RICCHI E POVERI
QUANTO GUADAGNANO, CHI SONO (E PERCHÉ IL MONDO È MARCIO)
Come va il mondo alla vigilia del Duemila? Mai così bene per pochi, mai così male per molti, la maggioranza. «Peggio della grande Depressione degli anni Trenta», per un miliardo e settecento milioni di persone di cento Paesi; ottimamente, «una spettacolare crescita economica», per quindici nazioni. È lo stato del Pianeta descritto nel Rapporto sullo sviluppo umano realizzato dall'undp (united nations food program). In effetti, sono due, oggi, i mondi. Due umanità sempre più polarizzate, separate da un abisso mai conosciuto a memoria d'uomo. Più di un secolo fa il pianeta, da questo punto di vista, era molto più giusto. Il reddito dei Paesi non industrializzati raggiungeva il 65 per cento del totale. Nel 1960 la quota si era ridotta al 12. La tendenza alla concentrazione del denaro in poche mani è continuata nell'ultimo trentennio, accentuandosi. Da una parte ricchi così ricchi come non se ne erano mai visti, con il reddito di una sola persona che vale, letteralmente, quello di milioni di uomini e donne. Dall'altra poveri sempre più poveri. un quarto dell'umanità, l'altro mondo che vive in cento Paesi, ha visto il proprio reddito ridursi dal 1980 ad oggi. «Un peggioramento senza precedenti», secondo l'ONU. Nello stesso periodo, in quindici Paesi il reddito è rapidamente aumentato. Dei 23.000 miliardi del PIL globale, nel 1993, 18.000 sono prodotti dai Paesi industrializzati, e solo 5.000 da tutti i Paesi in via di sviluppo. Il periodo seguìto al famoso crollo di Wall Street del 1929 è passato alla Storia e diventato materia di studio. La nuova "Grande Depressione", di portata ancora più devastante, è in atto da un bel pezzo. Ma sui libri di testo nelle scuole nessuna traccia. «Un declino di cui molti sono consapevoli - spiega il rapporto - e la cui gravità è troppo spesso oscurata».
Può un solo uomo possedere una ricchezza pari al reddito annuale di cinquanta milioni di persone? Si, può. Si chiama Bill Gates, è il re mondiale del software, ed è stato eletto anche l'"uomo dell'anno" dal prestigioso settimanale 'Time'. Prendete gli abitanti di Giamaica, Nicaragua, Namibia, Kenya, Togo, Tanzania, Repubblica centroafricana e Mauritania. Sono, in totale, 52,2 milioni di uomini e di donne. I loro redditi, complessivamente, assommano a 17,8 miliardi di dollari, circa ventisettemila miliardi di lire. Un po' meno, dicono le statistiche dell'Undp raffrontate alle stime della rivista 'Forbes' sugli uomini più ricchi del mondo, del reddito netto in possesso del multimiliardario statunitense. I primi dieci Paperoni posseggono 113 miliardi di dollari, pari alla somma del reddito complessivo di Paesi europei come Repubblica ceca e Ungheria più quello di un Paese popoloso come l'Egitto (sessanta milioni di abitanti). E ai dieci uomini avanzerebbe abbastanza denaro per far campare ai livelli attuali tutti gli abitanti della Somalia per otto anni. In Italia, primo della classifica, è Silvio Berlusconi (Forbes stima il suo patrimonio in 5 milioni di dollari). Una ricchezza pari al prodotto nazionale lordo di Nepal e Ruanda insieme, 28,4 milioni di persone. E se vendesse il suo orologio (che secondo notizie apparse sulla stampa costa quattrocento milioni di lire) Berlusconi potrebbe far campare per un anno quasi mille zairesi (il cui reddito medio pro-capite annuale è di trecento dollari) - ovviamente, queste cifre non significano che senza Bill Gates e Berlusconi i poveri del mondo diventerebbero ricchi: ma sono una concreta testimonianza dei distorti (e folli) meccanismi della distribuzione della ricchezza.
QUANDO LA FAME NON C'ERA
Sono 358 i miliardari, in dollari, in giro per il mondo. Il totale delle loro ricchezze è pari al reddito prodotto dal 45 per cento più povero della popolazione mondiale, due miliardi e trecento milioni di persone. La tendenza all'accumulazione del denaro ha portato ad un cambiamento epocale. Pochi sanno infatti che il problema della fame in Africa, ad esempio, ha assunto dimensioni colossali soltanto nell'ultimo trentennio. Quarant'anni fa il continente era autosufficiente alimentarmente al 98 per cento. Oggi riesce a produrre soltanto il 70 del proprio fabbisogno, per diverse ragioni ma soprattutto perché le monocolture, thé, cacao, banane, tabacco ecc., destinate all'esportazione hanno soppiantato l'agricoltura di sussistenza che permetteva la sopravvivenza delle famiglie contadine.
«Gli incrementi hanno spesso mostrato tassi superiori a quelli fin qui visti dall'inizio della rivoluzione industriale, circa due secoli fa - spiega il Rapporto -. I peggioramenti sono stati anch'essi senza precedenti».
I PAPERONI SIAMO NOI
Al confronto di alcune centinaia di milioni di persone, anche gli italiani di classe medio-bassa, e perfino i poveri (in Italia rientra in questa categoria chi consuma meno della metà del consumo medio pro-capite, circa 5,5 milioni di persone) sono dei Paperoni. Se si considerano, nel mondo, le quote di reddito relative al venti per cento più ricco e al venti per cento più povero, dal 1960 al 1993 il miliardo di persone più ricche, tra cui gli italiani, hanno visto aumentare la loro quota sul reddito globale dal 70 all'85 per cento. Gli altri, il miliardo di donne e nomini più poveri, si dividono appena l'1,4 per cento del reddito mondiale (rispetto al 2,3 del 1960). Poco più di trent'anni dunque, all'1,4 per cento. Il rapporto tra la ricchezza che si dividono i "due mondi" è passato dunque da 30 a 1 del 1960, a 61 a I del 1993. Da questo punto di vista il mondo va indietro, dunque. E di gran corsa.
IPNOTIZZATI DLLA CRESCITA
Lo scopo della crescita economica dovrebbe essere quello di arricchire l'esistenza delle persone. Dovrebbe cioè essere il mezzo attraverso il quale migliorare lo sviluppo umano. «troppo spesso non è così - avverte il Rapporto - Non c'è nessun legame automatico fra crescita e sviluppo umano». Si verificano così distorsioni macroscopiche anche nei "fortunati" Paesi in cui il Pil cresce. È stata battezzata 'crescita crudele', nei Paesi dove i frutti dell'incremento del reddito vanno a beneficio principalmente dei ricchi, lasciando milioni di persone in stato di povertà. Nel periodo 1970-85 il Pnl complessivo è cresciuto del 40% e, ciononostante, il numero dei poveri è cresciuto del 17%. C'è la 'crescita senza occupazione', dove l'economia si espande e aumenta anche la disoccupazione. Gran parte dell'umanità poi sotto regimi repressivi e non democratici: quando la crescita nell'economia non è accompagnata da un'estensione della democrazia si parla di 'crescita senza possibilità d'espressione'. In molti Stati «la crescita economica e incontrollata sta comportando la devastazione delle foreste, l'inquinamento dei fiumi, la distruzione delle biodiversità e l'esaurimento delle risorse naturali». La generazione presente sperpera le risorse necessarie alle future generazioni. È la 'crescita senza futuro'. Sono esempi di come, spesso, lo sviluppo perpetua le diseguaglianze. Uno sviluppo, secondo l'Undp, «non sostenibile e che non merita di essere sostenuto».
Anche dove il reddito medio pro-capite è di 20.000 dollari l'anno, come nei 24 Paesi aderenti all'OCSE, più di cento milioni di persone vive al di sotto della soglia ufficiale di povertà e il numero aumenta in diverse nazioni, come Gran Bretagna e Stati Uniti. Circa trenta milioni sono disoccupate e più di cinque senza casa. Vengono commessi più di 200 reati legati alla droga ogni 100.000 abitanti. Nei Paesi dell'Europa dell'Est il reddito è crollato dal 1990 al 1993 dell'11 per cento all'anno. L'incidenza della povertà è cresciuta in Romania dal 6 al 32 per cento, La transizione dal comunismo all'economia di mercato ha significato un peggioramento degli indici di mortalità e della sanità.
DIVIDERSI LA FAME
All'interno dei singoli Stati, è in Brasile, Guatemala, Guinea-Bissau e Stati Uniti che i poveri sono maggiormente esclusi. Il reddito pro capite del venti per cento più povero della popolazione degli Stati uniti è meno di un quarto del reddito medio del Paese, in Giappone è di circa la metà, come in Bangladesh, mentre in Guatemala rappresenta appena un decimo del salario medio. L'emarginazione ha scarsa relazione con l'ammontare del reddito nazionale. Nota il Rapporto: «In Bangladesh, la ridotta emarginazione può essere vista come distribuzione della povertà, in Giappone come distribuzione della ricchezza». In Guatemala e Panama il 20% di popolazione più ricco guadagna trenta volte di più del 20% più povero, in Brasile il rapporto è di 32 a 1.
IL MITO DEL PIL
I conti fatti con il reddito pro capite, effettuati sulla base del Pil, non possono essere considerati una misura completa del benessere umano, poiché esso non contempla alcune transazioni economiche importanti: intanto, il Pil registra solo gli scambi monetari, cioè i beni e i servizi che possono essere scambiati contro denaro. Non considera cioè il grande ammontare del lavoro effettuato all'interno delle mura domestiche. Due terzi del lavoro delle donne e un quarto di quello degli uomini non rientra quindi nel conto. Rende uguali i buoni e i cattivi: la cura dei bambini o la produzioni di armi hanno lo stesso valore. Conteggia sia le malattie che i rimedi. L'alcool, ad esempio, è conteggiato due volte: quando viene venduto e quando viene speso denaro per le cure contro l'alcolismo. Considera le risorse naturali come gratuite, non prendendo in considerazione il degrado ambientale, l'inquinamento e l'esaurimento delle risorse. Ignora la libertà umana. I diritti umani e la partecipazione non hanno alcun valore. Per esempio, «potrebbe essere perfettamente possibile raggiungere alti redditi pro capite e soddisfare tutti i bisogni materiali in una prigione di Stato ben gestita».
Ma quello che conta, anche se il Rapporto dell'ONU fotografa il più ingiusto dei mondi possibili, o perlomeno mai visti, è sempre il Pil. Di cui domani, al telegiornale, avremo notizia.
LO SVILUPPO È IL FINE, LA CRESCITA È IL MEZZO
Se «noi» - le persone che oggi assumono le decisioni economiche - abbiamo una qualche sorta di obbligo a dirigere la crescita economica nella direzione della sostenibilità, è perché pensiamo che potrebbe essere sleale ed ingiusto usare le risorse limitate per benefici attuali, impoverendo, di conseguenza, le generazioni future. Una decisione che miri alla sostenibilità è, quindi, una decisione tesa a prevenire l'affermarsi di un certo tipo di disuguaglianza. Non è accettabile che «noi» possiamo vivere nel benessere o migliorare le nostre condizioni, se questo comporta che i nostri discendenti (distanti) si ritroveranno molto più poveri di quanto lo siamo noi. Se lo «sviluppo umano» è l'obiettivo fondamentale della crescita economica, lo sviluppo umano dovrebbe essere equamente diviso fra le generazioni presenti e future. Tutto ciò sembra attraente e probabilmente lo è. C'è qualcosa di strano, tuttavia, nel localizzarsi sull'obiettivo di una sostenibilità definita e giustificata in tal modo. Le disparità sono così grandi che, tra migliaia di anni, gli abitanti dell'Europa e del Nord America godranno di uno standard di vita molto più alto di quello raggiunto attualmente dalla maggior parte della popolazione dell'Africa e dell'America Latina. Non tutti concordano con questa affermazione, ma io penso che sia plausibile e la sosterrò per amore di argomentazione. Tuttavia, ora possiamo accorgerci del paradosso legato alla popolarità della sostenibilità. Se la ragione portante attiene ad un'avversione verso la disuguaglianza, c'è almeno un modo forte, e probabilmente il più forte, per ridurre la disuguaglianza temporanea come per preoccuparsi dell'incerto status delle generazioni future.
Coloro che ritengono prioritario non infliggere povertà al futuro devono spiegare perché non attribuiscono anche priorità alla riduzione della povertà oggi. l'analogia tra la disuguaglianza intergenerazionale e la disuguaglianza interregionale viene facilmente in mente, ma non è la sola possibile. Anche all'interno delle regioni dell'Europa e del Nord America ci sono, naturalmente, punte estreme di ricchezza e di povertà. Negli Stati Uniti ed in modo minore, ma significativo in alcune nazioni dell'Unione Europea, la disuguaglianza di reddito e di ricchezza sembra essere crescente. Se siamo d'accordo che lo sviluppo umano è il fine e la crescita economica il mezzo, l'attuale capacità produttiva è a giusto titolo un mezzo. I governi - e le persone - delle economie avanzate non sembrano, tuttavia, affatto solleciti nel preoccuparsi dell'equità, quando essa riguarda l'uso delle risorse esistenti. È importante che noi troviamo i modi per far avanzare lo sviluppo umano con il minor carico sulle risorse limitate e sulle ricchezze ambientali che dobbiamo dividere con le generazioni future. Sarebbe deprecabile che la sostenibilità fosse affascinante, non a dispetto della sua vaghezza, ma a causa della sua vaghezza.
Robert M. Solow
Premio Nobel per l'Economia 1989
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