnellate della domanda mondiale di cacao, con conseguenze disastrose per l'economia di Costa d'Avorio, Ghana, Camerun. E poi propinerà ai consumatori europei un cioccolato di minore qualità: esperti del settore concordano nel dire che il burro di karité, l'olio di palma, o l'illipé non possono degnamente sostituire il cacao. Perché allora si è arrivati a questo provvedimento? |
La direttiva in vigore oggi nasce nel 1973, all'epoca dell'adesione di Danimarca, Irlanda e Regno Unito all'allora Comunità economica europea. Questi tre paesi avevano leggi che consentivano sin dal 1950 l'utilizzo di prodotti alimentari diversi dal burro di cacao nella produzione di cioccolato. La direttiva li ha perciò esentati dal conformarsi alle tradizioni alimentari degli altri stati membri europei, che invece fissano ad una soglia minima del 19% la quantità di burro di cacao da usare nel cioccolato.
Con adesioni successive, a quei tre paesi si sono aggiunti anche Finlandia, Austria, Portogallo e Svezia - nazioni abituate ad avere un cioccolato di minor qualità - creando così una disparità nel mercato interno tra chi, sotto il nome ufficiale di cioccolato, usava quantità diverse di burro di cacao.
Ecco allora che la Commissione europea ha deciso di proporre al Consiglio dei ministri e al parlamento di uniformare verso il basso il mercato europeo del cioccolato, autorizzando l'uso del 5% di grassi vegetali in più nella fabbricazione del prodotto. Il bello è che nessuno alla Commissione è capace (o ha voglia) di spiegare perché è stata presa quella decisione e perché, invece, non si è fatto il contrario, invitando Regno Unito, Danimarca, Svezia e compagnia ad utilizzare una percentuale maggiore di burro di cacao.
Perché allora si è voluto adottare questo costume alimentare? Presto detto: perché così le industrie europee e americane che fabbricano cioccolato risparmieranno almeno duecento milioni di dollari sugli acquisti di cacao. Di che fare felici la Nestlé, la Mars, la Philip Morris e la Cadbury, ovvero le quattro multinazionali alimentari che praticamente detengono il controllo mondiale del cioccolato, e che ci rifileranno un prodotto che sarà molto diverso da quello attuale. Le "fantastiche quattro" hanno esercitato pressioni a non finire sulla Commissione in modo che arrivasse a decidere nel senso a loro più conveniente.
E quanto sia conveniente ai produttori di cioccolato, lo dicono i numeri. Va compreso che quel 5% di "additivi vegetali", che si vuole autorizzare, è riferito al 19% di burro di cacao oggi utilizzato. Ma se si guarda al prodotto-cioccolato la percentuale finale di sostituzione sarà compresa tra il 20% ed il 25%.
Un esempio chiarisce meglio: una barra di cioccolato di 100 grammi conterrà 5 grammi in meno di burro di cacao, pari al 20% in meno del burro di cacao prima contenuto. Un altro aspetto non secondario è che questa percentuale non può essere controllata esattamente, perché i grassi vegetali contengono enzimi difficili da individuare e facilmente spacciabili per burro di cacao. Dunque, nessuno può assicurare che la sostituzione del burro di cacao non avverrà in quantità ancora maggiori da quelle autorizzate dalla proposta di modifica della direttiva.
Se quanto abbiamo fin qui descritto dovesse avverarsi, le ricadute sulle economie di alcuni paesi poveri sarebbero drammatiche. Una drastica diminuzione della domanda di cacao metterebbe in ginocchio paesi produttori quali Costa d'Avorio, Ghana, Camerun, Nigeria, Togo, Papa Nuova Guinea. I governi di questi paesi prevedono anche un crollo speculativo dei prezzi del cacao a causa della sua temporanea sovrabbondanza iniziale, proprio per la diminuzione della domanda mondiale da parte delle industrie produttrici di cioccolato. Una speculazione finanziaria che, ancora una volta, farà il gioco delle multinazionali del settore.
C'è un aspetto paradossale: per ogni diecimila tonnellate di perdite nelle esportazioni di cacao da parte dei paesi produttori del sud del mondo, l'Unione Europea dovrà sborsare un milione di ecu. Lo dicono gli accordi Stabex contenuti nella IV Convenzione di Lomé che regola i rapporti tra l'Unione e 70 paesi di Africa, Caraibi e Pacifico. Lo Stabex è un meccanismo in base al quale l'Europa si impegna a dare soldi ai paesi firmatari della Lomé IV se crollano i loro proventi da esportazione di alcune materie prime, tra cui c'è il cacao.
La direttiva ha così l'effetto di peggiorare la qualità del cioccolato, di ridurre drasticamente le esportazioni africane di cacao, di costare al bilancio comunitario (dunque a tutti noi) tra i 150 ed i 200 miliardi di lire. Un piccolo capolavoro di idiozia, verrebbe da dire. Ma non è tutto: la conseguenza più grave è che la riduzione di esportazioni colpirà direttamente centinaia di migliaia di coltivatori africani.
La Commissione ha cercato di addolcire l'amarissima pillola affermando che gli additivi vegetali che dovrebbero sostituire una percentuale di burro di cacao verrebbero comunque importati dai paesi in via di sviluppo, e che perciò i danni per quelle economie sarebbero limitati. Il fatto è che questa affermazione non è vera. Tanto da essere smentita dagli stessi documenti che circolano in Commissione.
Ma vediamo meglio. I sostituti del burro di cacao sono tre: i Cocoa Butter Equivalents Cbe (olio di palma, illipé, karité o kokum), i Cocoa Butter Replacers Cbr (olio di soia, olio di semi di cotone, olio di palma non-laurico) e i Cocoa Butter Substitutes Cbs (olio di cocco). Attualmente, però, l'unico sostituto che può chiamare in causa i paesi in via di sviluppo è il karité. Nella produzione mondiale - circa 200 mila tonnellate annue - c'è in prima linea il Burkina (40-70.000 tonnellate), seguito da Mali (30-50.000 t), Ghana (30-60.000 t), Togo (10-20.000 t), Benin (10-20.000 t) e Costa d'Avorio (10-15.000 t).
Nel 1993, l'Unione Europea ha importato karité per sole 144 tonnellate: 82 dal Togo, 32 dal Benin, 30 dalla Nigeria, per una cifra di nemmeno 50 milioni di lire. Nel 1994, solo il Benin ha esportato dai noi karité, per 20 milioni di lire. Da notare poi che il burro di karité è negoziato nei mercati borsistici di Francia, Regno Unito, Danimarca e Giappone, con prezzi variabili tra 300.000 e 1.500.000 di lire la tonnellata, a seconda della spinta speculativa del momento. Eventuali esportazioni di karité, inoltre, non farebbero il bene dei paesi in via di sviluppo perché le uniche industrie di trasformazione alimentari di quel prodotto hanno sede in Giappone, Regno Unito, Olanda, Danimarca e Svezia: sono multinazionali e si chiamano Unilever, Karlshamns, Van De Moortele, Aarhus, Noble&Thorl.
Per quanto riguarda l'olio di palma, le importazioni dell'Unione nel 1994 sono ammontate a circa 1,7 milioni di tonnellate, pari a 900 miliardi di lire: importazioni però che provengono dal Sud-est asiatico. Un documento della Commissione (interno e riservato) ammette, a pagina 7, che tali sostituti "sono ristretti ad alcune compagnie europee o multinazionali" euro-americane, e che la sostituzione del 5% del burro di cacao "avrà un impatto negativo molto forte sul numero di persone impiegate nella catena di produzione del cacao": un modo elegante per dire che nei paesi in via di sviluppo ci saranno numerosi licenziamenti e molte aziende andranno in rovina.
Da sottolineare anche il modo con cui è maturata la decisione di modificare la direttiva sulla produzione di cioccolato. Fino a pochi giorni prima del voto, lo scorso marzo, la Commissione - per bocca del commissario Deus Pinheiro, responsabile per i rapporti con Africa, Caraibi e Pacifico - aveva negato che ci fosse la volontà di apportare qualche modifica. Addirittura a Windhoek (Namibia), durante i lavori dell'Assemblea paritetica Acp/Ue, Deus Pinheiro aveva sostenuto che la discussione della direttiva non era nemmeno all'ordine del giorno della Commissione. Ma il 17 aprile 1996 eccola approvata a Strasburgo. Ci si può chiedere che cosa ci rimanga a fare quel commissario in quel posto...
Si sappia però che la direttiva è stata approvata all'unanimità, come ha detto il portavoce della Commissione europea, e che ha avuto dunque il voto positivo di Emma Bonino e Mario Monti. I quali qualche spiegazione la dovrebbero dare.
Tanto più che Emma Bonino ha anche la delega alla "Protezione dei Consumatori", e non pare sufficiente celarsi dietro la contemporanea approvazione di una etichettatura speciale per quel nuovo cioccolato che verrà prodotto con meno burro di cacao, per giustificare un voto positivo. Siamo infatti di fronte ad una direttiva in palese contrasto con la lettera e lo spirito di Lomé IV, e con i retorici propositi europei di promuovere le esportazioni africane.
Un testo contro cui si è scagliato anche il parlamento europeo, che per bocca della relatrice Hanja Maij-Weggen ha già fatto sapere che "con questa direttiva l'Unione Europea viola la Convenzione internazionale sul cacao del 1993 e nega i principi contenuti nel trattato di Maastricht, danneggia gravemente gli interessi di alcuni paesi in via di sviluppo, arreca gravi danni a decine di migliaia di coltivatori di cacao, nonché alle famiglie e ai lavoratori dipendenti dalla produzione di cacao". Una posizione che l'ha indotta a proporre il rifiuto della direttiva.
La palla passa ora al Consiglio dei ministri europei, dove siederà anche Romano Prodi. Il governo francese di Alain Juppé ha fatto sapere che voterà contro la direttiva. Non dovrebbe essere difficile per un governo italiano, sulla carta più sensibile di quello transalpino al principio della solidarietà internazionale. fare lo stesso. Un'occasione per dimostrare con i fatti di avere a cuore lo sviluppo del sud del mondo.
Stefano Squarcina