GUERRA AI POVERI
di eduardo galeano*
Lo stato non finisce mai in prigione, anche se uccide,
attivamente o per omissione. Crimini attivi: alla fine del 1995
la polizia militare di Rio de Janeiro ha riconosciuto
ufficialmente di aver provocato vittime civili in numero otto
volte superiore all'anno precedente, mentre la polizia dei
sobborghi di Buenos Aires ha ammesso di sparare sui giovani come
fossero conigli. Crimini per omissione: quaranta nefropatici
sono morti in uno stesso giorno a Cruaru, un villaggio del
Nord-est del Brasile, perché la sanità pubblica li aveva
sottoposti a dialisi con acqua contaminata; e nella provincia
delle Misiones, nell'Argentina del Nord, l'acqua "potabile" è
talmente inquinata da provocare malformazioni al midollo
spinale e numerosi casi di labbro leporino.
Nell'era delle privatizzazioni e del libero mercato, il denaro
vuole governare senza intermediari. Qual è allora il ruolo dello
stato? Quello di reprimere le legioni di disoccupati, e di
mettere al passo i lavoratori condannati a salari infimi: uno
stato ridotto alle sole funzioni di giudice e poliziotto. E gli
altri servizi pubblici? Il mercato ne farà cosa sua. La povertà,
i cittadini poveri, le regioni disagiate? Dio provvederà, se non
ne viene a capo la polizia. La pubblica amministrazione non deve
trasformarsi in madre caritatevole, ma dedicare le sue precarie
energie a sorvegliare e a punire. Il neo-liberismo riduce i
diritti dei cittadini a semplici favori concessi dal potere. Un
potere che si occupa della sanità e dell'istruzione come se
appartenessero al campo della pubblica carità.
Nel frattempo la povertà aumenta, le città continuano a
espandersi e le effrazioni, le violenze e i crimini si
moltiplicano. "La criminalità si sviluppa molto più velocemente
dei mezzi per reprimerla", riconosce il ministro dell'interno
uruguaiano. L'esplosione della delinquenza è visibile a occhio
nudo, anche se le statistiche ufficiali chiudono gli occhi; e i
governi riconoscono in qualche modo la loro impotenza. Ma il
potere non ammette mai di essere in guerra contro i poveri che
crea, cioè contro le conseguenze delle proprie azioni. "La
criminalità cresce a causa del traffico di droga", dicono i
portavoce ufficiali, per sollevare da ogni responsabilità un
sistema che getta un numero sempre maggiore di poveri sulla
strada o in carcere, e fa ingrossare incessantemente le file dei
condannati alla disperazione e all'annientamento.
Le élites esibiscono il cattivo esempio della loro impunità. In
basso si punisce ciò cui si plaude in alto. Il furtarello è un
reato contro la proprietà, mentre il furto su vasta scala è un
diritto dei possidenti. Il primo è soggetto al codice penale,
l'altro compete all'iniziativa privata. Senza il minimo pudore,
le autorità che nei loro discorsi tessono gli elogi del lavoro e
dei lavoratori, li maledicono con le loro azioni, premiando la
disonestà e l'assenza di scrupoli. I grandi media sono complici
di questo scandalo, mentendo col silenzio non meno che con le
loro dichiarazioni.
Mentre i governanti insegnano l'impunità, i grandi media e
soprattutto la televisione diffondono messaggi di violenza e di
consumismo. Una recente inchiesta ha rivelato che i bambini di
Buenos Aires assistono mediamente ogni giorno, sul piccolo
schermo, a quaranta atti di violenza. E quante immagini
consumistiche li raggiungono? A quante scene di spreco e
ostentazione sono quotidianamente esposti? Quante volte coloro
che in pratica non possono acquistare nulla ricevono l'ordine di
comprare? Quante volte si imbottisce loro la testa di messaggi
per convincerli che chi non compra non esiste, e chi non
possiede non è nulla? Paradossalmente, è proprio la televisione
a denunciare spesso la violenza urbana e a reclamare atti di
repressione esemplari; ma contemporaneamente educa le nuove
generazioni riversando in ogni casa oceani di sangue e
pubblicità compulsiva. Si è quasi indotti a pensare che i suoi
messaggi sono efficaci, vista l'esplosione della delinquenza!
Il diritto all'infanzia negato
Le macchine per confezionare l'opinione pubblica alimentano il
braciere dell'isterismo collettivo e trasformano la pubblica
sicurezza in ossessione di massa. Si moltiplicano le grida di
allarme lanciate in nome della popolazione indifesa di fronte
alla criminalità crescente. E aumenta il numero dei terrorizzati,
che rischiano di diventare più pericolosi del pericolo che li
spaventa. Per porre termine all'insicurezza dei cittadini, si
rivendicano leggi per sopprimere le poche garanzie che ancora
sussistono, e per dare più libertà ai poliziotti si invoca
l'abolizione delle libertà altrui. E questo avviene persino in
paesi come l'Uruguay, le cui statistiche rivelano che i
poliziotti sono, in proporzione, i cittadini che commettono il
maggior numero di reati.
Ma non sono solo i profittatori a sentirsi minacciati. Lo è
anche il ceto medio, e lo sono i molti che sopravvivono alla
penuria: poveri che subiscono le aggressioni di altri poveri,
più poveri ancora o più disperati. Nelle società che
preferiscono l'ordine alla giustizia, sono sempre di più quelli
che invocano il sacrificio della giustizia sull'altare
dell'ordine, convinti che nessuna legge conti di fronte
all'invasione dei fuorilegge. In molti paesi si reclama con
crescente clamore la pena di morte, e i massacri di bambini
commessi dagli squadroni della morte a Bogotà, a Rio de Janeiro
o Città del Guatemala ricevono il plauso di una parte
considerevole della società. Si trova normale torturare un
delinquente comune, o qualcuno che ha l'aria di esserlo. Negli
stati in cui la polizia estorce abitualmente le confessioni
ricorrendo a tecniche di tortura simili a quelle praticate dalle
dittature militari sui prigionieri politici, si rimane
costernati dal silenzio delle organizzazioni di tutela dei
diritti umani.
Detenuti: le dittature militari sono scomparse, ma le carceri
delle fragili democrazie sono stracolme. I carcerati
naturalmente sono poveri, poiché solo i poveri finiscono in
galera nei paesi in cui nessuno viene arrestato quando crolla un
ponte nuovo di zecca o un edificio costruito senza fondamenta, o
quando fallisce una banca saccheggiata dai suoi banchieri.
Carceri immonde, detenuti ammucchiati come sardine: la maggior
parte in attesa di giudizio, non condannati. Molti vi si trovano
senza nemmeno sapere bene il motivo. L'inferno di Dante, al
cospetto, sembra una creazione di Walt Disney. Le rivolte sono
continue in queste stie in ebollizione: le forze dell'ordine
sparano allora sui rivoltosi, e con l'occasione ne liquidano il
più possibile. Così si pone rimedio alla sovrappopolazione
carceraria. Fino alla rivolta successiva.
In realtà si può dire che siamo tutti più o meno prigionieri:
quelli che si trovano in carcere, ma anche noi che ne siamo
fuori. Sono forse liberi gli ostaggi della necessità, obbligati
a vivere per lavorare, senza potersi mai concedere il lusso di
lavorare per vivere? E i prigionieri della disperazione, che non
hanno lavoro e mai ne avranno, condannati alla malavita, ai
quattrocento colpi? Sono forse liberi i prigionieri della paura?
Non siamo tutti dietro le sbarre? Ormai esistono, in alcune
città, luoghi pubblici circondati da inferriate, e tutte le case
di chi ha qualcosa da perdere sono protette da grate, serrande e
barriere di ferro. Ho visto persino dei tuguri, nelle più povere
bidonvilles, recintati da inferriate. Ricchi, poveri e ceto
medio, nelle società ridotte al si-salvi-chi-può, terrorizzate
dalla violenza dei naufraghi, siamo tutti prigionieri: i
sorveglianti e i sorvegliati, gli eletti e i paria.
I fatti si prendono gioco del diritto. In questa fine secolo le
nostre società negano ai bambini il diritto all'infanzia. I
piccoli sono più prigionieri degli altri, rinchiusi in questa
grande gabbia dove gli esseri umani sono costretti a divorarsi
reciprocamente. Il sistema di potere, che accetta come unico
legame il panico generalizzato, è violento verso i bambini;
tratta i figli ricchi come tratta il denaro, quelli dei poveri
come rifiuti, e quanto ai bambini del ceto medio, li tiene
legati a un televisore.
Nell'oceano dei bisognosi, le isole degli abbienti tendono a
trasformarsi in lussuosi campi di concentramento dove i potenti
incontrano solo altri potenti, e non possono mai dimenticare di
essere potenti, neppure per un istante. In alcune grandi città
ove i rapimenti sono frequenti, i bimbi dei ricchi crescono
rinchiusi in una bolla di paura. Abitano in ville murate, in
quartieri circondati da barriere elettrificate e protetti da
guardiani armati, e sono sorvegliati notte e giorno da guardie
del corpo e da telecamere di vigilanza; viaggiano, come il
denaro, in veicoli blindati e conoscono solo da lontano la città
in cui abitano. Scoprono la metropolitana a Parigi o a New York,
ma non la prendono mai a San Paolo, a Caracas o a Città del
Messico.
Non vivono nella loro città non hanno accesso a quel vasto
inferno che circonda il loro minuscolo paradiso privato. Al di
là dei confini del privilegio si estende una zona di terrore con
tantissima gente brutta, sporca e pericolosa. Nell'era della
globalizzazione, i figli dei ricchi non appartengono a nessun
luogo, crescono senza radici, spogliati della loro identità
nazionale, con al posto del senso sociale la certezza che la
realtà sia una minaccia. La loro patria è costituita dai
contrassegni del prestigio universale; per lingua hanno i codici
internazionali. I figli dei ricchi delle città più diverse hanno
abitudini simili, così come si assomigliano in tutto il mondo
gli shopping centers e gli aeroporti, posti al di fuori del
tempo e dello spazio. Educati nella realtà virtuale, i figli dei
ricchi restano nell'ignoranza della realtà vera, che esiste solo
per essere temuta o comprata.
Fin dalla nascita sono allenati al consumo, e passano la loro
infanzia a constatare come le macchine siano più affidabili
delle persone. Fast food, fast cars, fast life: mentre aspettano
il giorno del rituale dell'iniziazione, quando riceveranno in
regalo la prima Jaguar o Mercedes, sono già lanciati sulle
autostrade della cibernetica; a tutta velocità giocano sugli
schermi elettronici e divorano immagini e merci, alternando
zapping e shopping.
Assai prima che i figli dei ricchi escano dall'infanzia e
scoprano le costose droghe che li stordiranno nella loro
solitudine e maschereranno la loro paura, i figli dei poveri
cominciano a "sniffare" la colla. Mentre i piccoli ricchi
giocano alla guerra con proiettili ai raggi laser, le pallottole
di piombo già crivellano sulle strade i corpi dei bambini poveri.
Alcuni esperti hanno coniato per questi ragazzini, che nelle
periferie delle megalopoli contendono i rifiuti agli avvoltoi,
l'espressione di "minori a bassa dotazione di risorse". Secondo
le statistiche, sono settanta milioni i bambini in stato di
assoluta povertà in America latina, e il loro numero non cessa
di crescere in questa regione, come nelle altre che producono
poveri, ma proibiscono la povertà. Tra tutti gli ostaggi del
sistema, i bambini sono i più maltrattati. La società li
comprime, li sorveglia, li punisce e talvolta arriva persino a
sopprimerli; ma raramente li ascolta e non li comprende mai.
Nascono con le radici in aria. Molti sono figli di contadini
brutalmente strappati alla terra e venuti a disintegrarsi in
città. Tra la culla e la tomba, la fame e le pallottole
abbreviano il percorso. Su due bambini poveri, uno lavora fino
allo stremo per mangiare, vendendo qualsiasi cosa per strada, o
come manodopera gratuita nelle fabbriche, il più sottopagato
dalle industrie esportatrici che producono camicie o scarpe per
i grandi magazzini del mondo. E l'altro? Su due bambini poveri
uno è di troppo. Il mercato non ne ha bisogno. Non è redditizio,
e non lo sarà mai. E chi non rende non ha il diritto di vivere.
Lo stesso sistema che disprezza gli anziani bandisce i bambini,
li espelle e li teme. Dal punto di vista del sistema, la
vecchiaia è un insuccesso, ma l'infanzia è una minaccia.
In molti paesi, l'egemonia del mercato rompe i legami di
solidarietà e manda in frantumi la coesione sociale. Quale
avvenire per chi non possiede nulla, in paesi in cui il diritto
di proprietà è l'unico sacro e inviolabile? Il bambino povero
soffre atrocemente della contraddizione tra una cultura che gli
ordina di consumare e una realtà che glielo proibisce. La fame
lo obbliga a rubare o a prostituirsi; ma è anche costretto al
consumo; la società lo insulta adescandolo con tutto ciò che
rifiuta di dargli.
Paura di vivere
Perci i bambini si vendicano attaccando la società. Nelle strade
delle grandi città si formano bande di disperati, uniti solo
dalla morte che incombe su di loro. Secondo l'organizzazione
Human Rights Watch, i gruppi para-polizieschi sopprimono sei
minori al giorno in Colombia, e quattro in Brasile. E le
bambine? Sono mezzo milione le piccole brasiliane che vendono il
loro corpo, e quasi altrettante in India, mentre nella
Repubblica dominicana la fiorente industria del turismo mette
all'asta bambine vergini.
A metà strada tra chi vive di nulla e chi sguazza nell'opulenza
vi sono le famiglie che hanno un po' più di niente, ma sono ben
lontane dall'avere tutto. I bambini del ceto medio sono sempre
meno liberi, e la società che sacralizza l'ordine mentre produce
il disordine confisca la loro libertà giorno dopo giorno. In
questi tempi di instabilità sociale, quando la ricchezza si
concentra e la povertà si diffonde implacabilmente, come non
sentire che la terra ci sfugge sotto i piedi? Il ceto medio vive
nella finzione, dando a vedere di possedere più di quanto non
abbia, e soffrendo più che mai per mascherare il bisogno. Ed è
paralizzato dal terrore di perdere il lavoro, l'automobile, la
casa, le proprie cose: il terrore di non riuscire a procurarsi
ciò che bisogna avere per esistere, per essere. Nessuno può
rimproverargli una cattiva condotta. Il ceto medio soffre e
continua a credere nell'esperienza come lezione di obbedienza.
Difende ancora l'ordine costituito come se fosse il suo proprio,
mentre ne è schiavo, e vive nel terrore di non riuscire a pagare
l'affitto.
Ed è nella paura, paura di vivere, di impoverirsi, che il ceto
medio fa crescere i propri figli. Intrappolati nella tagliola
della paura, questi bambini sono sempre più condannati
all'umiliazione della reclusione perpetua. Nella città del
futuro, i tele-bambini, sorvegliati da bambinaie elettroniche,
contempleranno la strada dall'alto del loro balcone o della loro
finestra: questa strada proibita a causa della violenza, o della
paura della violenza; questa strada dove si svolge, sempre
pericoloso ma al tempo stesso prodigioso, lo spettacolo della
vita.
(Tra
note:
* Scrittore uruguaiano, autore, tra l'altro, di: La scoperta che
non scoprì l'America, Manifestolibri, 1992, e La memoria del
fuoco, 3 volumi, Sansoni, 1989/90/91.
Articolo tratto da Le Monde Diplomatique, inserto mensile de il manifesto