NOVA CULTURA EDITRICE - BERTANI EDITORE.
620 PAGINE L. 48.500
SOMMARIO
Presentazione di Gianni Tognoni
SEZ. 1 IL TRIBUNALE PERMANENTE DEI POPOLI
Le radici (intervento di Lelio Basso alla FAO-1975)
Ponti e cammini di Julio Cortazar (Bologna 24/6/1979)
La struttura delle sentenze
Bibliografia minima
SEZ. 2 I DOCUMENTI DI BASE
La Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (Algeri 4 luglio
1976)
Lo Statuto del Tribunale
SEZ. 3 LE SENTENZE
Sahara occidentale
Argentina
Eritrea
Filippine e popolo Bangsa-Moro
El Salvador
Afghanistan Ia sessione
Afghanistan IIa sessione
Timor Orientale
Zaire
Guatemala
Il genocidio degli armeni
Gli interventi degli Stati Uniti in Nicaragua
Le politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca
Mondiale
Puerto Rico
Amazzonia brasiliana
L'impunità per i crimini di lesa umanità in America Latina
I Membri del Tribunale Permanente dei Popoli
PRESENTAZIONE
È strano scrivere una introduzione ad un libro che si è vissuto, tutto, lungo tanto tempo. Non perché non ci siano cose da dire (e tante volte anche le si sono scritte e ripetute). Ma proprio perché è stato vissuto e il riandare a tutto questo cammino (finalmente ripercorribile nel suo complesso) significa rincontrare - rivedere, risentire, riavere insieme e dentro - volti, voci, storie, persone, gruppi, emozioni, l'esperienza dello stupore che toglie la parola per l'orrore, e l'incredibilità della speranza, la nostalgia di poter camminare con testimoni che sembravano venire da un mondo trasparente (quanti se ne sono già andati, e se ne vanno, bruciati da questa trasparenza?), la durezza dello scontro con la opacità della repressione gratuita, programmata, senza senso, attenta a chiudere anche i pertugi sul futuro.
Parlare, commentare? Al di là di quanto dice, con la completezza profetica della parola-poesia, Cortazar? E poi l'esercizio del Tribunale è stato quello di ricondurre tutto il tumulto delle emozioni e delle storie alla rigorosità delle argomentazioni storiche, giuridiche, economiche, culturali, politiche: perché questa era ed è la richiesta dei popoli che si rivolgono al Tribunale Permanente dei Popoli. Una condivisione di rigore: a quello della lotta deve corrispondere quello della lucidità di analisi e di giudizio. Perché nella ricerca della liberazione non servono simpatizzanti facili ed occasionali, ma interlocutori disincantati, capaci di durare nel tempo e perciò di lasciare decantare le commozioni.
Ricercatori, anche loro, di liberazione, con i loro strumenti, la loro logica. Tutto questo è passato nelle sentenze: ognuna è introduzione, commento, integrazione dell'altra: come lo sono i popoli tra loro. Quanto segue è perciò una cosa strana: oscillante tra il ricordo e la riflessione, in un "oggi" (e domani?) che non permette di essere ottimisti. Occasione di riguardare-riformulare le ragioni di un cammino, che è ancora pieno di impegni. Forse anche di fornire alcuni spunti non originali ma didattici, "per i più giovani" (come si dice, ma con la coscienza di non sapere se questi "giovani" comprendono ancora un linguaggio che non fa più parte delle lingue autorizzate).
Anche la logica di sviluppo dell'introduzione può sembrare strana: non so perché si è venuta strutturando così. Forse perché la storia del TPP è stata una lunga, pubblica dialettica scuola di metodo, o forse perché sono viziato dal mio mestiere di lavoro in ricerca: ed in entrambe le esperienze si preferisce sempre vivere la verifica delle proprie ipotesi nel confronto permanente con gli interrogativi di fondo. Poi, certo, si arrischia la ricerca perché è solo così che il dubbio non diventa paralizzante ma generatore di futuro.
DUBBI
1. Chi sa: forse questo è un libro vecchio. Raccoglie storie che nel frattempo sono tutte, più o meno, evolute.
In meglio? Alcune certamente sì. Basta pensare alla festa degli Eritrei rientrati da vincitori nella loro capitale al di là di ogni ragionevole speranza possibile in quel giorno di dieci anni fa in cui li si indicava, nella conferenza stampa di Milano, come portatori di un diritto inviolabile, in una Italia che ancora per anni avrebbe quasi proibito la solidarietà con loro, perché impegnata a sostenere tutti nel Corno d'Africa salvo loro. Forse le Filippine? O El Salvador? Afghanistan? Sarà vero?
In peggio? Se si guarda a Timor Est: qualcuno sa ancora se c'è, che ne è rimasto? O se si guarda alle sentenze sul Fondo Monetario e la Banca Mondiale e sulla Impunità è legittimo domandarsi se non soltanto non si vedono tracce dell'efficacia delle condanne pronunciate (questo fa un po' parte della coscienza che costituì il Tribunale Permanente dei Popoli, TPP), ma addirittura se non diminuisce giorno per giorno la possibilità stessa di sollevare l'interrogativo-accusa:
- sulla legittimità di un diritto internazionale che sembra ritornare alle sue radici di amministratore dei diritti dei potenti;
- su una impunità che viene dichiarata parte "inevitabile" del quotidiano, non appena si mettono in discussione i "superiori" diritti ed equilibri di una comunità internazionale (o nazionale) che dichiara la propria "obbedienza dovuta" alle leggi economiche.
2. Chi sa: forse è un libro non-tempestivo. Non parla né sembra portar tracce della storia che viviamo. Il dopo-Muro di Berlino, il dopo-Gorbaciov, il dopo-Guerra del Golfo, il dopo-Yugoslavia: tutta questa storia drammatica che, ci si dice, è tutta da riscrivere, perché ormai siamo "dopo", ma un "dopo" che ha spezzato le sue radici, anzi che le deve rompere per poter capire, comprendere, perché bisogna liberarsi dei vecchi schemi, perché la storia, quella di ieri, era un mito, e i suoi residui possono confondere ed essere trappole.
IPOTESI
1. Questo è un libro di storia. È vecchio perciò. E non è tempestivo. Non è una storia antica: anche se le parole con cui Basso immaginava il TPP, e quelle con cui Cortazar lo inaugurava, sembrano venire da un tempo e portare con sè echi che non si potrebbero facilmente collocare nella letteratura politica o tra le parole che vanno di moda oggi. Storia di quindici anni, poco più poco meno, a seconda se si considera il tempo in cui il TPP è stato immaginato o l'inizio della sua operatività.
Questo libro è la cronaca della storia di questi quindici anni, vista da quell'osservatorio non-ufficiale che sono i popoli (non per nulla si dice che non c'è una definizione di popolo, mentre c'è di stato: quasi a dire, se non definiti o definibili è ovvio che siano perdenti, o non protagonisti). È, forse, uno dei pochi libri (l'unico?) che documenta un metodo di lavoro (un modo di far politica?) che pretende che la storia si deve fare con la cronaca, senza attendere che qualcun altro, poi, la racconti. È un libro nuovo, dunque, e tempestivo: documenta, non con parole, ma con cose-uomini-popoli, come vivere la cronaca che si vorrebbe ci sommergesse con la sua acutezza e la sua continua diversità cercando di guardarla, capirla, parteciparla come una successione di eventi non casuale, nè sradicata, nè altra per il solo fatto che cambiano i nomi degli attori.
2. Questo è un libro di metodo. Come tale è ripetitivo. Si domanda sempre le stesse cose: dove sono le radici, come sono i meccanismi, quali sono le conseguenze, di chi sono le responsabilità di ciò che nel mondo (letteralmente: questo libro racconta la sperimentazione del suo metodo toccando tutti i continenti: eppure sono passati solo quindici anni) fa violenza alla vita delle donne e degli uomini che fanno un popolo. Libro noioso, come tutti i libri di metodo? I metodi sono noiosi per quelli che devono studiare per rispondere a degli esami. Sono liberanti per coloro che li usano, per orientarsi, aprire cammini, fare il proprio mestiere. Questo è un libro fatto da quel "campione" di popoli che hanno assunto come proprio mestiere (per tempi più o meno lunghi, con successo o meno) quello di creare nella storia spazi e modi di vita non pre-determinati dal potere costituito.
Le sentenze del Tribunale non sono altro che la lettura formale ed articolata di questi metodi di liberazione sperimentati, al di fuori o contro la storia ufficiale. Libro per chi pensa che questo mestiere non è obsoleto, e non è riservato a coloro che, via via, nella storia sono particolarmente sfortunati da aver bisogno di liberarsi. Libro ripetitivo e noioso, se è ripetitivo e noioso aver nostalgia di un futuro dove sia più vera per sempre più - e non per sempre meno - gente la ripetitiva e non noiosa capacità di libertà e pace.
DUBBI
1. Chi sa: la storia-cronaca raccontata in questo libro è ovvia. Al di là dei dettagli e dei particolari (anche se questi riguardano il destino di donne, uomini, milioni e milioni; di valori; di sogni) la sostanza delle cose è nota a tutti. Si sa già, più o meno, come va a finire. E anche se non lo si sa con precisione, si vive lo stesso: la ignoranza del destino di liberazione dell'uno o dell'altro popolo non modifica di molto la vita di tutti i giorni. E poi ce ne è sempre qualcun altro alla porta, o addirittura dentro casa: è già difficile convivere con queste nuove cronache-storie, non c'è spazio nè tempo per essere aggiornati su quanto è già successo, sui cammini percorsi.
D'altra parte la versione ufficiale della storia, riproposta come ovvia dalle agenzie di stampa e di sviluppo, dice che: "è logico che nel passaggio dal sottosviluppo e dalla non-storia alle fasi più avanzate e mature della storia i popoli passino per tempi di conflitto e lotta. Tutti ci siamo passati. Anche noi. In fondo, tutti hanno nel loro passato storie di liberazione. È questione di pazienza. Prima o poi questi popoli racconteranno la storia di questo loro tempo come noi studiamo la spedizione dei mille, o qualsiasi altra storia. Il TPP pretende di far fare alla evoluzione dei salti... "
2. Chi sa: le "sentenze" attraverso cui il TPP sintetizza le sue analisi ed i suoi giudizi su tutti questi popoli sono un "residuo storico" di un modo di concepire la storia. Oggi siamo in un tempo "laico": non è più possibile giudicare buoni o cattivi, pensare da militanti o da difensori degli oppressi. È retorica la pretesa di far coincidere sviluppo e diritti. Occorre essere realisti. Lo sviluppo ha un costo. L'accesso alla grande comunità degli stati industrializzati esige il pagamento di un pedaggio. È retorico protestare su questo, anzi, peggio emettere giudizi e sentenze. Tanto più è retorico questo atteggiamento e questa attività, perché indica un'assenza di auto critica, della autocoscienza che queste sentenze sono sprovviste di potere. Per carità: sono lecite. Ognuno ha il diritto, in una società laica e post-moderna di dire-fare quello che ritiene opportuno. Questa liceità non può però pretendere di essere "legittima", di rappresentare cioè qualcosa che possa essere preso come punto di riferimento, di produrre indicazioni adottabili o anche solo considerabili dalla Comunità Internazionale. Questa ha già stabilito le sue regole di legittimità: le sentenze del TPP sono retoriche (o demagogiche o populiste) perché pretendono di legittimare qualcosa che non è ancora maturo, o peggio, che è parte di utopie passate. In fondo il TPP, con la sua iterazione ripetitiva della priorità inderogabile dei diritti degli uomini e dei popoli reali rispetto alle "leggi" dell'economia e degli squilibri strutturali della storia fa la stessa operazione "retorica" di coloro che hanno redatto la Costituzione Italiana, che pretendeva di legare il "principio" dell'uguaglianza dei diritti di tutti al dovere dello Stato di garantire le condizioni materiali, sociali e culturali, perché questi diritti potessero esprimersi. Forse il TPP porta in sè quello stesso virus retorico che il suo fondatore aveva preteso di introdurre nei primi articoli della Costituzione. Certo, era una esigenza comprensibile di quei "tempi alti", dopo una guerra tanto distruttiva. Come era "normale" la proclamazione con cui si apre la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, che assegnava come dovere non procrastinabile il pari diritto dei popoli della terra a godere dei diritti della democrazia sostanziale. Ma quelli erano, appunto, "tempi alti", un po' particolari, dove le grandi affermazioni erano pronunciate sull'onda delle emozioni: retoriche, proprio così, da far decantare...
IPOTESI
1. Il TPP pensa che la storia non è un'evoluzione spontanea, che obbedisce a leggi di sviluppo complessivamente lineari, pur con deviazioni più o meno importanti. La storia immaginata dal TPP è quella di un tempo e di un luogo dove si apprende continuamente e da parte di tutti a ricercare uno sviluppo di cui nessuno ha la formula più o meno segreta, concedibile a chi è sufficientemente bravo da meritarne i benefici. Le "sentenze" derivano la loro legittimità dal fatto che la vita non è un bene per il futuro, ma un diritto per il presente, e che nessuno può pretendere impunemente di costruire il futuro attraverso negazioni successive e ripetute della ricerca di cammini da parte di uomini che vivono il loro presente. Questa ricerca ha bisogno del contributo di tutti, si fa per approssimazioni successive, non può permettersi dimenticanze o censure, si svolge con metodi formali o informali, ha come teatro il mondo e non i luoghi ed i tempi indicati sull'agenda ufficiale della comunità degli "arrivati".
Il TPP non pensa alla storia come un "prima" e un "dopo": come nella storia di ognuno di noi, la perdita della memoria è una malattia: sintomo di un trauma che toglie la parola o la possibilità di riconoscimento e di relazione, segno clinico di una vecchiaia che non riesce più ad esprimere la saggezza acquisita ma indementisce divenendo rigida, o violenta, o assente. È per questo che nella mappa del mondo e del tempo tracciata dalle sentenze del TPP abitano insieme, e con lo stesso diritto: i desaparecidos dell'Argentina e quelli del popolo Armeno; i mujaiddhin dell'Afghanistan che lottano contro un'Unione Sovietica che non c'è più ma che non hanno ancora trovato una loro strada di diritto-libertà-pace pur essendosi liberati dall'invasore, ed i Saharawi che sono stati ri-ingoiati nelle convulsioni del Nord Africa e dall'assenza di un'Europa che vuole scaricare il suo passato coloniale; i permanenti ostaggi coloniali dello Zaire e di Portorico ed i Nicaraguensi irrisi persino nel diritto riconosciuto dall'ufficialità della Corte Internazionale di giustizia e costretti a rinunciare al pagamento della multa dovuta da parte degli Stati Uniti (irrisione ancor più bruciante, quando si pensa che l'ammontare della multa equivale alla spesa annuale dei primi dodici farmaci inutili consumati nella medicina italiana, ma corrispondente alla metà del debito del Nicaragua: 2.000 miliardi...); i sopravvissuti dimenticati di Timor ed i sopravvissuti-evidenti ma ugualmente negati dell'Amazzonia; le maggioranze delle Filippine e quelle del Guatemala ingabbiate in democrazie "protette"; i Salvadoregni che vivono il rischio degli accordi di pace e gli Eritrei che cercano in un nuovo silenzio internazionale di dare visibilità al loro sogno di pace nel cuore di una regione che aveva preteso di negarne l'esistenza in nome di regimi riconosciuti legittimi dall'occidente e che è sprofondata in una violenza ancor più esplicita e globale.
La "nostra" storia è fatta di tutte queste storie, che le sentenze del TPP riconducono alla loro complementarietà sostanziale, al di là delle lontananze del tempo e dello spazio. Il "giudizio" del TPP non è altro che la dichiarazione che questa è la legittimità della storia, perché è quella per cui donne e uomini hanno dato - o hanno avuto sottratta - la vita.
2. Il TPP diffida di quelli che dicono che "oggi" gli orizzonti di liberazione sono altri, diversi. Il rischio del "nuovo dichiarato" che sostituisce il "vecchio esistente" è il cuore dell'impunità.
Questo è, complessivamente e non solo per una delle sue sentenze, un libro sulla illegittimità dell'impunità del delitto di lesa umanità. È il delitto riconosciuto formalmente dal diritto internazionale come categoria giuridica da applicare ai genocidi ed imprescrittibile: talmente grave da rendere illegittima la gestione del potere da parte di chi ne è responsabile. È, nella sua sostanza, il delitto di chi pretende, nei tanti frammenti della storia concreta dei popoli, che la storia di questi popoli non esiste, o deve essere dimenticata, per essere sostituita dalle "nuove" formule compatibili con le "nuove" condizioni dello sviluppo. I tanti popoli, ri-chiamati e ri-conosciuti dalle sentenze del TPP. nella loro complementarietà, dicono che c'è un delitto di lesa umanità ovunque il diritto imprescrittibile alla vita e alla libertà viene violato. È per questo che tutte le sentenze sono in fondo una sola sentenza, che ri-dice la continuità della storia attraverso le tante sperimentazioni-ricerche tese ad affermare la priorità del diritto sostanziale alla vita minacciato-violato con guerre di bassa ed alta intensità, con le parodie della democrazia e con l'ossequio alle leggi dell'economia dominante. La sentenza unica e differenziata del TPP, giuridicamente fondata nel diritto internazionale esistente, non è per ciò anzitutto l'atto di condanna dei responsabili, ma è la dichiarazione del diritto e della legittimità dell'esistenza dell'umanità che difende il proprio senso e la propria direzione e che non vuole delegare questo diritto a nessun potere precostituito. Dichiarazione "etica", nel significato più semplice ed intuitivo di questo termine: riconoscimento della non-dipendenza della vita da forze, valori, logiche, leggi che non siano quelle che aumentano le possibilità della vita di esprimersi, di differenziarsi, di creare spazi per altra vita.
Forse per questa ragione l'altra sentenza "complessiva" del TPP, quella sul FMI e la BM, è quella che risulta complementare a quella sull'impunità. Insieme dicono, con formule diverse, l'attualità di tutte le altre sentenze sparse lungo questo arco di tempo compresso e lunghissimo dell'attività del TPP.
Non è più lecito, in questo tempo dichiarato "nuovo" perché ha dichiarato obsoleta la pretesa retorica alla condivisione e alla solidarietà (con la scusa del fallimento di uno degli esperimenti della storia), porre domande sulla legittimità del mercato. Viene dichiarata a priori la sua impunità. La sentenza del TPP - mai come in questo campo visibilmente impotente - semplicemente ricorda l'esistenza di altre leggi; imprescrittibili, rispetto alle quali quelle del mercato sono come le elucubrazioni storiche che non legittimano (non sarebbe "fine" ne accettabile), ma semplicemente negano l'esistenza dei campi di concentramento. Mentre condanna i responsabili istituzionali delle decisioni del FMI e della BM (rappresentanti ed esecutori, per obbedienza dovuta, dei signori del denaro) la sentenza del TPP è soprattutto un esercizio di memoria fattuale, un ri-chiamare per nome le cose che succedono, una sottrazione degli uomini e delle donne, bambini ed adulti, dal loro destino di "variabile dipendente" da leggi di disuguaglianza, la restituzione di un volto umano alle tabelle che misurano il presente ed il futuro dell'umanità in termini di tassi di crescita del reddito. Esercizio etico di ri-proposizione del diritto alla vita, al di là delle manipolazioni delle parole e delle statistiche che promettono che la vita delle maggioranze - non - sarà possibile che da qui ad un numero di anni compatibile con le recessioni e le locomotive economiche.
Certo, anche questo fa parte delle ipotesi, la unica sentenza del TPP raccontata in questo libro dalla voce viva dei popoli - ce nè qualcuno escluso? - è discriminante: pone la domanda - antica, ovvia, retorica - della compatibilità- vivibilità dell'etica nella storia.
Almeno per qualcuno, questa domanda continua ad essere quella che dà il senso alla storia stessa.
PER UN USO DEL METODO
1. È possibile che alcune delle "pretese" del TPP, così come sono state espresse qua e là nel testo suonino come "eccessive". Diritti, popoli, umanità, etica: non possono essere considerati territori esclusivi di una istituzione. La storia e le sentenze del TPP documentano che queste "pretese eccessive" sono esattamente il contrario della pretesa di essere custodi di un ruolo sopra le parti. L'autonomia e l'indipendenza del TPP, così come il suo rigore di lavoro (tale per cui nessuna delle sue analisi o argomentazioni giuridico-storiche ha potuto essere criticata per i contenuti fattuali e per le interpretazioni di diritto) semplicemente esigono, come metodo, di avere un senso intransigente della posta in gioco.
Si diceva un tempo: il diritto del TPP è luogo e strumento di sviluppo del diritto internazionale, osservatorio di anticipazione e di sperimentazione di quelle che dovrebbero essere le relazioni tra i popoli. Il metodo di questo ruolo di ricerca deve, necessariamente, essere quello della "assolutezza" nel verificare la applicabilità dei principi ai fatti storici.
Si deve dire oggi, in questo tempo "dopo" (v. sopra, il secondo dubbio): il diritto del TPP deve essere anche il luogo delle radici e della resistenza, perché la tendenza dominante è verso la creazione del vuoto attorno ai principi, così che la loro proclamazione ovvia appaia come un gridare senza eco, un po' folle, anche se le cose che si dicono appartengono all'alfabeto dell'uomo. Questo metodo di "pretese eccessive" non è un esercizio di isolamento: al contrario: ha come sua controparte operativa il tessere reti e connessioni, lo scoprire complementarietà, il lanciare ponti (v. testo di Cortazar). Non si è in molti, è bene riconoscerlo,. E spesso si è dispersi. Non è forse semplice né immediato un metodo di lavoro - che è di vita e di organizzazione - insieme non-pentito delle radici antiche della liberazione, e analista-giudice realista dei tentativi del presente di travestire di diritto processi crescenti di concentrazione di potere. L'eccessività delle pretese del TPP non è altro che l'espressione della "coerenza dovuta" in tempi di "obbedienza dovuta".
2. Al cuore del diritto del TPP (nato come metodo-luogo-strumento di ricerca-sperimentazione della legittimità delle prospettive della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli: vedi testo) sta il principio dell'autodeterminazione dei popoli. Questo principio sembra oggi messo in discussione - nel "tempo del dopo" - perché sembra che sotto questa parola possono giustificarsi tutte le lacerazioni di cui siamo testimoni in nome delle etnie, delle nazionalità, delle minoranze. L'autodeterminazione sembra essere il cavallo di Troia per invocare il diritto di tutti contro tutti. La lettura complessiva di queste sentenze fa vedere che si può parlare di autodeterminazione solo in un contesto "in fieri", dove ogni passo di auto-determinazione deve equivalere ad un pezzo di cammino verso una inter-determinazione dei popoli.
Il diritto dei popoli ha come suo retroterra sostanziale il progetto di una solidarietà complessiva, che non è meno vera per il fatto di non essere ancora visibile e fruibile. E d'altra parte, il metodo del TPP che si è sempre dichiarato ma soprattutto mantenuto indipendente dai blocchi ideologici, o culturali, od economici, o dalle ipotesi vincenti, è quello di verificare se e quanto l'autodeterminazione si fa per e non contro, o passando sopra il diritto fondamentale della gente alla vita e alla pace.
3. La coppia impunità-signoria del denaro appare oggi più che mai l'asse attorno al quale si tende a far girare la storia del mondo. Le leggi economiche (di cui la sentenza di Berlino ha dichiarato la intrinseca illegittimità, in quanto pretendendo di valere indipendentemente dai loro costi umani) sono il fondamento e la motivazione dell'impunità.
Il rischio del diritto internazionale di fermarsi alla soglia, e anzi di essere al servizio delle leggi economiche, è la prospettiva politica (non solo giuridica) più inquietante che si prospetta per un mondo avviato ad essere luogo di sviluppo per una frazione dell'umanità, alla quale la maggioranza deve servire, a costi programmati di emarginazione. La resistenza etica a questa pretesa (dichiarata "tecnica") è il compito che sta davanti in una situazione mondiale che non è grave tanto per la quantità delle risorse sottratte con metodi non qualificabili che in termini di rapina e di usura, quanto perché è la proposta di sostituire la ricerca perenne di democrazia sostanziale con i giochi (neppure clandestini) di minoranze che vogliono far coincidere la propria pratica con il diritto. La unica sentenza che il TPP ha pronunciato attraverso tutti i casi esaminati documenta le conseguenze di questa strategia di espropriazione: quei popoli non sono "altri", "vecchi", "diversi" da quelli che appaiono oggi sulla scena della storia: ne sono gli indicatori. I meccanismi di espropriazione cambiano nome più per le modalità di esprimersi, che la logica che li sottende e li guida. Le previsioni della Banca Mondiale dicono che la situazione non migliorerà, anzi: almeno nel tempo prevedibile. La resistenza etica a questa impunità programmata è la cosa più concreta che si possa immaginare, perché nel "mondo del dopo" non si perda la memoria dell'unica legittimità accettabile, che è quella della inaccettabilità della condanna a morte come modo di garantire "l'ordine".
4. La prossima sezione del TPP - che sarà in atto quando questo racconto-metodo-memoria di un pezzo della nostra storia sarà stampato - è, coerentemente, sulle radici violente e di espropriazione del diritto internazionale, formulato per la prima volta per giustificare ed amministrare la "conquista" dell'America. Nella logica di una concezione dello sviluppo come estensione legittima della civiltà dominante, quell'evento-modello era stato chiamato e ci è stato consegnato come "scoperta". Il TPP è abbastanza realista da sapere che la storia non torna indietro e non si rifà. E che il pentimento storico può essere una formula di autoassoluzione per coprire l'impunità del presente. La sentenza non è stabilita a priori, ovviamente: è definito a priori anche questa volta il metodo. Rivelare - chiamare per nome, mettere allo scoperto, rendere trasparenti, disponibili al giudizio, alla presa di coscienza, alla possibilità di resistenza - i meccanismi che sono entrati nelle nostre istituzioni e nelle nostre categorie di valori per rendere possibile una nostra autodeterminazione rispetto al senso della nostra storia, che non è altra da quella dei popoli.
5. Il lavoro di tessitura di questo libro-metodo-memoria è il prodotto di un nucleo di resistenza culturale sperduto in una "zona periferica" di uno dei G-7. Esperienza minoritaria, nata quando nasceva il TPP, entrata a far parte del tessuto della sua società, e diventata osservatorio del mondo, un pezzo della sua memoria. Come tutte le minoranze-maggioranze incontrate dal TPP, questo luogo di documentazione e di coscienza ha i suoi dubbi, le sue ipotesi, la percezione chiara della sua impotenza, e la lucidità delle sue scelte.
Chissà: forse è il tempo di queste solidarietà strane, che non conoscono distanza di tempi e di spazi, per non dimenticare il future.
Gianni Tognoni
segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli
Milano, 4 luglio 1992
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