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Intervista ai deejay

RADIO BLACK OUT: A luglio mi avete chiusa e più nessuno è venuto ai miei microfoni. Come vi è saltata in mente una cosa del genere? Cosa vi avevo fatto di male?
PEPÈ: Abbiamo preso quella decisione per poter rimettere in qualche modo in discussione alcuni punti. Come l'ho vissuta? Col senno di poi, molto ma molto male. Col senno di prima, mi sembrava una cosa quasi tecnica, nel senso che mi sembrava uno dei tanti momenti della vita, come gli animali arrivato l'inverno vanno in letargo, così si poteva benissimo spegnere la radio, faceva parte del ciclo vitale. Abbiamo poi scoperto che alcuni redattori avevano individuato nella formula 'contenitore', nella formula di radio variegata che non avesse una linea predominante, una formula perdente. Secondo me invece al momento della chiusura la radio andava male come sempre e andava bene come sempre. E su questa frattura consumata tra 'Radio Kabul' e 'Radio Tupperware' siamo andati avanti sei mesi facendo finta di discutere.
MORGANA: Tu dici che abbiamo passato sei mesi a discutere di niente. In realtà abbiamo discusso di tantissime cose, ma senza mai voler arrivare effettivamente a una soluzione dei problemi. Si è parlato di finanziamento, anzitutto, di cui non si sono trovate ancora adesso delle vie alternative. Si è parlato di proprietà giuridica e non si è arrivati ancora forse adesso a risolvere la questione, anche per l'intervento di alcune persone che ogni volta bloccavano la discussione in maniera più o meno voluta tirando fuori ogni volta problemi diversi.
PEPÈ: Sì, ma così rischiamo di fare di ogni erba un fascio. Secondo me i problemi che sono confluiti nella chiusura della radio sono diversi. Per quanto mi piacesse fare radio, ero convinto che una formula comune dovesse essere trovata, non dicevo: "Così va benissimo, continuiamo come abbiamo sempre fatto". Il problema era che a un certo punto c'era qualcuno che aveva stabilito che se questa formula non cambiava comunque non si poteva continuare. Questo andava contro la dialettica naturale di questa radio, era una forzatura che in qualche maniera avveniva dopo tre anni di vita di un certo tipo, andava contro questi tre anni ed era una rottura con una procedura che io ritenevo comunque sana.
MORGANA: Quindi secondo te non si doveva chiudere?
PEPÈ: Probabilmente dovevamo chiudere, c'erano anche dei problemi economici belli spessi, avevamo fatto due feste in cui praticamente eravamo andati in perdita. Non voglio dire che alcune persone hanno fatto chiudere la radio. Io penso che fossimo belli in crisi e che lo siamo ancora, con un forte calo d'interesse. Siamo entrati in un meccanismo abbastanza perverso che è quello del dover dipendere dalle aspettative degli altri. Nel momento in cui siamo stati la radio che faceva tendenza, allora ascoltare Radio Black Out era quasi di moda. Dopo tre anni ascoltare Radio Black Out non tirava più, non dava più questo alone di trasgressione, non rientrava più in tutte quelle cose colorite che fanno parte del folklore delle tribù metropolitane. Noi non rispondevamo più alle aspettative che chi ha un mezzo di comunicazione deve conoscere. Non è che noi dovessimo farci un mazzo tanto per capire che cazzo vogliono quelli che ci ascoltano e per stare dietro alla moda e alla tendenza. Però almeno avremmo dovuto sederci a tavola a studiare una formula che potesse rompere i confini dell'abitudine e dell'autocelebrazione che in qualche maniera noi stessi sviluppavamo.
MORGANA: C'era autocelebrazione perché c'era l'entusiasmo di vivere un'esperienza nuova...
PEPÈ: Questo va benissimo, ma se resta chiuso in se stesso, se non si spezzano i confini di questa cosa, allora è una delle tante cause della crisi.
LINO: Io ricordo che quando abbiamo chiuso sembravamo immersi nella sfiga perché tutto quello che facevamo andava male. Un clima veramente da disfatta, chi poteva andarsene se ne andava. E infatti la chiusura ci stava bene. Quello che invece mi ha fatto schifo in 6 mesi è stato proprio un modo di comportarsi da politicanti di alcuni redattori. Nell'autunno ci siamo trovati davanti al tentativo di questi politicanti di sfoltire la redazione di persone che secondo loro non dovevano più entrarci. Poi quando hanno visto che non riuscivano né a far passare la loro linea né a far andare via queste persone, allora hanno provato ad affossare le discussioni, puntando sulla consunzione delle persone. Un gioco che avrebbe anche potuto vincere, perché chi arriva per la prima volta o torna dalle vacanze con la voglia di fare e si trova a passare ore e ore a parlare di aria fritta gli viene voglia di mollare tutto e scappare. Io questo gioco me lo sentivo addosso, sentivo che veniva fatto anche nei miei confronti. Questo mi faceva incazzare come una bestia perché io mi sono sempre mosso al di fuori da logiche di schieramento, mi ha sempre dato fastidio l'ottica da politicanti, da gruppettino. Questa è un'ottica tra le più squallide che ci possono essere, che mette in discussione tutta una serie di rapporti che hai con le persone, che mette in discussione tutta una serie di cose che pratico e credevo fossero patrimonio di tutti. Fortunatamente c'è stata la capacità di resistere, di riaprire e ora di mandare avanti la radio.
RICCARDO: Trovo riduttivo dire che qualcuno voleva cacciare via qualcun altro. Nell'ultimo anno molte cose andavano male, sia dal punto di vista finanziario che da quello dei rapporti interni ed esterni, e qualcosa bisognava cambiare. Caso mai non eravamo d'accordo su cosa cambiare. Quindi un periodo di chiusura e ridiscussione ci voleva. In questo periodo abbiamo perso molto tempo e discusso molte cose inutili, ma qualcosa è venuto fuori. Una posizione emersa nella discussione, come io l'ho capita, era quella che possiamo chiamare 'del maggioritario e dell'alternanza', secondo la quale esistono diversi modi di fare la radio, cioè diverse possibili linee redazionali, incompatibili tra loro. O si segue una linea o si segue un'altra, a meno di non fare un pasticcio o paralizzarsi a vicenda. Allora è meglio che i fautori di una linea redazionale siano lasciati liberi di svilupparla senza essere continuamente intralciati da discussioni, litigi e compromessi. Se poi falliscono, allora si fanno da parte e lasciano il campo agli altri. Tutto questo era una legittima valutazione politica, che però era errata. Io penso invece che sia possibile elaborare la linea redazionale sulla base di un accordo tra le diverse identità e culture presenti nella radio. Mi sembra che i primi mesi di sperimentazione dopo la riapertura dimostrino che è possibile, salvo alcuni incidenti che sono successi e altri che probabilmente succederanno ancora. Sui rapporti interni alla redazione, la prima ipotesi si sarebbe tradotta nel famoso 'centralismo democratico', in cui la maggioranza decide tutto e la minoranza non esiste, al massimo può cercare di diventare maggioranza a sua volta. È invece prevalsa il metodo della collegialità, per usare un termine sindacale ma non ne trovo uno migliore, secondo il quale si tiene conto dei principii e delle esigenze di tutti. L'ideale sarebbe usare lo stesso metodo anche per le singole decisioni pratiche, ma mi rendo conto che per queste a volte non si potrà fare a meno di usare il metodo della maggioranza. Ma ritengo fondamentale usare il metodo della collegialità almeno per la linea redazionale, cioè per l'impostazione generale, per il piano di lavoro a medio-lungo termine. Ritengo una conquista dei mesi di discussione il fatto che l'attuale redazione abbia assunto questo metodo.
GIORGIO P.: Forse perché io non sono nato con la redazione ma sono arrivato decisamente molto dopo, avevo delle energie e delle voglie diverse. Non ho vissuto il periodo più bello e più tranquillo della redazione, mi sono trovato direttamente così e mi sono detto: "Va be', è così". Avevo saputo della radio vedendo dei manifesti in giro, già frequentavo centri sociali in maniera molto saltuaria in occasione di concerti e cose particolari. Quando ho saputo che in radio c'era bisogno di gente che mettesse musica, è venuta a me e ad Augusto l'idea di venire qui a proporci. Siamo stati accolti da Mario Spesso, gli abbiamo chiesto se potevamo fare i deejay, lui ci ha detto: "Ma perché lo chiedete a me? Dovete chiederlo alla redazione", e allora abbiamo capito che non c'era un responsabile ed era qualcosa di diverso dal solito. Allora sono venuto in redazione e mi sono trovato in piena discussione. L'ho vissuta in maniera molto simile a quella che raccontava prima Lino. Mi sono reso conto subito che c'era un tentativo di sfinire la gente che mi ha infastidito molto, mi ha fatto venire più voglia di esserci per battere questo tentativo di chiusura prolungata o di porre fine a quello che poteva essere un esperimento, una situazione molto interessante.
BETO: Quello che mi ha colpito durante la chiusura è stato che, se ne parlavo in giro, tutti si erano fatti l'idea che avessimo chiuso solo per mancanza di soldi. In realtà dopo questi mesi di discussione io mi sono reso conto che i soldi erano un problema, i debiti si accatastavano, ma che la chiusura era dovuta a un problema soprattutto politico. Tant'è vero che durante i 6 mesi si è parlato prevalentemente del problema politico. La radio aveva raggiunto un periodo di stasi che veniva dopo un periodo espansivo. Nel giro di tre anni oltre al gruppo dei fondatori si era creata una sorta di redaziona allargata, l'appartenenza alla redazione allora non era formalizzata, ognuno veniva quando voleva e faceva quello che voleva. C'era un gruppo più ristretto che faceva tutto o quasi tutto, che però dopo due anni si era bloccato, non si espandeva più, era praticamente fermo, e cominciavano ad accumularsi sempre più mansioni su un numero sempre più piccolo di persone, un po' perché lo volevano e un po' perché solo alcuni avevano certe capacità tecniche. Allora ha cominciato a circolare un clima molto spiacevole, c'era sempre un clima di tensione e di recriminazione, discorsi tipo: "Perché non fai anche tu il radiogiornale?" oppure "Perché quella cosa la vuoi fare sempre solo tu?". La crisi della radio ha poi coinciso con la crisi dell'informazione, nel senso che la redazione si occupava dell'informazione, e quindi doveva affrontare problemi come le fonti, il linguaggio, i mezzi. C'era sempre più l'esigenza di farla meglio, ma c'era sempre meno gente che voleva farla, quindi era fatta sempre peggio. Avevamo cominciato usando come fonti il televideo e i giornali. Con l'andar del tempo ci rendevamo conto che era un po' riduttivo. Volevamo fare un'informazione che fosse più dettagliata e più seria, tipo inchieste o sondaggi, che fosse più nostra. Allora si è provato a dare più spazio all'informazione nelle riunioni di redazione, ma una serie di persone diceva che l'informazione non gli interessava, un'altra serie di persone diceva che l'informazione era prioritaria e che per una radio che vuole contestare lo stato delle cose, era impensabile che una parte della redazione se ne fottesse dell'informazione. Si è iniziato a dire che tutti dovevano fare un turno al radiogiornale, ma non c'è stata una grossa risposta. E allora il gruppo che faceva informazione, che comprendeva quasi tutti i fondatori, ha cominciato ad abbandonarla e altre persone si sono prese l'impegno di farla, tra queste anch'io. Nei primi due anni io non ho partecipato all'informazione, poi mi ci sono messo perché m'interessava e mi rendevo conto che non poteva essere sempre scaricata alle solite persone che la sapevano fare e che la facevano bene.
RADIO BLACK OUT: Visto che siamo arrivati a parlare di informazione, è meglio che spieghiate ai miei nuovi ascoltatori com'era organizzata e come funzionava nei tre anni passati.
RICCARDO: L'informazione consisteva soprattutto in una rassegna-stampa e un notiziario fatti quasi solo da redattori, tra i quali io, anzi io ho fatto quasi solo informazione, perché è una cosa che mi è sempre interessata e che mi riesce meglio, non perché la consideri prioritaria rispetto, ad esempio, alla musica. Mi rendo conto che sono due modi di comunicare altrettanto validi su piani diversi. Chi faceva il notiziario usava come fonti alcuni quotidiani e il televideo e cercava servizi o commenti registrati telefonando a una serie di persone di cui avevamo un'agenda in redazione. Non siamo mai riusciti a essere abbastanza numerosi né a trovare abbastanza tempo per seguire personalmente gli avvenimenti, se non molto raramente. Questo sarebbe normale, non essendo nessuno di noi stipendiato, e non sarebbe stato un ostacolo se avessimo avuto contatti più stretti con interlocutori che, nei diversi campi, ci riferissero spontaneamente notizie e commenti. Quindi il problema di come la radio è conosciuta e considerata all'esterno, di cui parlava prima Pepè, è certo un problema di tutta la radio, ma è immediato e vitale per fare informazione militante. Redattori non a tempo pieno possono ugualmente fare un'informazione di buona qualità a condizione di essere circondati e appoggiati da interlocutori nel movimento e nella società. Penso che questo modello d'informazione sia tuttora valido, ma non riuscivamo a metterlo in pratica. Molti nomi di quell'agenda io non li ho mai visti in faccia, per altri Radio Black Out era solo una voce al telefono che ogni tanto gli chiedeva un aggiornamento o un commento, non c'era un vero rapporto. Il distacco della radio dal resto della società si ripercuote subito sull'informazione, e una lista di numeri di telefono non significa essere in contatto con il resto della società. Al tempo stesso coloro che facevano informazione non affrontavano questo problema per il semplice fatto che non riuscivano nemmeno a incontrarsi. Per un po' di tempo c'è stata una riunione settimanale distinta dalla redazione per decidere collettivamente le notizie della settimana, ma questa riunione si è interrotta spontaneamente. Nella redazione non si riusciva a discutere d'informazione perché quasi tutte le riunioni erano interamente occupate dai problemi pratici, come organizzare un concerto, e quando non c'era un concerto da organizzare magari erano assenti proprio quelli che l'informazione la facevano.
BETO: Ma oltre all'informazione ci sono state altre cause della crisi e mi preme tornare alla stasi, cioè al fatto che la gente che girava in radio era sempre la stessa e che la radio si era chiusa in se stessa. Bisogna chiedersi il perché, se ci sono dei colpevoli. Io penso che uno dei motivi della stasi è che all'interno della radio non c'era un clima molto morbido, molto espansivo, in cui ad esempio arrivi in redazione, partecipi per un mese, due mesi, un anno, e ti rendi conto che puoi fare delle cose anche tu. Invece in radio esisteva una sorta di gerarchia, io sono e peso tanto, tu sei l'ultimo stronzo e non conti niente, e questo ha sicuramente contribuito ad allontanare la gente. Questo lo dico perché l'ho ritrovato in tante persone che sono arrivate in radio e si sono rese conto che la loro parola valeva meno di quella di altri, più bravi o con più esperienza o che facevano parte di gruppi organizzati. La chiusura della radio in se stessa, come si ripercuote sull'informazione, come dice Riccardo, è alla base anche del problema economico. Ci siamo sempre finanziati con i concerti, le serate musicali e l'autoproduzione di magliette e cassette. Questo sicuramente è andato bene per un periodo lungo, ma se c'è sempre meno gente a trovarsi in radio ce n'è sempre di meno anche a gestirsi le iniziative di finanziamento, oltre all'informazione e ai turni di presenza, e alla fine le energie si esauriscono.
RADIO BLACK OUT: Va bene, quello che è fatto è fatto. Ma cosa avete combinato mentre ero chiusa? Avete almeno concluso qualcosa?
IVANA: Io il periodo di chiusura l'ho vissuto male. Ero malata, ho passato molto tempo a casa e ho dovuto ascoltare altre radio tra cui Radio Flash che tiene a fare l'antagonista qui a Torino e che ha copiato parecchie cose nostre, stili di trasmissione, sigle. Mi è mancato molto non sentire Radio Black Out perché c'era comunque una disinformazione rispetto a cosa succedeva sul territorio. Le informazioni sulle manifestazioni, sui circuiti antagonisti, era una funzione che Radio Black Out bene o male svolgeva in modo diverso rispetto ai mezzi di comunicazione soliti. Quindi ci tenevo che riaprisse. È ovvio che i problemi c'erano e non erano solo quelli economici. Durante il periodo di discussione ho capito che c'era gente che ci teneva a fare la radio per informare in un certo modo e non soltanto per il suo tornaconto personale e c'era gente che si poneva nei termini "O si fa come vogliamo noi o non si fa niente", tant'è vero che da quando ha riaperto queste persone si sono ancora viste in giro ma non hanno più assolutamente partecipato, né alla discussione né tanto meno sul lato pratico, tirandosi su le maniche come abbiamo fatto noi perché, riducendosi le persone, abbiamo dovuto lavorare molto di più. È stata una scommessa, una scommessa che abbiamo vinto.
BETO: Sinceramente io ho vissuto questi mesi di discussione male. In questi mesi sono usciti veramente tutti i problemi sommersi e nascosti dietro il problema economico e dietro quello politico. Alcuni sbandieravano il problema economico e dicevano che la radio doveva chiudere perché non ce la faceva più, ma era solo una maschera. In realtà avevano già in mente un progetto di ristrutturazione e pensavano che la radio andava chiusa perché non andava bene e non andava bene perché c'erano certe persone. Io ho vissuto proprio questa sensazione. Io sono rimasto molto disgustato vedendo della gente che ha dato tanto alla radio e ha poi rivendicato questo suo merito. E questo mi ha fatto pensare che avessero dato tanto non perché la radio vivesse ma perché fosse come volevano loro...
MORGANA: Volere la radio in un certo modo può anche essere un discorso accettabile, nel senso che io partecipo a un progetto che mi interessa, se non mi interessa non ci partecipo più. Ma il discorso era un altro, era il discorso che la radio dovesse seguire una certa linea politica.
BETO: Mi spiego meglio. Prendiamo uno dei motivi che ho ricordato. La radio muore a livello espansivo, non aggrega più nessuno. Poi in piena discussione sentiamo qualcuno che ha svolto mansioni amministrative, quindi ha acquisito dei contatti e delle capacità, ora vede delle persone che sono disposte a sostituirlo in queste mansioni, ma non gli trasmette i contatti e le conoscenze necessarie. Io mi sono trovato davanti a delle persone che avevano certe capacità, ma che se le tenevano strette, e allora mi domando se hanno svolto per tanto tempo queste funzioni per la radio o per poterle rivendicare dopo, se hanno acquisito certe capacità per avere il coltello dalla parte del manico dopo. Questa è una delle sensazioni negative che ho avuto in questi mesi di discussione.
LINO: Non erano solo sensazioni.
BETO: Bhe, io avevo solo le sensazioni. Il paradosso era che prima alcuni dicevano: "Chiudiamo la radio perché faccio sempre io quella cosa". Allora la radio è stata chiusa, altri hanno detto: "Va bene, quella cosa non farla solo tu, facciamola a rotazione". E allora le stesse persone dicono: "Quella cosa la so fare solo io". Io sentivo dire che la radio mancava di responsabilità, nessuno si assumeva delle responsabilità, ma chi voleva assumersi certe responsabilità non poteva farlo perché non aveva le conoscenze che gli servivano. Allora qualcuno fa un gioco forte e dice: "Io sono capace, tu no, e se vuoi me devi accettare certe cose politicamente". Capirei che uno la radio non gli piace più e allora esce...
MORGANA: Infatti quelle persone non vogliono semplicemente uscire, vogliono far pesare quello che hanno fatto nel passato per avere una legittimazione ancora adesso nelle decisioni pur senza fare più niente.
RICCARDO: Tutto questo è vero e la colpa è un po' di tutti, di chi ha monopolizzato certe funzioni e certi contatti per contare di più, ma anche di chi gliel'ha lasciato fare perché quelle funzioni erano le più noiose e meno gratificanti. Bisognerà impegnarsi tutti perché quella situazione non si riproduca. Una cosa completamente diversa, che è successa dopo la riapertura a proposito della proprietà, è l'uso della propria posizione giuridica come arma per imporre la propria decisione scavalcando la discussione collettiva. Essere fuori dalla redazione è una scelta libera e reversibile, dalla redazione si può entrare e uscire. Chi ha deciso oggi di stare fuori può cambiare idea in qualunque momento e chi era dentro in passato può decidere a un certo punto di fare altro nella vita. Ma sostituire la posizione giuridica alla discussione collettiva è profondamente contraddittorio con la stessa ragione di esistere di qualunque soggetto antagonista, quindi anche di Radio Black Out. Non significa solo essere fuori dalla redazione, significa mettersi contro la redazione.
BETO: Infatti questi mesi di discussione hanno portato in superficie i veri obiettivi delle varie persone. Chi si illudeva che la radio potesse funzionare con tutti oggi si rende che questo non è possibile. Se ci sono delle differenze tra coloro che gestiscono un progetto, va bene, che rimangano, dato che la radio è nata per questo, a quel che mi era sembrato di capire. Io e Lino siamo arrivati subito ma come deejay, ci siamo avvicinati alla redazione dopo un paio di mesi...
LINO: Ma non eravamo solo deejay, allora eravamo legati al centro sociale Murazzi, eravamo già interni al movimento...
BETO: Appunto, ci interessava il progetto radio. Non volevamo fare solo il nostro programma e poi andarcene a vantarci con i nostri amici...
LINO: Quando ci hanno detto che i compagni avevano aperto una radio, ci è subito sembrata una cosa utile, abbiamo pensato a una cosa tipo Radio Alice, che dà gli scontri in diretta, che informa subito sulle occupazioni, e abbiamo deciso subito di dare una mano. Questa era la nostra ottica, fuori da ogni logica di gruppo. Capivamo che c'erano stati dei compromessi, il fatto che ci fossero degli anarchici in radio era un compromesso ma a noi è sembrata una cosa positiva comunque, anche perché non avevamo mai avuto la possibilità di avere contatti con loro, a Torino siamo sempre stati molto separati.
RADIO BLACK OUT: A dicembre vi siete finalmente decisi a riaprirmi e ho potuto ricominciare a trasmettere, anche se con un palinsesto ancora ridotto. Come credete che stia andando il periodo di sperimentazione?
RICCARDO: Anzitutto bisogna precisare che con la riapertura è stata formalizzata la redazione, ora esiste una lista pubblica e aggiornata dei redattori. Sono redattori tutti coloro che si assumono l'impegno di far funzionare la radio. Come dicevo prima, dalla redazione si può entrare e uscire. Le sue riunioni sono aperte a chiunque voglia portare critiche, proposte o suggerimenti. Il problema di fronte a cui ci troviamo ora è di trovare il modo di coinvolgere almeno nelle iniziative più importanti anche coloro che non si sentono di assumersi responsabilità ma collaborano con la radio a vario titolo, come i deejay, in modo che la radio funzioni e viva il più possibile in modo collettivo, senza deleghe o divisioni dei compiti troppo nette. La lista dei redattori può sembrare una cosa burocratica, ma può essere il primo passo per superare la logica di gruppo e di componente che certo ha pesato in passato e forse nemmeno oggi è completamente superata. In questo momento i redattori sono venti, alcuni fanno parte anche di gruppi politici, altri hanno messo soldi di tasca loro, ma ognuno conta come tutti gli altri in base al proprio impegno personale. Chi 'si sbatte' decide, mi sembra il criterio più semplice e trasparente che esista, il più coerente con un soggetto che contesta la divisione in classi della società.
GIORGIO P.: Il mio parere su questi due mesi di sperimentazione è sicuramente positivo. Vedo in tutti quelli che oggi compongono la redazione una gran voglia di rivalsa e di rilanciare la radio, di portare la radio sempre più avanti. Sotto il profilo umano, per me che non venivo prima, è un'esperienza positivissima in quanto ho conosciuto della gente con cui ho diverse affinità sia di tipo musicale che politico e culturale, è stato un approfondire rapporti che erano abbastanza superficiali. Sicuramente gli sforzi che la radio deve fare sono ancora molti ma forse servono a tenerci uniti e a darci forza e voglia di andare avanti. Musicalmente bisogna semplicemente riordinare un po' le idee, io personalmente ho dei gusti musicali abbastanza precisi. Nell'ultima redazione è venuto fuori di fare un palinsesto appetibile e accessibile a tutti, ma per ora non riesco a capire se sia un limite o un pregio per una radio come la nostra, perché sicuramente le personalità sono molto forti e metterle insieme per costruire qualcosa di diverso è abbastanza difficile.
IVANA: Mi sembra che ora la radio stia andando bene. Tra di noi che alla radio ci teniamo e che ora ci lavoriamo mi sembra che la discussione sia sempre rimasta su livelli molto buoni, sia per quanto riguarda il punto di vista politico che il punto di vista umano. Altri invece avevano il modello partitico, crearsi lo schieramento, crearsi il gruppetto che lo sostiene. I mesi di sperimentazione sono faticosi, è veramente uno sforzo anche fisico molto grosso per fare informazione, farla in un certo modo, ci stiamo sforzando tutti quanti per mandare avanti la radio e per mandarla avanti bene, non soltanto tenerla aperta per tenerla aperta. Abbiamo fatto benissimo a cominciare con poche ore, essendo in pochi ci siamo divisi il lavoro, e adesso non siamo ancora a regime pieno ma mi sembra che la gente ci sia, i turni sono coperti, c'è voglia. Il bello è quando la gente propone le cose da fare ed è quello che sta succedendo ora, chi si interessa di un certo settore, chi si occupa dell'informazione. Mi sembra ci sia più voglia rispetto a prima, c'era forse bisogno di chiudere, non per così tanto, la chiusura è servita a stimolare di più il lavoro collettivo dei... buoni di Radio Black Out!
PEPÈ: Diciamo che i due mesi di apertura sperimentale risentono dei limiti intrinseci in sei mesi di chiusura e delle difficoltà a ricreare le energie che ci avevano permesso di fare la radio per tre anni. Non penso che ora sia già una grossa cosa, ma confido sul fatto che si rimetta in moto un meccanismo collettivo. Anche se abbiamo posto la festa di maggio come scadenza per ridarci la forza monetaria, ho paura che possiamo ricascare negli errori del passato, nelle formule che ci hanno fottuto.
ANDREA: Il pericolo adesso è di fare dei passi troppo veloci. Dopo due mesi rischiamo di ucciderci, per ora siamo le stesse persone di prima che hanno gli stessi incarichi, anzi sono state create nuove funzioni e, se non arrivano nuove persone, potrebbe esserci un altro crollo, anche psicofisico. Sono d'accordo con Pepè che c'è un nuovo spirito collettivo, ma io spero che si avvicinino nuove persone, che non avverrà tanto presto perché siamo ancora troppo chiusi tra di noi.
PEPÈ: Mai come oggi siamo nella posizione di poter far ripartire un circolo virtuoso per fare una radio diversa. In realtà Radio Black Out è sempre stata diversa, ma noi abbiamo la grossa fortuna di poter fare realmente ciò che vogliamo.
ANDREA: Infatti noi esistiamo in quanto diversità. Oggi siamo l'unico esperimento in Piemonte di radio che si autofinanzia e dove nessuno è pagato, e questa è una cosa che all'esterno traspare poco. Che non c'è pubblicità si sente, ma che nessuno è pagato no, pochi sanno che lo facciamo per... spirito 'marconiano'!
PEPÈ: D'accordo, ma dobbiamo stare molto molto attenti a non farci condizionare dal nostro passato, nel bene e nel male. Se partiamo per forza da alcuni singoli che hanno un patrimonio tecnico o cognitivo ed elaborano delle cose, non dobbiamo però ricascare nello specialismo delle singole individualità, dei più bravi che portano avanti la baracca, mentre chi arriva nuovo deve recuperare lo svantaggio. Dobbiamo amplificare e valorizzare al massimo la dimensione collettiva, non dobbiamo cadere dalla situazione per cui ci facciamo il mazzo per tirare su i soldi da portare all'Enel, alla Telecom e al padrone di casa, mentre ci dimentichiamo del motivo per cui lo stiamo facendo.
ANDREA: Oggi per la prima volta la radio è fatta solo dalla redazione, le stesse persone che si ritrovano il lunedì reggono la programmazione di tutta la settimana e l'informazione di tutta la settimana e, di fatto, sono la voce della radio. Oggi in sala-regia per la prima volta ho visto facce nuove. Radio Black Out è una cosa molto bella, ma ci può distruggere in un attimo.
RICCARDO: I rapporti interni, di cui hanno parlato Pepè e molti altri, sono la cosa più importante di tutte. La divisione tra chi sa e chi esegue, l'incapacità di collettivizzare le conoscenze e le esperienze, sono errori facili da evitare ora che siamo in pochi, ci conosciamo tutti e ci diciamo tutto, se non altro per essere passati insieme attraverso i sei mesi di chiusura e i due mesi di sperimentazione. Ma se arriveranno altre persone, come speriamo, dovremo stare molto attenti a coinvolgerle a tutti i livelli, non soltanto per non farle scappare, cioè per interesse pratico, ma perché è giusto così.
BETO: Proprio le cose che oggi mi piacciono mi fanno capire meglio i limiti di prima. Oggi mi sembra assurdo che volessimo comunicare con l'esterno quando non eravamo nemmeno capaci di comunicare tra noi. Parlavamo di reti orizzontali e poi avevamo rapporti verticali tra di noi. Io ho fatto poche volte informazione solo con Riccardo perché solo con lui riuscivo a comunicare, solo con lui c'era uno scambio di conoscenze e di esperienza, mentre altri mi facevano pesare quello che non sapevo e mi facevano sentire inferiore. Questo ha tagliato le gambe a tanta gente che aveva delle potenzialità o anche solo voglia di fare, è stato un errore gravissimo che qualcuno non è stato in grado di valutare e di cui sono convinto tuttora. Io avevo fatto quasi solo serate musicali o programmi musicali, mentre altri facevano informazione o programmi culturali, ora invece molti fanno entrambe le cose e anche tra chi fa cose diverse c'è il rispetto reciproco. Su questo insisto perché lo ritengo fondamentale.
MORGANA: Io in passato non me la sono mai sentita di avere un ruolo diretto nella radio, anche perché vedevo che c'erano persone che sapevano fare bene le cose e trovavo comodo lasciarle fare a loro. È più facile delegare che mettersi a fare le cose direttamente. Questi mesi di sperimentazione io li ho vissuti come un cercare di iniziare a fare anch'io le cose direttamente, agire e non soltanto più avere la pappa pronta. Mi sono resa conto che non è assolutamente facile, perché effettivamente certe persone avevano le conoscenze, e poi ci vuole l'abitudine a fare le cose, che non è poco. Ad esempio, per me fare un radiogiornale al mattino non è assolutamente semplice, ci metto una vita, faccio errori su errori. Vedo che ci sono persone che hanno voglia di fare che prima non c'erano, come Giorgio P., e questa è un'occasione. L'impressione è che adesso non stia funzionando tanto bene, non è facile riempire il vuoto lasciato da alcune persone a livello organizzativo e anche riconquistarsi gli spazi di ascolto, dopo tanti mesi che non ci sei più la gente non è più abituata ad ascoltarti. Radio Flash in questi mesi ha fatto dei cambiamenti per conquistarsi degli spazi che erano di Radio Black Out...
BETO: Questo dovrebbe farci pensare, che un'altra radio ci copia mentre siamo chiusi. Vuol dire che probabilmente certe formule magiche le avevamo.
MORGANA: Indubbiamente, perché eravamo una radio estremamente giovane, non solo perché noi eravamo giovani, ma giovane perché tutto era puntata molto sul nuovo, l'entusiasmo a livello di iniziative e di trasmissioni, nulla era standardizzato rispetto a niente. Anche le manifestazioni, queste cose qua, sapevi che potevi ascoltarle solo su Radio Black Out, e sono le cose che sono mancate di più nei mesi di chiusura. Nei momenti di tensione, di scontro, non poter avere un punto di riferimento nella radio ha contato molto. Ora non sento più Radio Black Out come punto di riferimento per molta gente, il vuoto dei sei mesi si sente ancora. Secondo me Radio Black Out non è ancora riaperta realmente, sembra un po' una fase di risveglio dal coma.
BETO: Io questi mesi di riapertura sinceramente li sto vivendo bene. In questi 6 mesi ho messo molto in discussione il mio rapporto con la radio, il mio rapporto con il fare politica. Questi mesi mi hanno fatto riguardare a 360 gradi tutto quello che era il mio fare politica, perché la radio mi ha dato quasi la sensazione di ripartire da zero. Una serie di persone si sono rimesse in gioco, persone che prima non facevano e oggi fanno. Perché prima la gente non si metteva in gioco? Prima c'era una ricchezza, oggi non c'è più, non sono andate via due o tre persone, sono andate via almeno una decina, forse anche di più, non intendo deejay ma persone che gravitavano sulla redazione...
LINO: Ma tu conti tutti quelli che sono andati via da quando esiste la radio...
BETO: Può darsi, ma io mi domando come mai siamo tornati così indietro, come mai si riparte da zero? Mi fa piacere che ora c'è della gente che sta ripartendo magari con meno capacità ma con la voglia. Ma perché le capacità che c'erano in radio si sono disperse? In questi mesi si è parlato delle energie collettive che la radio aveva sviluppato. Secondo me la radio non aveva sviluppato nessuna energia collettiva. Delle persone avevano delle capacità ma non le hanno trasmesse, non è mai nata un'energia collettiva, erano sempre diverse energie individuali.
MORGANA: Il fatto che alcune persone si fossero specializzate nel fare certe cose e quasi si identificassero con quelle ha permesso di investire tutte le altre energie in altre cose. La gente nuova era messa a fare le cose più simpatiche e divertenti, ma anche marginali rispetto ai meccanismi di funzionamento della radio. Se da un lato ha aiutato il fatto che solo certe persone si dedicavano alle cose noiose, alle cose burocratiche, dall'altro ha permesso che tanti altri potessero sentirsi inseriti nella radio senza dover dare troppo.
BETO: Sì, ma capisci? Ha una doppia valenza questa cosa qua.
MORGANA: Infatti. Questo ha permesso che la radio subito avesse un vantaggio, la gente si inseriva volentieri perché non doveva sbattersi troppo, e investiva le proprie energie per far funzionare bene la radio nelle cose che faceva. Però poi effettivamente queste persone non venivano mai realmente coinvolte.
LINO: È esistita una forma di castrazione non tanto della voglia di fare ma della crescita collettiva. Nei primi due anni della radio in cui c'era entusiasmo per la radio, c'era parecchia voglia di fare. Ma poi è mancata proprio la trasmissione delle capacità, la crescita collettiva. Questa cosa è venuta proprio a mancare da una parte per gli scazzi interni alla redazione, e poi perché chi aveva le conoscenze, aveva determinate capacità, se l'è tenute strette, perché poi questo si risolveva anche in termini di fetta di potere, ed è un discorso squallido. Si vedeva molto il distacco tra la massa lavorativa e i cervelli della radio...
BETO: ... tra i bravi e i cattivi, tra i primi della classe e gli ultimi. In questi mesi di sperimentazione vedo gente che si è messa a fare, che ha delle conoscenze, anche se forse meno di altri. Allora perché queste conoscenze prima non venivano fuori? Faccio un esempio. Come fonti per l'informazione non ci bastavano i giornali. Allora si pensava all'ECN, che fa parte del movimento. Il collegamento ECN all'interno della radio c'è sempre stato, ma lo potevano usare solo quelli che erano capaci, solo quelli dell'ECN Torino. C'è mai stato un corso ECN in radio?
LINO: Esisteva l'élite intellettuale...
BETO: L'élite intellettuale che aveva come slogan 'Technology to the people', tecnologia al popolo e poi il computer in radio era chiuso con il lucchetto. Per tre anni all'interno della radio c'è stata l'ECN che avrebbe potuto essere una fonte per il radiogiornale ma che nessuno ha mai potuto utilizzare. Capisco che in radio passa tanta gente e che se tutti lo 'pacioccano' si rompe, ma allora metti un computer un po' meno bello e costoso ma che possano usarlo tutti, altrimenti tanto vale tenerlo a casa. Il bello è che poi io mi sbattevo per le piccole cose, facevo lo spot per la serata di finanziamento ECN, ma al computer non potevo avvicinarmi.
LINO: Io questi mesi li vedo come la riappropriazione della radio da parte del Terzo Stato. Mi fa piacere che oggi decidono quelli che per tre anni ho visto fare i turni di presenza, stare alla porta ai concerti, attacchinare i manifesti, pulire per terra. Una radio può avere tutti i progetti sociologici o cibernetici, ma se non ha la capacità di rendere tutti partecipi di queste cose su un piano orizzontale e non verticale non puoi che arrivare al punto a cui eravamo arrivati noi. Forse abbiamo fatto un passo indietro, ma sono più felice ora perché sento la radio più mia, sento che le cose che la radio ha sempre detto ora sono più vere, che la radio è ora più reale.
RICCARDO: Anch'io vivo bene questi mesi, anche se i problemi sono ancora enormi. Come è ripartito tutto può bloccarsi di nuovo in qualunque momento, la situazione economica non è più catastrofica ma nemmeno siamo fuori pericolo, rimane irrisolto il problema di una forma alternativa di finanziamento, se i concerti non bastavano prima è assurdo pensare che bastino ora. Siamo diminuiti di numero e non è pensabile che possiamo reggere a lungo al ritmo d'impegno che abbiamo ora. Ma le cose sono fatte in modo molto più collettivo, l'informazione ora è discussa in redazione, si sono messi a fare i radiogiornali molti che prima non li facevano e che imparano facendo, poi tutti insieme ci diciamo tranquillamente cosa va bene e cosa deve essere corretto. E credo che siamo sulla strada buona anche per l'apertura con l'esterno, sono già venuti in radio a parlare del contratto integrativo FIAT alcuni delegati che non ci erano mai venuti prima, è venuto in radio a parlare di nocività un delegato della Pirelli che non ci era mai venuto prima, e poi dei delegati dello SLAI-Cobas degli Uffici Giudiziari a raccontare di una causa vinta contro il Ministero di Grazia e Giustizia che non gli riconosceva i diritti sindacali, e poi diverse associazioni di consumatori a parlare delle nuove tariffe. E stiamo parlando di soli due mesi...
ANDREA: E questa settimana per la prima volta in quattro anni Luisa ha organizzato un incontro in radio per spiegare l'uso del computer e come collegarsi all'ECN e a Internet. Come il muro di Berlino, è crollato anche il muro dell'ECN!
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