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LE MULTINAZIONALI IMPONGONO LA LORO LEGGE

Globale e informale, torna il colonialismo


Stiamo assistendo a una nuova fase della storia coloniale? Le società industriali hanno praticato, nel XIX secolo, una politica dapprima di conquista dei mercati del Sud, poi di occupazione militare, infine di annessione. Nel corso della seconda metà del XX secolo, dopo le proclamazioni di indipendenza, le cosiddette politiche di "sviluppo" sono state forme inedite di controllo e di assoggettamento. Oggi, nell'epoca della mondializzazione, un nuovo tipo di colonialismo prende vigore; non è più diretto, come una volta, dagli Stati, ma dai giganti multinazionali.

di edward goldsmith*

La vecchia idea di un modello di sviluppo sociale simile a quello dell'embrione, che porterebbe, in modo crescente e ininterrotto, da una condizione di assoluta povertà a uno stato di prosperità generale, è, come ogni altra forma di messianismo, più pericolosa di quanto sembra. Un economista francese, François Partant, sembra essersene accorto: "Le nazioni sviluppate hanno trovato una nuova missione da adempiere: aiutare i paesi del terzo mondo ad avanzare sulla via dello sviluppo, la via che da secoli l'Occidente cerca di imporre al resto dell'umanità (1)". Un rapido esame della situazione del Sud mostra incontestabili e preoccupanti elementi di continuità tra l'era coloniale e la situazione attuale: nessuna revisione di frontiere per paesi di recente indipendenza, nessun tentativo di ripristinare modelli culturali pre-coloniali, nessuna modifica delle pratiche coloniali di gestione delle terre. I contadini poveri, che "identificavano la lotta per l'indipendenza con quella per le terre", non hanno ottenuto neanche dei piccoli campi da coltivare. "Con l'indipendenza nazionale si è assistito alla conquista delle terre da parte di un nuovo tipo di coloni (2)".
E', osserva il saggista Randall Baker, "per definizione, la storia di una continuità (3)". I due termini "sviluppo" e "colonialismo" (almeno nella sua ultima fase, dopo il 1870) stanno forse a indicare un solo e unico fenomeno, e quindi un solo obiettivo da perseguire? Si può ritenere di sì, se si pensa che di un simile obiettivo hanno parlato, senza peli sulla lingua, alcuni dei suoi più sfegatati sostenitori. Così dichiarava infatti Jules Ferry, a Parigi, alla Camera dei deputati, nel giugno del 1885: "La questione coloniale in un Paese come il nostro, in cui, per il suo stesso carattere, l'industria è legata a considerevoli esportazioni, è vitale per la conquista dei mercati. Da questo punto di vista (), la fondazione di una colonia equivale alla creazione di un mercato". Paul Leroy-Beaulieu, autore di un libro di grande successo, De la colonisation chez les peuples modernes, nel 1874, diceva esattamente le stesse cose, come Cecil Rhodes o Lord Lugard in Inghilterra. Eppure, parecchi paesi del terzo mondo, soprattutto asiatici, non erano affatto felici di offrire alle grandi potenze occidentali né i loro mercati, né la loro manodopera a basso costo, né le loro tanto desiderate materie prime. In nessun modo volevano permettere che delle industrie straniere operassero sul loro territorio e aprissero grandi cantieri di "sviluppo" della rete stradale o delle miniere. I paesi colonialisti cominciarono allora a esercitare pressioni di ogni tipo: ci sarà bisogno di due guerre, per esempio, per costringere la Cina ad aprire le sue porte al commercio inglese e a quello francese. Lo sviluppo del commercio finì per rendere necessaria l'imposizione di concessioni via via più ampie, creando condizioni sempre più favorevoli per le imprese europee. Se l'opposizione locale era troppo forte, se un governo nazionalista o populista arrivava al potere, le potenze europee ricorrevano semplicemente all'occupazione militare e all'annessione. "Il colonialismo scrive uno storico britannico non era una scelta, ma un'ultima risorsa (4)". L'impatto del colonialismo e dei valori occidentali ha prodotto un progressivo sfaldamento delle società tradizionali, in Africa come in Asia. Tutto ciò ha facilitato il mantenimento di condizioni favorevoli al commercio e alla penetrazione dell'Occidente. Verso la metà del XX secolo, all'epoca della decolonizzazione e delle indipendenze, gli investitori e i commercianti europei poterono infine "agire con loro piena soddisfazione nel quadro politico della maggior parte degli stati indigeni ricostruiti (come avevano sognato di fare i loro predecessori nel XIX secolo) senza peraltro dover necessariamente affrontare i problemi legati al sistema, in passato indispensabile, della dominazione diretta (5)". Detto in altri termini: il colonialismo non è morto per la rinuncia da parte delle potenze europee ai vantaggi che procurava, ma piuttosto perché ormai esse erano in grado di ottenere i medesimi vantaggi con metodi più accettabili e più efficaci. Questo è quanto pensavano i diplomatici e i dirigenti economici che si sono riuniti a Washington fin dal 1939, sotto l'egida dell'U.S. Council on Foreign Relations. Essi cercavano i mezzi più efficaci per riuscire, a guerra finita, a piegare l'economia mondiale post-coloniale agli interessi del commercio americano. Queste discussioni portarono alla famosa conferenza di Bretton Woods del 1944 (6), nel corso della quale furono fondati la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale (Fmi). Il libero scambio, si diceva, equivaleva a "una competizione in condizioni di pari opportunità", senza svantaggi sleali. Ma, quando il forte attacca il debole, anche se con pari opportunità, il risultato della partita non è forse già deciso in anticipo?
All'epoca di Bretton Woods, gli Stati uniti controllavano incontrastati la sfera politico-economica mondiale, l'Europa industriale era devastata dalla guerra e il Giappone era stato conquistato e sottomesso. Un secolo prima, era stata l'Inghilterra a decantare le lodi del libero scambio, e per le stesse ragioni: poiché gli inglesi dominavano l'economia mondiale, il libero scambio era funzionale ai loro obiettivi commerciali. Dal 1860 al 1873, Londra è riuscita a creare il primo nucleo di un "sistema mondiale universale di flussi virtualmente illimitati di capitali, merci e lavoratori", constata lo storico britannico Eric Hobsbawm.
Solo gli Stati uniti sono rimasti sistematicamente legati a una politica protezionistica, riducendo i loro dazi doganali solo dal 1832 al 1860 e poi dal 1861 al 1865, dopo la guerra di Secessione. Verso il 1870, l'Inghilterra ha cominciato a perdere terreno rispetto ai suoi concorrenti. I valori delle sue esportazioni hanno subito un tracollo una prima volta dal 1870 al 1893, e poi, nuovamente, alla fine del secolo. Contestualmente, le crisi prolungate degli anni 1870 e 1890, facevano crescere lo scetticismo nei confronti della reale efficacia del libero scambio. Soprattutto nell'ultimo decennio del secolo, i paesi europei, fatta eccezione per l'Inghilterra, il Belgio e i Paesi Bassi, hanno aumentato i loro dazi doganali. Vedendo restringersi i loro mercati tradizionali, le grandi imprese hanno cominciato a rivolgere i propri interessi verso quelli dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina e del Pacifico, resi accessibili dalla navi a vapore rapide e di grosso tonnellaggio. Per questo, si rendeva necessario conquistare e sottomettere questi paesi, dove era possibile vendere le proprie merci con profitto, senza il pericolo e la preoccupazione della concorrenza di altri paesi europei (7). Iniziò allora la corsa alle colonie. Nel 1878, il 67% delle terre emerse era stato colonizzato dagli europei. Nel 1914, la percentuale raggiungeva l'84,4% Il mezzo migliore e più intelligente di attivare un nuovo mercato era di promuovere la creazione sul posto di élite occidentalizzate, fedeli a un'idea di progresso economico e assolutamente indifferenti alle conseguenze nefaste che esso poteva avere sulla vita della maggior parte dei loro compatrioti.
Quest'analisi è valida anche per la situazione odierna e spiega perché, come sottolinea François Partant, gli interessi dei governi dei paesi del Sud restano, "in generale, contrari a quelli della maggioranza della popolazione (8)". Le potenze europee erano ben consapevoli della necessità di creare élite di questo tipo. Dopo la rivolta dell'India del 1857, il principale argomento di discussione negli ambienti politici di Londra era capire se, per evitare nuovi disordini, fosse venuto il tempo di formare un'élite anglicizzata, favorevole al commercio, o se piuttosto, secondo un'opinione più diffusa, si dovesse mantenere indefinitamente l'occupazione militare (9). Queste élite dovevano ovviamente essere armate, in modo da poter imporre un tipo di sviluppo che comportava necessariamente l'esproprio o l'impoverimento della maggior parte dei cittadini. Questo è rimasto uno degli obiettivi principali degli attuali programmi di aiuto: i due terzi degli aiuti che gli Stati uniti concedono ai paesi del Sud riguardano l'assistenza in materia di sicurezza e prevedono, in particolare, un addestramento militare e trasferimenti di armi (10). La maggior parte dei governi che hanno beneficiato di questi aiuti sotto forma di armi e di assistenza militare erano delle dittature militari. Questo fu il caso, negli anni 60 e 70, del Nicaragua, del Salvador, del Guatemala, del Cile, dell'Argentina, dell'Uruguay, del Paraguay, del Brasile e del Perù. Così, quando un governo ostile agli interessi dell'Occidente giungeva al potere in America latina, prontamente Washington interveniva per rovesciarlo. Nel 1954 gli Stati uniti hanno organizzato un colpo di stato contro il governo guatemalteco di Jacobo Arbenz, che aveva nazionalizzato alcune piantagioni di banane nord-americane. Più volte si è cercato, negli anni 60, di rovesciare il regime di Fidel Castro a Cuba, organizzando, in particolare, nel 1961, lo sbarco nella Baia dei Porci; e allo stesso modo si è agito in Brasile, quando Joao Goulart ha deciso di promuovere una riforma agraria e di controllare i maneggi delle multinazionali americane; poi, nel 1965, contro la Repubblica Domenicana. E ancora, nel 1973, contro il Cile del presidente Salvador Allende, poi contro il Nicaragua sandinista, contro Grenada, e anche, nel 1989, contro Panama. Nello stesso modo, durante l'epoca coloniale, le potenze europee hanno sempre inviato truppe in aiuto dei regimi vassalli, messi in pericolo da rivolte popolari. La Francia e la Gran Bretagna hanno partecipato alla repressione in Cina della ribellione promossa dal movimento Taiping (1854), e, più tardi (1900) hanno represso la sedizione xenofoba dei Boxer; nel 1882 Londra ha inviato truppe per aiutare il viceré Ismail a soffocare la rivolta nazionalista egiziana. Ai giorni nostri, le potenze occidentali non si sono comportate diversamente. Quando, nel 1964, un colpo di stato minacciava il presidente-dittatore del Gabon, Mba, la Francia si è affrettata a inviare un reparto di parà per sconfiggere i golpisti. Queste truppe sono poi rimaste anche a fianco del suo successore, il presidente Omar Bongo, che il saggista francese Pierre Péan ha definito come "il rappresentante di un potente gruppo di francesi che, dopo l'indipendenza, continuano a influire in maniera sostanziale sulle vicende del Gabon". Gli Stati uniti e il Regno unito non sono stati da meno nell'ambito delle loro rispettive aree di influenza (11). Nella misura in cui le colonie fornivano alla madrepatria un mercato per le esportazioni industriali, lavoratori a basso costo e materie prime, esse sottraevano tutto ciò al loro proprio settore produttivo. In questo modo, la loro economia interna risultava seriamente indebolita, e le manifatture locali erano votate alla distruzione. E' così che l'Inghilterra ha soffocato, in India, ogni possibilità di sviluppo dell'industria tessile locale, linfa vitale dell'economia del subcontinente.
Nell'Africa occidentale, nel 1905, a ogni manufatto non proveniente dalla Francia o da un paese soggetto alla sua dominazione, veniva imposta una tassa che ne aumentava il prezzo di vendita, provocando in questo modo la rovina dei commercianti e degli artigiani locali. Nel dopoguerra, le economie interne di questi paesi hanno continuato a soffrire della stessa debolezza di prima.
L'Occidente ha a stento autorizzato la produzione di un numero ristretto di prodotti d'esportazione. L'esempio tipico è lo zucchero: per la pressione della Banca mondiale, immensi territori del Sud sono stati destinati alla coltivazione della canna, mentre l'Unione europea e gli Stati uniti continuavano a sovvenzionare la propria produzione di zucchero, provocando in questo modo un tracollo dei prezzi. Come ci si può stupire, allora, che i termini di scambio con i paesi poveri del Sud si siano deteriorati? Nel periodo compreso tra il 1950 e il 1980, appena uno di questi paesi mostrava l'intenzione di voler diversificare la sua produzione, subito veniva accusato di voler promuovere una strategia di "sostituzione delle importazioni", pratica considerata peccaminosa, che veniva punita con l'immediato blocco di ogni prestito di aggiustamento strutturale (Pas) da parte del Fmi. Del resto, non c'è da sorprendersi se, come nota Walden Bello (12), "le esportazioni dei paesi sottomessi ai programmi di aggiustamento strutturale tendono ad aumentare, senza tuttavia necessariamente generare una crescita del prodotto interno lordo, a causa della contrazione inevitabile che colpisce la loro economia". Accordare ingenti prestiti all'élite complice di un paese non industriale è il mezzo più efficace per aver accesso, da lontano, ai suoi mercati e alle sue risorse naturali. Per pagare gli interessi, infatti, il governo indebitato dovrà investire in affari che non siano solamente produttivi, ma anche competitivi sul mercato internazionale, perché i rimborsi vanno fatti in valuta, generalmente in dollari. Ahimé! questi governi del Sud avranno molte poche possibilità di realizzare un tale obiettivo. Circa il 20% della somma presa in prestito sarà destinato infatti a tangenti riscosse da politici o da funzionari, altre somme enormi verranno spese per prodotti di consumo di lusso per l'élite al potere, per infrastrutture giganti che forse non verranno mai utilizzate, e per le armi necessarie a soffocare eventuali sedizioni delle popolazioni vittime di questo tipo di sviluppo. Un paese che fa ricorso a molti prestiti, si ritrova presto sommerso di debiti e in balia degli stati creditori. E' a questo punto che questi ultimi daranno vita a una dominazione di fatto, sottomettendo il debitore al controllo di un'istituzione (attualmente il Fmi), che prenderà in mano la sua economia in modo che gli interessi siano regolarmente pagati. Il paese debitore diviene così una colonia "informale". La tecnica del "colonialismo informale" non è nuova. Essa è spesso stata usata durante l'epoca coloniale, in Egitto come in Tunisia. Il bey di Tunisi aveva fatto ricorso a molti prestiti per rinforzare il suo esercito e allentare i legami stretti con la Turchia. Una quota considerevole della somma presa in prestito corrispondeva a obbligazioni detenute da cittadini francesi, che presto invocarono l'aiuto del Quai d'Orsay. Le loro richieste non rimasero inascoltate. La gestione economica del bey fu quindi sottomessa a una supervisione tecnica ben collaudata dalla Francia e dall'Inghilterra, che rappresentava una sorta di antesignano del Fmi. La commissione mista franco-tunisina, fondata nel 1869, impose subito condizioni draconiane. Si assunse il diritto di raccogliere e distribuire le entrate dello stato, in modo da garantire il puntuale pagamento degli azionisti. Il presidente americano Bill Clinton ha appena concluso un'operazione analoga in Messico, obbligato a mettere un'ipoteca sulla sua principale ricchezza, il petrolio, da usare come garanzia per i grandi finanzieri di Wall Street che in cambio hanno accordato un prestito di diversi miliardi di dollari. Fin dal 1869, "le finanze pubbliche della Tunisia, e cioè il suo governo di fatto, sono controllate da stranieri (13)". La Tunisia è diventata così una "colonia informale". A causa delle sempre più pressanti richieste di pagamento da parte degli stranieri, il bey dovette aumentare le tasse, generando un diffuso malcontento nel popolo, che cominciò ad accusare il governo di essersi venduto agli stranieri. Nel 1881 ha avuto luogo la vera e propria annessione (forse effettuata dalla Francia semplicemente per paura di essere preceduta dall'Italia). Stessa sorte è toccata all'Egitto.
Harry Magdoff l'ha riassunta alla perfezione: "La perdita di sovranità dell'Egitto ricorda la vicenda tunisina: crediti facili e prolungati da parte degli europei, bancarotta, crescente controllo da parte della commissione del debito estero, sfruttamento dei contadini per raccogliere i fondi necessari per il servizio sul debito, sviluppo di agitazioni nazionaliste, conquista militare da parte di un governo straniero (14)".
Nell'epoca dello sviluppo, la tecnica del prestito come mezzo di controllo si è notevolmente perfezionata. Si nasconde la vera natura del prestito sotto l'ipocrita definizione di "aiuto", giustificato dalla "povertà" del terzo mondo, conseguenza del suo sottosviluppo, rispetto al quale lo sviluppo sembra essere il palliativo automatico. Per porre rimedio a questa situazione di sottosviluppo, occorrono capitali e conoscenze tecniche, che vengono puntualmente forniti dal sistema delle industrie occidentali. Secondo le parole di John M. Galbraith, "possedendo il vaccino, abbiamo inventato il vaiolo". Gli attuali modelli sono i paesi di recente industrializzazione, come la Corea del Sud, Taiwan, Singapore o Hong-Kong. Singapore e Hong-Kong non hanno mai contratto molti debiti per finanziare il loro sviluppo. Taiwan si è indebitata un po', all'inizio, ma ha saputo resistere alle pressioni esercitate dagli Stati uniti per indurla a spendere di più. L'unico fra questi paesi ad essersi indebitato in maniera considerevole è stata la Corea del Sud. Tuttavia i coreani sono riusciti laddove altri hanno fallito (cioè a riscattare i propri debiti attraverso le esportazioni) e semplicemente perché hanno saputo resistere alla Banca mondiale e al Fmi che li spingevano ad aprire i loro mercati. In tal modo, essi hanno mantenuto il controllo delle importazioni e dei capitali, così come precedentemente avevano fatto i giapponesi. Se è evidente che lo sviluppo ha bisogno di capitali, nota l'economista Cheryl Payer, "nel mondo attuale, sono i mercati e non i capitali a costituire una rarità (15)". Oggi la politica degli aiuti è uno strumento eccellente per aprire i mercati, visto che una parte significativa dell'assistenza data è legata all'acquisto di prodotti esportati dal paese donatore. Come le colonie di una volta, costrette ad acquistare i manufatti dalla madrepatria, i beneficiari di crediti sono obbligati a spendere circa il 70% di una somma di denaro teoricamente destinata a combattere la povertà e la malnutrizione, per l'acquisto di attrezzature inadatte e articoli industriali prodotti dai loro generosi donatori. E se si azzardassero a opporre un seppur minimo rifiuto, la loro audacia verrebbe subito piegata con la semplice minaccia di interrompere l'erogazione di quelle risorse da cui dipendono in misura sempre maggiore. Così concepita, la politica degli aiuti in linea generale non ha alcun effetto positivo sui poveri del Sud, per il semplice fatto che l'economia locale, che è l'unica a poterli sfamare, non ha alcun bisogno delle autostrade, delle grandi dighe, delle sementi ibride, dei concimi e dei pesticidi della "rivoluzione verde". Questi prodotti interessano soltanto l'economia globale, che si sviluppa a scapito di quella locale di questi paesi, provocando danni permanenti all'ambiente, disgregando le diverse comunità, saccheggiando le risorse una a una: acque, foreste, terree manodopera. La crisi del debito dell'inizio degli anni '80 aveva completamente assorbito l'investimento privato nei paesi del Sud, e tutto il nuovo denaro fornito dalle banche multinazionali dello sviluppo serviva soprattutto a rimborsare gli interessi sui prestiti che il paese debitore aveva contratto da istituzioni private. Nel giro di qualche anno la situazione è mutata. L'investimento privato in alcuni paesi del Sud chiamati ormai "paesi emergenti" è aumentato progressivamente, fino a raggiungere la cifra di 200 miliardi di dollari l'anno, dei quali una metà viene destinata a investimenti a lungo termine e l'altra a fondi di speculazione a breve termine. Questo aumento massiccio si spiega in parte con lo scarto che intercorre tra le immense somme di denaro a disposizione degli Stati uniti e degli altri paesi industriali alla ricerca di una collocazione, e la pressoché totale mancanza di opportunità di investimento negli stati sviluppati; in parte per il fatto che si sono create nel mondo intero condizioni altamente favorevoli per le società multinazionali: l'abbondanza di una manodopera non qualificata, ma anche di tecnici e quadri altamente qualificati e a basso costo. Come se non bastasse, queste società hanno accesso a tutti i servizi finanziari e alle più moderne tecniche informatizzate di produzione e di gestione. In più, l'Organizzazione mondiale del commercio (Omc) obbliga ormai i paesi del Sud ad accettare ogni investimento straniero; a trattare come "compagnia nazionale" ogni impresa straniera che opera sul suo territorio, nel settore agricolo, minierario, industriale e nei servizi; a eliminare i dazi doganali e i contingenti di importazione su tutte le merci, compresi i prodotti agricoli; ad abolire gli "ostacoli non tariffari al commercio", cioè la legislazione sul lavoro, sulla salute e sull'ambiente, che rischierebbero di far aumentare i costi di produzione. Nessun governo, nemmeno nel Nord, esercita più alcuna forma di controllo sulle imprese multinazionali. Se una legge ostacola la loro espansione, esse minacciano semplicemente di andarsene, e lo possono fare seduta stante: sono libere di percorrere in lungo e in largo il pianeta per cercare la manodopera meno cara, l'ambiente meno protetto dalla legge, il regime fiscale meno oneroso, i sussidi più generosi. Nessun bisogno di identificarsi con una nazione o di mantenere un legame sentimentale (se non patriottico) può intralciare i loro progetti. Esse sfuggono a ogni forma di controllo. Nella misura in cui poche ditte si impadroniscono del mercato mondiale dei beni che producono, la concorrenza tra loro risponde sempre meno ai loro interessi. La competizione riduce i loro margini di guadagno, la cooperazione, invece, permette loro di rinforzare la propria influenza sui governi e di affrontare l'opposizione crescente di movimenti populisti, nazionalisti o di altro tipo, che vorrebbero veder ridotti la loro influenza e il loro potere. Sempre più, le imprese praticano l'integrazione verticale, che permette loro di controllare ogni tappa del funzionamento del loro settore, dall'estrazione dei minerali, per esempio, alla costruzione delle fabbriche, alla produzione di merci, allo stoccaggio, al trasporto verso le filiali straniere, alla vendita all'ingrosso e al dettaglio. In questo modo si assicurano che a stabilire i prezzi siano, a ogni tappa, loro stesse e non il mercato come invece vogliono far credere (16). Le transazioni mondiali avvengono sempre più massicciamente tra le multinazionali e le loro filiali. Non si tratta più di autentico commercio, ma del prodotto di una pianificazione privata centralizzata a scala planetaria. Secondo Paul Enkins, economista britannico ed esperto di ecologia, le multinazionali diventano "gigantesche zone di pianificazione burocratica, nell'ambito di una presunta economia di mercato (17)". Secondo lui, esiste una singolare analogia tra le ditte giganti e le imprese di stato: "Entrambe utilizzano strutture gerarchizzate per distribuire le risorse all'interno della loro organizzazione, invece di rivolgersi al mercato". Che cosa si può fare per impedire che il 50%, il 60% o l'80% del commercio mondiale si risolva all'interno dei"confini di tali organizzazioni"? La strada su cui ci stiamo immettendo potrebbe condurci verso un'epoca di pianificazione centrale su scala planetaria: il colonialismo globale delle imprese. Queste nuove potenze coloniali rendono conto del loro operato soltanto ai loro azionisti: non sono altro che macchine per accrescere il loro profitto in maniera immediata (18). Finiranno per avere un potere tale da essere in grado di costringere un governo, se ce ne fosse bisogno, a difendere i loro interessi contro quelli della popolazione che esso rappresenta. Questo nuovo colonialismo delle imprese transnazionali rischia di essere il più sfacciato e brutale che si sia mai visto.
Potrebbe tranquillamente impoverire ed emarginare le persone, distruggere le culture, causare disastri ecologici, più di quanto abbiano fatto il colonialismo di una volta o la politica di sviluppo degli ultimi cinquant'anni. Quanto tempo reggerà?
Forse qualche anno, o qualche decennio, ma un'economia capace di produrre miseria in questa misura non può sopravvivere a lungo.

note:
*Fondatore della rivista The Ecologist (Londra), autore, in particolare, di Rapport sur la planète Terre, Stock, 1990.

torna al testo (1) François Partant, La fin du développement, François Maspéro, Parigi, 1982.

torna al testo (2) Eric Jacoby, "Agrarian Unrest in South East Asia", New York, 1961, citato in George Beckford, Persistent Poverty, Zed Books, Londra, 1983.

torna al testo (3) Randall Baker, "Protecting the environment against the poors", The Ecologist, Londra, vol. 14, n&oord2, maggio-aprile 1984.

torna al testo (4) D. K. Fieldhouse, Economics and Empire, 1830 to 1914, Macmillan, Londra, 1984.

torna al testo (5) Idem.

torna al testo (6) David Korten, The Failure of Bretton Woods, in Jerry Mander e Edward Goldsmith The Case Against the Global Economy, Sierra Club Books, San Francisco (sarà pubblicato nel settembre 1996).

torna al testo (7) D. K. Fieldhouse, op. cit.
torna al testo (8) François Partant, op. cit.

torna al testo (9) D. K. Fieldhouse, op. cit.

torna al testo (10) Kevin Danaher, Betraying the National Interest, Grove Press, New York, 1988.

torna al testo (11) Marcus Colchester, "Slave and Enclave; Towards a Political Ecology of Equatorial Africa", The Ecologist, vol. 23, n&oord5, settembre-ottobre 1993.

torna al testo (12) Walden Bello, Dark Victory, Pluto Press, Londra 1994.
torna al testo (13) D. K. Fieldhouse, op. cit.
torna al testo (14) Harry Magdoff, Imperialism: From the colonial Age to the Present, Monthly Review Press, New York, 1978.

torna al testo (15) Cheryl Payer, Lent and Lost: Foreign Credit and Third World Devolopment, Zed Books, Londra, 1991.

torna al testo (16) Citato da John Hultgren, "International Political Economy and Sustainability", contributo non pubblicato, Oberlin College, maggio 1995.
torna al testo (17) Paul Ekins, "Trade and Reliance", The Ecologist, vol. 19, n&oord5, settembre-ottobre 1989.

torna al testo (18) Jerry Mander, "The Corporations as a Machine" in Jerry Mander e Edward Goldsmith, op. cit.
(Traduzione di C.M.)
Articolo tratto da Le Monde Diplomatique di Aprile-1996, inserto mensile de il manifesto