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QUANDO IL SOGNO AMERICANO DIVENTA UN INCUBO

Trentotto milioni di cittadini che sopravvivono sotto la soglia di povertà;

un reddito procapite che è crollato;

tempi di lavoro più lunghi che quarant'anni fa;

un debito pubblico astronomico;

l'economia del Paese in mano a una insignificante minoranza della popolazione;

una disoccupazione che continua a rimanere altissima.

Nell'analisi dell'economista statunitense Jeremy Rifkin,

il sogno americano assomiglia sempre più a un incubo.

Un incubo dal quale tenersi lontani.

Il mito americano demolito, assai autorevolmente, da un americano illustre. La nazione guida a cui ci viene costantemente suggerito, consigliato, comandato di ispirarci, è un idolo franante: un colosso molliccio che minaccia di coinvolgerci tutti in una caduta epocale, fin dall'inizio del secolo XXI. Questo è il succo di uno studio, sorretto da una mole impressionante di documenti e prove, dell'economista Jeremy Rifkin. Tesi centrale: la travolgente espansione dell'alta tecnologia diminuisce senza scampo i posti di lavoro, per cui all'umanità si presenta un futuro di disoccupazione, criminalità ingigantita, guerre tra poveri, tirannia delle imprese (e delle loro ristrette élites manageriali) come risultato del sempre più invocato, e per conseguenza accentuato, assottigliarsi dello statalismo.

Tuttavia non è su questa apocalisse - ancora mera profezia - che va concentrata l'attenzione, ma su un tema più ridotto e attuale: la demolizione dei quattro piloni fondamentali su cui si regge ai nostri occhi di europei il mito americano: il presunto primato mondiale della prosperità, quello dell'organizzazione industriale, la superiorità di sapienza amministrativa, il preteso ruolo di avanguardia politico-sociale.

Spulciando fra migliaia di dati contenuti nel libro-radiografia di Rifkin ("La fine del lavoro", Baldini & Castodi), presento partitamente i più significativi.

La prosperità. Sulla leggendaria opulenza, sul sazio "benessere" della società statunitense si son riempite per decenni le cronache e le TV di tutto il mondo, e giù giù fino ai cicalecci da salotto e da Caffè dello Sport. Ma ecco la realtà: 36,9 milioni di cittadini Usa vivono al di sotto della soglia di povertà (Relazione governativa del Census Bureau 1993) e purtroppo la tendenza è ad aumentare: i sottopoveri erano 31,5 milioni nell'anno '89, saliti a 35,7 nel '91...

Le retribuzioni, le tanto vantate retribuzioni. il lavoratore americano medio dell'industria guadagna 15,89 dollari l'ora - contro i 26,89 del suo omologo tedesco e i 21 dell'italiano. Ma che almeno lo yankee recuperi lo svantaggio godendosi più tempo libero degli europei. No: lavora 1857 ore l'anno - contro le 1.519 del tedesco; e i 40 giorni di ferie retribuite del tedesco, neppure se li sogna. «Con tempi lavorativi più lunghi di 40 anni fa, aggiunge lo studioso, gli americani dispongono di un terzo del tempo libero in meno».

Si può sperare che il toccasana della "flessibilità" con cui si riempiono la bocca tanti economisti al di là e al di qua dell'Atlantico, rimedi a questi guai? Al contrario. Ecco l'analisi di una azienda Usa, la sede distributiva della Nike, a Memphis: i 120 dipendenti fissi che guadagnano 13 dollari l'ora lavorano fianco a fianco con avventizi 'fluttuanti' che talora sono 60 talora 225. Gli avventizi sono pagati, a parità di lavoro-mansioni con gli addetti fissi, esattamente la metà: dollari 6,50 l'ora (in cui è compresa anche la quota per l'agenzia Norrell Service che li ha fatti assumere) Nella maggioranza delle altre aziende, però, gli avventizi sono un po' meno maltrattati: guadagnano solo dal 20 al 40 per cento in meno. La disparità, nota Rifkin, «ha lo scopo di comprimere i salari dei lavoratori fissi: i datori di lavoro agitano sempre più frequentemente lo spauracchio del ricorso al lavoro temporaneo (ovvero alla flessibilità) per evitare le concessioni salariali nelle trattative con la forza lavoro organizzata».

Aggiungo, al di fuori del testo di Rifkin, alcuni dati generali sul reddito pro capite delle nazioni. Nel 1971 (fonte: Oced) gli Usa erano al Primo posto nel mondo; seguivano la Svezia, il Canada, la Danimarca, la Germania Federale. Dieci anni dopo, nell'81 (fonte: Banca Mondiale), il primato era definitivamente crollato: gli Usa erano scesi al sesto posto: dopo il Kuwait, la Svizzera, la Germania Federale, Belgio, Norvegia.

Il primato dell'organizzazione produttiva. Nella prima metà del secolo esso spettava senza dubbio alla classe imprenditoriale americana. Essa inventò il fordismo e il taylorismo, spietati ma efficaci propulsori della produzione di massa, e negli anni '50 ha applicato la strategia vincente del N/C o controllo numerico computerizzato per l'automazione dei processi di produzione ma non ha ovviato a un grosso difetto, l'estrema rigidità della struttura aziendale (piramide gerarchica di durezza quasi militare: la linea di comando corre dal top management verso il basso fino alla fabbrica, dove «la forza lavoro è privata di qualsiasi competenza complessa e di qualsiasi potere nella determinazione del ritmo di produzione»). Ma ora il primato è caduto: ora spetta all'industria giapponese. Il management Usa a partire dagli anni '80 "va a scuola" dall'industria automobilistica nipponica che ha creato suoi propri e più moderni metodi di produzione, post-fordisti, detti Lean Production, che combinano i vantaggi della produzione artigianale e di quella industriale evitando i costi della prima e la rigidità della seconda. «Allo stabilimento Toyota bastano 16 ore per costruire un'automobile con un impiego di spazio di circa 0,5 mq per automobile l'anno e con 0,45 difetti di fabbricazione per esemplare. Allo stabilimento General Motors di Framingham ci vogliono quasi 30 ore e quasi 1 mq ottenendo 1,3 difetti per vettura».

Sapienza amministrativa. Scarsa, a giudicare dalle seguenti cifre 'storiche'. Nel 1929 la spesa pubblica rappresentava il 12 per cento del Pil; nel 1975, il 33 Per cento. Nell'anno '60 il deficit del bilancio federale era di 59 miliardi di dollari; nel '93, di oltre 225. Nel 1995 il governo si indebita per un dollaro ogni 4 spesi, e il pagamento di interessi sul debito pubblico è di 300 miliardi di dollari, cioè più del 20 per cento della spesa pubblica. Le spese militari sono le più alte del mondo.

Avanguardia politico-sociale. «Quel che fa l'America lo faremo noi dieci anni dopo»: usuale stereosentenza di commentatori italiani a proposito delle strategie da adottare... Speriamo di no: perché la radiografia della società Usa palesa lo strapotere dei pochissimi su masse sempre più frustrate. oggi meno dello 0,5 per cento della popolazione comanda l'economia e condiziona direttamente la vita di 250 milioni di cittadini. Questa minima élite possiede il 37 per cento di tutti i titoli azionari e obbligazionari e il 56,2 per cento del capitale industriale nazionale. Subito al disotto troviamo un 4 per cento della popolazione attiva composto di managers e altissimi tecnologi; sotto, ancora, c'è un 16 per cento di tecnologi intermedi e di esecutivi; i due strati, definiti Knowledge Workers, compongono il 20 per cento della popolazione attiva, che percepisce 1.775 miliardi di dollari l'anno, più di quanto riescano complessivamente a mettere insieme i rimanenti 80 per cento. Per rendersi conto della decadenza dei lavoratori dipendenti, cioè dell'enorme maggioranza, ecco un flash storico del rapporto fra gli stipendi del vertice industriale, top management, e la paga dell'operaio. Nel 1953 la retribuzione del vertice equivaleva al 22 per cento dei profitti delle imprese; nell'87 era salita al 62 per cento. Nel '79 il chief esecutive officer medio guadagnava 29 volte di più dell'operaio medio; nell'88, 93 volte di più. Cifra che rivela anche il calo della forza contrattuale dei sindacati.

Va a gambe all'aria, così, la famosa regola dell'optimum economico-democratico dei "due terzi": le società occidentali opulente erano giudicate perfette perché, si diceva, i due terzi della popolazione nuotano nella grascia e solo un terzo si dibatte nelle ristrettezze, «e ben gli stia»; potrà tutt'al più fare opposizione politica, ma sempre minoranza rimane. Ora, come, questo schema è spazzato via dalla realtà.

Pensioni. Siamo assiduamente esortati a «fare come in America» affidandoci a banche e compagnie di assicurazioni. Ma ecco le conclusioni tratte da Rifkin: «I fondi pensioni sono la più potente struttura di finanziamento negli Usa e detengono quasi un terzo di tutte le attività finanziarie del paese... Sfortunatamente i lavoratori hanno poca o nessuna voce sulle modalità di . investimento del loro risparmio; in conseguenza, per più di 40 anni le banche e le assicurazioni hanno investito i miliardi di dollari di questi fondi pensione per finanziare proprio quelle tecnologie labor-saving (ossia essenzialmente informatica e automazione che hanno avuto l'effetto di distruggere i posti di lavoro di quelle stesse persone che li avevano pagati».

Infine. La disoccupazione e sottoccupazione sono aumentate, proprio per effetto dell'alta tecnologia che sostituisce tanti cervelli e tante braccia. Negli anni '50 il tasso medio decennale di disoccupazione era del 4,5 per cento; negli anni '60, era del 4,8 per cento; anni '80, del 7,3 per cento. Nel '93 oltre 8,7 milioni erano disoccupati e 6,1 milioni a part-time. Tra disoccupati, part-time e sottoccupati ("flessibili" e con posti di poca durata), totale 16 milioni: il 13 per cento della forza lavoro. Un dato non so se peggiore di quello italiano perché il computo di part-time e di temporanei inquina il raffronto: ma certo non esemplare, non un roseo miraggio a cui guardare osannanti.

E tal sia per ciascuno dei punti sopra elencati. Al conclamato crollo dei miti e delle ideologie europee, aggiungiamo anche questo d'oltre oceano. E quello di San Mercato, taumaturgo per miliardari.



Articolo di Paolo Pardo tratto dal settimanale Avvenimenti del 12 febbraio 1997