I CORSI DI LAUREA "SICURI": FORMAZIONE-PROFESSIONE-PROFESSIONALITA’: LAUREA COME RICONOSCIMENTO POLITICO.

 

Ci occupiamo ora delle cosiddette Facoltà "sicure", cioè di quelle facoltà che sembrano assicurare un’ occupazione stabile.

In particolare ci concentreremo sulla Facoltà di Ingegneria, ritenendola più indicata per il nostro ragionamento in quanto permette di evidenziare le tendenze carsiche che attraversano i luoghi della formazione.

Le ipotesi interpretative proposte sono estensibili anche ad altri C.d.L.(Corsi di Laurea).

Negli ultimi anni si è registrato un aumento degli iscritti alla Facoltà di Ingegneria in termini assoluti contemporaneamente ad un decremento del tasso di crescita.

Questo dato può essere associato al diffuso convincimento che laurearsi in questa Facoltà implichi garantirsi un posto sicuro di lavoro.

Il desiderio di fuga dal lavoro operaio dei padri, induce molti giovani ad investire anni di vita in un percorso formativo che si crede possa garantire una collocazione sicura nella realtà lavorativa.

Negli ultimi anni però sono emerse evidenti crepe in questo ragionamento.

In primo luogo non è più assicurato il posto di lavoro dopo la laurea: cioè negli anni tende ad aumentare il numero di ingegneri in cerca di prima occupazione.

Inoltre il rapporto formazione-professione sembra incrinarsi.

Scorporiamo dal nostro discorso tutti quei laureati che svolgono lavori che non richiedono la laurea in Ingegneria (dall’ impiegatizio al precariato nella ristorazione fino alla battitura tesi) e facciamo piuttosto riferimento ai giovani laureati che svolgono mansioni inscrivibili nel quadro del loro percorso formativo. Questo, all’interno della Facoltà di Ingegneria, si articola in 11 C.d.L.,

"...sembra infatti che gli imprenditori chiamino formazione un’ attività politica per loro importantissima [e che per decenni è stata loro assicurata dal sistema scolastico e non si sa bene poi perché esso non la svolga più], consistente genericamente e soprattutto nello integrare e sviluppare la funzione di una serie di istituzioni riproduttive, [funzioni che la società borghese esercitava prima a sua volta egregiamente ed ora, non si sa poi perché a loro volta non svolgano più ( soprattutto la famiglia )], di manipolare in vari modi la soggettività dei lavoratori affinché essi fossero disponibili a dare alle imprese direttamente e indirettamente (come lavoratori e come cittadini) tutto ciò che le imprese richiedevano loro ai fini dell' accumulazione capitalistica.".

 

ognuno dei quali è suddiviso in più indirizzi, che a loro volta si diramano in diversi orientamenti, all’ interno dei quali la flessibilità è ridotta ai minimi termini.

Diciamo che c’è un’ elevata standardizzazione dei percorsi formativi (per capirci: i gradi di libertà concessi allo studente per partecipare alla pianificazione del proprio ciclo di studi sono praticamente nulli) cui corrisponde un’ alta divisione tecnica del sapere, specializzato fino alla parcellizzazione.

Questo si da con gradualità: ad un biennio grossomodo comune fanno seguito i successivi indirizzi.

E’ dunque un impianto ancora modellato sulla domanda di alta conoscenza che le imprese (medie e grandi principalmente) esprimevano nel contesto del paradigma produttivo taylorista-fordista.

Negli impianti industriali fordisti infatti l’high knowledge (alta conoscenza) era presente in settori ben definiti, specializzati e compartimentati, il che rifletteva sia l’output del processo che l’atomizzazione del lavoro vivo.

In questo contesto si poteva individuare una forte corrispondenza tra formazione e professione e a questo binomio rimandava il rapporto Università-Impresa.

"Io chiamerei formazione in senso stretto quella parte centrale della valorizzazione in cui essa appare il risultato peculiare dell’ incorporamento nel lavoro vivo, nella capacità lavorativa vivente, del sapere sociale.".

 

Da 15-20 anni si sono avviate ristrutturazioni successive che hanno portato ad un cambiamento radicale del paradigma produttivo.

Questo ha generato una netta discontinuità nella domanda di alta conoscenza delle imprese, che si può osservare nei nuovi lavori che i laureati in Ingegneria svolgono.

Nei colloqui che abbiamo avuto, ad esempio con ingegneri civili, emerge come essi non siano più delle macchine da conto che applicano algoritmi predefiniti per la verifica di strutture edilizie sempre analoghe, e come essi spesso non siano più dipendenti di un’impresa edilizia che progetta e realizza un’intera casa.

Essi tendenzialmente gestiscono la progettazione, mettendo in rete più soggetti che cooperano e le cui competenze coprono anche campi non ingegneristici: si tratta, per esempio, di esperti di mercato, di qualità, di estetica.

Inoltre questi ingegneri tendenzialmente sono dipendenti di società di progettazione esterne all’impresa realizzatrice.

E ancora: in passato si poteva pensare di iscriversi ad un C.d.L. in Ingegneria elettronica per trovare successivamente lavoro come "ingegnere elettronico"; ora si può pensare che all’interno del processo produttivo il nostro laureato in elettronica raramente lavorerà meccanicamente alla progettazione di un nuovo circuito integrato. Sarà invece più probabile che lo si trovi a gestire l’innovazione di prodotto portata avanti da un pool di periti elettronici , creato ad hoc, che lavorerà supportato da un adeguato software.

Le competenze del nostro ingegnere, o più precisamente quelle acquisite nel suo percorso formativo, non avranno che un ruolo marginale.

Egli inoltre cambierà mansioni più volte: non rimarrà a progettare circuiti integrati per tutta la vita, ma sarà chiamato non tanto ad una professione quanto ad esprimere una professionalità ed un sapere arricchito di capacità "politiche".

 

 

Queste sono anche conseguenze del fatto che spesso si lavora in società di ingegneria, imprese di consulenza o quant’altro abbia generato il processo di outsourcing (trasferimento all’esterno dell’impresa di molte funzioni produttive un tempo svolte al suo interno), praticato dalle imprese che preferiscono flessibilizzare il loro rapporto con l’alta conoscenza.

Emerge dunque, tendenzialmente, una nuova richiesta di alta conoscenza multidisciplinare, problem solver (impegnata di volta in volta nella risoluzione di problemi specifici), che disponga di capacità comunicative e di gestione di flussi comunicativi.

In questo senso si può sostenere che la loro professionalità si è arricchita di mansioni "politiche".

Se questa è la nuova mutata domanda emergente dalle imprese, è evidente il contrasto con la formazione universitaria, modellata sulle esigenze aziendali del passato sistema produttivo.

"...l’ alta formazione tende ad essere sempre più direttamente una formazione politica. Non a caso, seppur è vero che, avviatasi sulla via della massificazione, l’Università non è più esclusivamente il luogo della riproduzione della classe dirigente, possiamo ancora dire che in questa fase di transizione l’ Università di ceto medio sembra caratterizzarsi per lo sforzo di selezionare una nuova aristocrazia di lavoratori in buona parte definibili in termini politici come lavoro che si scambia col capitalista in quanto soggetto politico, come forza lavoro improduttiva che lavora al servizio del padrone in funzioni che si caratterizzano sempre di più (...) come funzioni direttamente e scopertamente politiche, cioè di potere, di comando capitalistico.".

 

L’ insostenibile carico di lavoro alimentato dalla necessità di acquisire una quantità esorbitante di nozioni che poi per la maggior parte resteranno inutilizzate, sembra funzionare unicamente come momento di selezione di quella forza lavoro in formazione disposta a sottomettersi all’interesse capitalistico; selezione il cui parametro principale consiste nella maggiore o minore disponibilità alla flessibilità, all’incertezza circa il proprio futuro, ma soprattutto al disciplinamento del proprio sapere.

Se le competenze acquisite nei C.d.L. di Ingegneria sono tendenzialmente dicotomiche nei confronti della domanda delle imprese, allora la laurea si presenta come una patente politica e la formazione professionale, almeno per quanto riguarda la sua spendibilità operativa, verrà acquisita in proprio (percorsi di autoformazione) o rimandata al dopo laurea (corsi postlaurea o stages in impresa).

Il titolo di "ingegnere" si è tendenzialmente svuotato della funzione di qualificare un mansionario lavorativo definito, ripetitivo, standardizzato (come rimane invece la formazione accademica); invece, individua figure professionali che spesso occupano nodi di coordinamento e decisionali, cioè di comando capitalistico, dell’impresa a rete postfordista, flessibile, articolata sul territorio.

Ruoli che richiedono le competenze "politiche" di cui dicevamo sopra.

In conclusione la parola "ingegnere" non è più riferita all’ambito del lavoro classicamente definito, quanto piuttosto alla società; come del resto la fabbrica non è più confinata negli impianti industriali, bensì diffusa nella società.