L’incontro odierno ha come obiettivo un’approfondimento particolare sulla situazione di Porto Marghera.
Ma i problemi di Porto Marghera e le sue prospettive di medio e lungo periodo sono inevitabilmente legati ai destini di Enichem come gruppo industriale , alle sue scelte industriali, ai problemi occupazionali, come a quelli ambientali
Non si può quindi parlare di Porto Marghera senza premettere una osservazione su dove sta andando l’Enichem.
Cenni sulla Chimica Italiana (1970-1990)
Per inquadrare e comprendere la situazione attuale della grande chimica Italiana, e di Enichem in particolare, è necessario andare indietro negli anni e ricordare come la grande chimica Italiana è stata per anni (almeno fino alla metà degli anni ‘70) terreno di sviluppo "selvaggio" e di forte concorrenza tra i principali gruppi chimici nazionali.
L’investimento nel settore chimico era allora particolarmente remunerativo, soprattutto perché in presenza di un mercato non ancora saturo ed in grado di mantenere alto il livello di consumo dei prodotti chimici, per il favorevole basso costo delle materie prime, e per la possibilità e facilità di accesso ai finanziamenti ed ai sostegni pubblici.
La particolare condizione di remunerabilità dell'investimento chimico, soprattutto nel comparto privato, ha attratto ingenti quantità di capitale finanziario producendo quell'intreccio tra interesse finanziario ed industriale che è stato per anni una caratteristica dell'industria chimica Italiana.
(Nel 1974 Montedison risultava in gran parte controllata da banche e finanziarie private e pubbliche).
Tutti i concorrenti erano infatti impegnati in consistenti investimenti allo scopo (in concorrenza tra di loro) di saturare ed acquisire il massimo di quote di mercato, e ciò, per le caratteristiche dell’investimento chimico, richiedeva disponibilità di capitale finanziario non facilmente reperibile e quindi impegni ed esposizioni con Banche e finanziarie.
Sono gli anni dei grandi investimenti, delle grandi "cattedrali nel deserto", dei "doppioni", della "proliferazione dei siti produttivi". Sono gli anni dello sviluppo selvaggio gestito nella totale incuranza dei problemi di impatto ambientale e senza un barlume di programmazione ed integrazione delle scelte di investimento.
Questa situazione, al primo accenno di crisi, si è immediatamente ed inevitabilmente ripiegata e contratta in "crisi da sovrapproduzione e da remunerazione" che investe sia il settore privato che pubblico (soprattutto nella chimica di base e nelle plastiche).
E' questa situazione che spiega in gran parte
Tutta questa fase si conclude quindi con una distruzione di ricchezza fatta di fallimenti, tagli e chiusure. Sopravvivono praticamente solo ANIC e Montedison che mantiene però non poche difficoltà di indebitamento.
In questo quadro, primi anni '80, si afferma la decisione di riordinare gli assetti della chimica ENI, attraverso il superamento della struttura divisionale di ANIC, arrivando alla costituzione di una Holding chimica.
Nasce Enichimica a cui fanno capo diverse società operative, coincidenti alle precedenti divisioni ANIC, che assorbono al loro interno attività consistenti di SIR e Liquichimica, e parti di Montedison (operazione Riveda).
Questo riassetto societario, certamente utile alla forte propensione lottizzatrice (sono gli anni d’oro di De Michelis) viene presentato come condizione per favorire una politica di contenimento dei costi, di recupero di efficienza e tempestività decisionale, e di apertura verso accordi di internazionalizzazione.
La caduta dei saggi di remunerazione del capitale investito, che continua nonostante le forti razionalizzazioni e distruzioni realizzate negli anni precedenti, viene infatti spiegata con gli alti costi di gestione, ed i bassi tassi di utilizzo degli impianti dovuti alla saturazione del mercato nazionale ed alla scarsa penetrazione nel mercato mondiale.
Enichimica decide quindi di rendere disponibili i propri comparti per realizzare accordi di internazionalizzazione e joint venture, al fine di elevare il tasso di utilizzo dei propri impianti, accordandosi con partners stranieri sulla messa in comune delle produzioni e dei mercati, di divisione dei compiti e delle aree di intervento.
Questa linea, nonostante il gran parlare che se ne fece allora, non ha dato grandi risultati, a parte l’esperienza ENOXY (joint venture tra EnichemPolimeri ed Occidental sulle plastiche). Esperienza breve e finita male, dalla quale Enichimica se ne esce pagando una pesante liquidazione all’Occidental.
Inizia allora un lungo periodo di inerzia industriale, aggiustamenti formali, assetti e riassetti societari. E’ il periodo confuso delle scorribande socialiste e democristiane. Vere e proprie guerre di potere gestite a colpi di assetti societari per consolidare ed acquisire aree di influenza e di maggior potere.
E’ in questo contesto che si innesca la scalata alla Montedison da parte del gruppo Ferruzzi.
Questo periodo va osservato e ricordato, non solo per rilevare l'inerzia industriale che lo ha caratterizzato, ma anche per sottolineare le opportunità perse.
Fallite le esperienze di internazionalizzazione avviate, non si sono colte da parte di Enichimica altre opportunità, in particolare sulle plastiche e sulla chimica fine per il consolidamento nel mercato Europeo e per il posizionamento nelle aree di sviluppo.
Sui Tecnopolimeri, ad esempio, esistevano le condizioni ed i progetti per un raddoppio dell'impianto di Terni e per una joint venture per un nuovo impianto in Sud Korea.
Esistevano possibilità concrete di impegnarsi sui materiali speciali come i Preimpregnati e le Leghe polimeriche, ma l'assenza di impegni sulla ricerca e sullo sviluppo applicazioni ne hanno frenato le possibilità. L'inerzia industriale di quel periodo è quindi un'inerzia colpevole che comincia a denotare la caduta di interesse da parte degli investitori.
L'Enimont e le occasioni perdute
Veniamo finalmente alla vicenda Enimont. Vicenda che potremmo definire l’ultimo atto di quella lunga "guerra chimica" iniziata a metà degli anni ‘70 tra i grandi gruppi chimici nazionali.
I problemi industriali si sono aggravati, sia per l’Eni che per Montedison.
Al di là degli alti e bassi della congiuntura e dello sfruttamento di particolari condizioni per la determinazione dei prezzi, rimane il problema di una Chimica Italiana frantumata in diversi siti, in diversi centri di potere, ancora in concorrenza tra di loro, e di contro, rimane il problema della concorrenza internazionale e della necessità di disporre di una struttura e di una economia di scala adeguata a reggere questa concorrenza, anche e sopratutto fuori dal mercato nazionale.
Enimont viene presentata come la risposta nazionale a questi problemi, ma si capisce subito che tra i due partners il confronto è esclusivamente finanziario, che si tratta solo di decidere chi deve guadagnarci dall’intera operazione.
Dal punto di vista industriale, la semplice operazione di fusione tra Enichem e Montedison non poteva considerarsi sufficiente al rilancio della chimica Italiana, sopratutto di quella secondaria e fine che doveva adeguarsi all'evoluzione qualitativa della domanda di prodotti chimici necessari alle nuove applicazioni..
Occorreva recuperare ritardi enormi nella ricerca, nello sviluppo dei nuovi prodotti e nell'aggiornamento delle tecnologie. Terreno questo su cui i grandi concorrenti internazionali avevano già avviato per tempo e con grande anticipo politiche industriali, di R&S e di Marketing per il consolidamento delle loro posizioni.
Certo Enimont aveva di fronte la necessità di realizzare alcune razionalizzazioni, riduzione di costi e recuperi di efficienza, ma solo una politica industriale e commerciale aggressiva, sostenuta da adeguate risorse per la conquista di posizioni forti sul mercato mondiale poteva dare prospettive industriali all’intera operazione.
Fin dall’inizio Enimont non decolla. Al suo interno si consuma invece uno scontro tra Eni e Montedison, ognuno preoccupato solo di salvaguardare i suoi interessi ed i suoi obiettivi finanziari e speculativi
Comunque fino alla fine, in Enimont non vengono prese decisioni vere sul piano industriale, non si assumono iniziative. Tutto procede per inerzia fino al collasso.
Conosciamo le conclusioni. Con l’uscita di Montedison, Eni paga 4.500 miliardi ed altro ancora, per ritrovarsi in mano gli stessi problemi di prima aggravati dal maggior dimensionamento del parco industriale.
Possiamo dire che la fine di Enimont è stata la naturale conclusione di decenni di guerre chimiche giocate più dal punto di vista dell’interesse finanziario che non da quello dell’interesse industriale.
Possiamo dire che la vicenda Enimont (per come è stata condotta) e la sua fine (per come è stata gestita) ha rappresentato un colpo mortale e non più recuperato per la grande chimica Italiana e la sua competitività internazionale.
Enichem nel 1992, denuncia 2.600 miliardi di debito, di cui 1.000 miliardi di soli oneri finanziari, che portano a 8.000 miliardi il debito consolidato (11.000 con il settore Agricoltura).
Eppure, per paradosso, la situazione poteva contenere ancora delle grandi opportunità.
A quel punto Enichem si presentava come unica grande azienda chimica Italiana.
Dopo le tante guerre chimiche e l’acquisizione di Montedison, la grande chimica Italiana risulta per la prima volta concentrata in un’unica società, realizzando così le condizioni affinché un grande gruppo nazionale potesse effettivamente concorrere con i giganti della chimica mondiale.
Erano presenti le condizioni per non ricadere più nei grandi disastri generati da decenni di guerra chimica, di lotte tra pubblico e privato, di mancata programmazione, di distruzione e frantumazione delle risorse.
Occorreva che il Governo confermasse la strategicità del settore chimico (invece ne decise ed impose la privatizzazione attraverso cessioni e vendite), occorreva che Eni considerasse il settore chimico come parte integrante del suo piano strategico, e ne sostenesse lo sviluppo anche dirottando quote delle rendite metanifere e petrolifere a sostegno di questo sforzo, almeno nella prima parte.
Il Piano Enichem del 1991
Invece Enichem presenta nel 1991 un piano di ristrutturazione che, sostenuto dalla forte propensione alla privatizzazione lanciata dagli allora Governi Amato prima e Ciampi poi, punta tutto ed esclusivamente sul semplice risanamento del conto economico attraverso:
Pur riconoscendo la necessità per un gruppo come l’Enichem di perseguire come obiettivo il risanamento del debito, non si può non sottolineare come già nella povertà e nella debolezza di questo piano siano presenti tutti i motivi che ancora adesso fanno pensare concretamente ad un chiaro interesse di Eni di abbandonare il suo impegno nella chimica, o comunque che fanno sicuramente pensare all’assenza di una vera volontà di riordino e rilancio della grande chimica Italiana.
Cessioni e dismissioni a parte, non appare assolutamente credibile una scelta di consolidamento nella sola chimica di base e nelle plastiche (neanche tutte poi).
Siamo in presenza infatti di un comparto caratterizzato da grandi commodities, ormai mature dal punto di vista dei prodotti e dei processi..
Un comparto, che se non inserito in un gruppo dotato di una forte diversificazione anche nelle lavorazioni e nelle utilizzazioni a valle (nella chimica secondaria e fine), rimane fortemente esposto alle politiche degli altri utilizzatori, che possono in qualsiasi momento premere sulla determinazione dei prezzi decidendo se e come rivolgersi ad un altro fornitore.
Se guardiamo le grandi multinazionali chimiche non si può non notare, che diversamente da Enichem, esse tendono a darsi ed a mantenere assetti "bilanciati".
Accanto alla chimica di base e dei prodotti intermedi (soggetta a crisi cicliche ed a ogni piccola modifica della congiuntura e dei rapporti di scambio) rimane importantissima la diversificazione nei settori di chimica secondaria e fine, sui materiali speciali ecc. a maggiore valore aggiunto.
Ogni gruppo industriale che intende essere leader mondiale nel settore chimico, mantiene e sviluppa i propri investimenti sopratutto nei settori che potremmo definire di attività anti-ciclica, stabilizzanti per il portafoglio ordini in quanto compensano nei periodi di congiuntura sfavorevole la criticità dei settori di base ed assicurano una presenza strategica nel settore anche per l’allocazione delle proprie produzioni di base ed intermedie.
Se questa è la reale propensione, il solo comparto della chimica di base, pur in presenza di impegni al suo mantenimento, non avrebbe prospettive di lungo periodo e rischia di essere condannato a ridursi al livello di una piccola divisione dell’Agip, interessata a mantenere una modesta presenza nella petrolchimica limitatamente alle produzioni di suo interesse.
D’altra parte il Piano Enichem (già pesantemente condizionato dagli obiettivi di conto economico) perde subito quel poco di credibilità industriale che aveva.
Per far fronte agli obiettivi di rientro del debito, vengono quasi immediatamente annunciati tagli agli investimenti previsti e concordati in sede di presentazione e discussione del piano, per 2.000 miliardi nel periodo 91-92 e vengono comunicati rinvii di interventi già previsti per il mezzogiorno. Cadono uno ad uno gli impegni per Crotone, Manfredonia e per la Valle del Basento. Anche il sito di Ferrara comincia a subire un pesante disinteresse.
Con ciò non si intende sottovalutare l’importanza delle iniziative per il rientro del debito accumulato, ma dal punto di vista industriale era da folli pensare che Enichem da sola e con le proprie risorse potesse riuscire in un’impresa così complessa senza prosciugare completamente le sue capacità operative e le sue strutture industriali, senza indebolirsi.
L’indebitamento del gruppo era previsto fosse ridotto da una ricapitalizzazione di 4.000 miliardi (2.000 nel 92 ed altrettanti nel 93) che Eni doveva conferire ad Enichem, ma ne vengono conferiti solo 1.000 nel 1992.
Oggi Enichem ha certamente risolto i problemi legati al suo indebitamento.
Resta però il fatto che il risanamento del debito è stato realizzato al prezzo di un pesante indebolimento del gruppo, con le numerose dismissioni e cessioni nei settori della chimica secondaria e fine, ma sopratutto con una costante (al di là degli strumenti utilizzati) politica di riduzione dei costi occupazionali e degli investimenti.
Comunque con una forte riduzione di quella diversificazione e qualificazione nel portafoglio prodotti che rimane invece caratteristica dei grandi concorrenti internazionali.
Le cessioni ed il disimpegno
E' utile a questo punto fare il punto sulle numerose cessioni realizzate da Enichem in questi anni.
Tutta la Chimica Fine, quella organizzata dentro all'Enichem Sintesys, è stata prima suddivisa in tante scatole e poi venduta a pezzettini.
Il fatto che questi prodotti fossero interessanti è dimostrato dalla relativa facilità con cui Enichem è riuscita a venderli. L'interesse di molti gruppi chimici, sopratutto stranieri, è dimostrato dalle numerose offerte presentate nelle "bande d'asta" aperte allora.
Alla fine, i vari pezzettini della chimica fine Eni risultano così ceduti:
Sulla Chimica secondaria, abbiamo visto le seguenti cessioni:
Anche i settori della Chimica di base e delle plastiche, sono stati interessati. In modo particolare vanno ricordati:
Anche sulla Poliammide è cessata sia la commercializzazione che la produzione, ed Enichem ha messo in vendita il marchio e le sue formulazioni.
Il Tecnoprene è stato venduto ad un compaundatore di Brescia
Ora sono in vendita il Pibiter ed il Pibiflex, e già esistono tre offerte di acquisto.
Comunque, venendo all’attualità, e prima di affrontare i contenuti dell’ultimo piano quadriennale presentato da Enichem (prossima comunicazione), è utile soffermarci sullo scenario attuale e le sue prospettive.
Lo scenario attuale e le prospettive della concorrenza chimica
Enichem è oggi, quindi, un'azienda presente essenzialmente nei settori della chimica di base, e degli intermedi per plastiche e gomme.
Si può affermare come fanno alcuni, che l'uscita dalla chimica secondaria e fine, dovrebbe aver messo Enichem nella condizione di stabilizzarsi per potersi finalmente dedicare a rafforzare e qualificare la propria presenza nei settori in cui ha deciso di rimanere.
Ma se fosse così occorrerebbe dimostrare che Enichem sia in grado ed abbia intenzione di svolgere azioni in tal senso.
Va considerato a questo punto l'attuale evoluzione del mercato chimico, che, dal lato della concorrenza tra i grandi gruppi industriali deve tenere conto di due scenari: Il mercato Europeo ed i nuovi mercati come il Far East e l'Europa dell'Est.
Solo per rimanere al 1996, e tralasciando le cessioni Enichem, vanno ricordate l'acquisizione della CHEMIE LINZ da parte della DSM. La SOLVAY ha acquisito la chimica fine della HOECHST, senza contare le acquisizioni da parte di BASF nei coloranti e della RHONE-P nelle fibre. Sempre nel 1996 la BASF ha realizzato due importanti join venture sulla chimica di base, una con la SCHELL ed una con la HOECHST.
La tendenza si evidenzia ancor di più se andiamo ad osservare gli ultimi 3 anni. L'alto numero di acquisizioni, di joint venture e di accordi di internazionalizzazione, dimostra che le aziende Europee hanno avviato da tempo una intensa riorganizzazione produttiva che porta alla riduzione del numero dei produttori e ad una ridefinizione e concentrazione delle competenze produttive, sempre in una linea di bilanciamento del portafoglio prodotti e sempre attenti a non specializzarsi solo a monte o solo a valle del ciclo petrolchimico.
Enichem, è di contro, un'azienda ormai specializzata essenzialmente sulla chimica di base ed intermedia.
L'Enichem è totalmente assente nelle iniziative di penetrazione in questi mercati in sviluppo e sul mercato Europeo sembra prediligere una posizione di automarginalizzazione condannandosi così, in tempi non troppo lunghi a ridimensionamenti ulteriori o ad essere acquisita, assorbita dalle grandi multinazionali.
Ben il 43% della capacità addizionale di Etilene verrà realizzata nel Sud-Est Asiatico, e meno del 10% in Europa Occidentale, frutto più di sbottigliamenti e recuperi di efficienza che altro.
A dimostrazione di questi dati risulta importante notare che nell'area Far East, tra il 1993 ed il 1996, sono stati presentati sia dal grande capitale Giapponese che da quelli Europei ed Americani, circa 200 progetti di investimento nella chimica primaria. 100 nella sola Cina, 21 a Taiwan, 15 in Indonesia, 13 in Sud Korea ed altrettanti a Singapore, e poi altri in Tailandia e Malaysia.
Sulle prospettive e sulle difficoltà del mercato Europeo per la chimica primaria, oltre alla tendenza alla sua saturazione, pesano almeno altri due fattori:
Già questo, se confrontato con lo scenario appena tracciato e con l'evoluzione della concorrenza, denota la debolezza della strategia Enichem che fa della chimica di base l'asse portante del suo core business.
Si tratta di prodotti maturi, tutti concentrati a monte del ciclo petrolchimico, esposti pesantemente ai cicli congiunturali sempre più rapidi, ed esposti alle politiche ed agli interessi degli utilizzatori.
La chimica di base da sola non giustifica l'esistenza di Enichem come grande gruppo chimico e non ne garantisce la solidità e la competitività.
Anche qui il piano Enichem si impegna ad un mantenimento ed a un consolidamento che appare però assai poco credibile.
Enichem non denota alcuna intenzione di concorrere ad acquisire quote di mercato nelle aree oggi caratterizzate da un aumento della domanda e dei consumi. Enichem non ragiona quindi in termini di opportunità e sviluppo.
Nel Far East, i suoi principali concorrenti Europei come la BASF e come la DOW, stanno invece realizzando nuovi impianti di Polistirolo, avvicinando così le produzioni al mercato, e riducendo la capacità di penetrazione commerciale delle esportazioni Enichem in quelle aree. Altre aziende stanno inoltre ampliando le presenze già realizzate in precedenza. E' il caso della ATOCHEM. E questo senza parlare dei numerosi investimenti delle multinazionali Americane e Giapponesi.
Il confronto tra Enichem con BASF e DOW è molto più importante di quanto appaia anche per le prospettive di Enichem sul mercato europeo.
Oggi un'azienda, in Europa, può considerare stabile la propria presenza sul mercato, capace cioè di reggere le inevitabili crisi cicliche, solo se controlla almeno il 20-25% del mercato.
Sull'ABS, per esempio, abbiamo questa situazione.
BAYER controlla il 25-30% del mercato, la G.ELECTRIC il 25%.
DOW, ENICHEM, DSM, e BASF controllano rispettivamente quote di mercato attorno al 10%.
E' chiaro che in prospettiva il confronto si svolgerà tra queste ultime aziende, e che il numero complessivo dei produttori tenderà a ridursi solo a 3, massimo a 4.
Fatte salve la BAYER e la G.ELECTRIC, sufficientemente posizionate sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, o Enichem saprà acquisire quote di mercato e di capacità produttive di DSM, BASF o DOW, o sarà quasi inevitabilmente acquistata da loro.
Lo stesso discorso vale più o meno sugli Stirenici. Non è un caso che attorno agli Stirenici vanno e vengono in continuazione voci di interesse per l'acquisizione del polistirolo Enichem da parte di aziende concorrenti. Voci sempre smentite ma che hanno una loro credibilità se viste dal punto di vista delle tendenze in campo.
D'altronde Enichem non può pensare di rimanere un'azienda di fascia media o bassa. Alla prima contrazione di mercato, sarebbe più esposta di altri e non reggerebbe. Anche qui l'alternativa è tra lo sviluppo e la lenta marginalizzazione.
Enichem è invece inerte di fronte alle scelte che andrebbero fatte e (escludendo gli sbottigliamenti) anche le poche indicazioni di investimento ed innovazione presenti nel piano riguardo i "materiali" sono ben poca cosa rispetto alle necessità.
Ciò che distingue Enichem dai suoi principali concorrenti Europei nel settore (che guarda caso sono sempre ICI, BASF e BAYER) è che questi sono presenti sia nella produzione di intermedi che nella produzione e commercializzazione di prodotti finiti e delle diverse applicazioni.
Il piano Enichem prevede un aumento di capacità produttiva nella produzione di intermedi con sbottigliamenti negli impianti.
Ma oggi, lo scontro concorrenziale per rimanere sul mercato Europeo è più sulla qualità e sulla diversificazione dell'offerta che non sulla quantità.
Il mercato Europeo non è oggi certo in difetto di capacità produttiva per quanto riguarda gli intermedi. Lo scontro è tutto aperto invece sulle qualità e sulle applicazioni.
Si potrebbe dire che l'incremento di capacità produttive sugli intermedi è giustificato dalla necessità di coprire la maggiore domanda dei mercati in sviluppo come l'Asia.
In effetti il Far East è l'unico mercato dove si può concorrere dal punto di vista delle quantità. Ma Enichem non ha siti produttivi nel Far East ed è quindi costretta a movimentare i prodotti dall'Europa all'Asia.
Nel Far East siamo in presenza di investimenti, sopratutto da parte del capitale Giapponese (MITSUI), che già offrono su quel mercato gli stessi prodotti a prezzi molto più bassi.
A parità di qualità, gli intermedi per poliuretani prodotti in Europa hanno prezzi che si aggirano attorno alle 3.200/3.300 lire al Kg, mentre gli stessi intermedi prodotti nei nuovi insediamenti nel Far East hanno prezzi attorno alle 2.900 lire il Kg.
Già le vendite nel Far East, nel 1995, sono scese di 4.000 ton. anno. Si è spiegato questo con la bassa capacità produttiva e quindi la scarsa possibilità di rispondere alla domanda, ma questa osservazione non risolve la sfavorevole concorrenza sulla determinazione dei prezzi.
Come per gli altri comparti prima osservati, anche per l'attività poliuretani la questione non sta nel numero di investimenti o sbottigliamenti dichiarati da Enichem, ma nell'efficacia della sua strategia.
I principali concorrenti Enichem, come le Tedesche BASF e BAYER stanno infatti, da una parte consolidando e sviluppando la loro presenza in Europa sulle applicazioni e sulle specialità, e dall'altra cercando penetrazioni nel Far East realizzando joint venture con aziende locali.
Una politica di semplice mantenimento, per lo più giocata solo sulla produzione degli intermedi, risulta evidentemente debole rispetto al peso concorrenziale che produrranno le azioni dei principali concorrenti Enichem
Se confrontiamo le intenzioni di piano Enichem sulla Chimica di Base, sui Materiali e sui Poliuretani, notiamo subito l'insufficienza di questo rispetto alle prospettive ed all'evoluzione della grande chimica in generale.
In uno scenario concorrenziale in movimento, l'assenza di aggressività e di forti propensioni allo sviluppo condannano Enichem a perdere di competitività, con le conseguenze che possiamo immaginare.
Veniamo dunque al quesito principale che abbiamo di fronte.
In alcuni settori il deficit ha incrementi consistenti. Quasi 1.700 miliardi sulle plastiche, 900 sui fertilizzanti. Le fibre, che erano addirittura in attivo nel ‘93 sono passate ad un deficit di 650 miliardi.
E’ vero che si esporta anche di più, ma solo sulle commodities e con margini di remunerazione ristretti. Si importano sempre di più prodotti a maggior valore. Cresce il deficit della bilancia commerciale anche quando il fatturato delle singole imprese aumenta.
Abbiamo quindi un deficit quantitativo ma anche e sopratutto qualitativo.
Il cuore del deficit sta quindi tutto nell’incapacità di reggere il confronto sulle specialità, e quindi nell’assenza di ricerca. La ricerca chimica in Italia è del 2,49% sul fatturato, contro il 6,76% della Germania, il 6,36% della Francia, il 6,52% dell’Inghilterra. Praticamente si dedica alla ricerca 1/5 di quello che spendono gli altri paesi Europei.
Ma il confronto si fa ancora più sconfortante quando, articolando i dati, scopriamo che la spesa in ricerca della sola BAYER o della sola HOECHST supera quella totale di ricerca dell’intera industria chimica Italiana (Bayer investe in ricerca quasi 2 milioni di dollari, la Hoechst altrettanto. In tutta Italia si spendono 1,5 milioni di dollari).
La scarsa propensione ad investire in ricerca è uno dei dati più evidenti dell’assenza di strategia e della povertà a cui si condanna la Chimica Italiana.
Lo sviluppo di una chimica Italiana e di Enichem in particolare è quindi una cosa da non sottovalutare se si pensa all'importanza che ha il consumo di prodotti chimici in un paese industrializzato come il nostro e se si pensa che, avanti di questo passo, l'Italia rischia di entrare in Europa non solo senza stato sociale e pensioni, ma anche senza chimica.
Siamo infatti in presenza di impianti spesso datati, di sfide tecnologiche che riguardano sia i processi che i prodotti e che richiederanno nei prossimi anni ingenti quantità di capitale per la ricerca e per la ristrutturazione degli impianti attuali, se non addirittura per sostituirli.
Scelte necessarie per vincere la competitività indotta dalla inevitabile concorrenza e che potranno essere sostenute solo da quei gruppi che vinceranno oggi la lotta per l'acquisizione di posizione leader sul mercato, e che risulteranno sufficientemente attestati non solo nella chimica primaria ma anche e sopratutto in quella secondaria e fine e nelle specialità.
Chi non accetta questa sfida è condannato al ridimensionamento.
A questo punto è bene aprire un breve discorso sulle innovazioni in corso nell'assetto Eni.
La privatizzazione in corso, è prevista per Giugno la collocazione della terza trance delle azioni Eni sul mercato privato, coincide infatti con un riordino degli assetti.
Si è parlato da tempo dell'ipotesi di una super-AGIP. Ora si parla di super-Eni, ma la cosa non cambia.
Il cuore del discorso rimane che l'Eni si sta riorganizzando per ordinare la sua presenza al semplice controllo delle rendite petrolifere e metanifere, con forte propensione all'investimento finanziario ed immobiliare e con poche propensioni ad investire le proprie disponibilità in un progetto di sviluppo e di coordinamento industriale integrato.
Il modello che Eni persegue è quello della Exon. Vuole essere esclusivamente una azienda petrolifera, che controlla le convenzioni e le licenze per l'estrazione e la ricerca di nuovi giacimenti petroliferi e metaniferi, sganciando la propria responsabilità dalla chimica, dalla Saipem e dalla Snam Progetti.
Siamo solo all'inizio di un discorso non ancora ben conosciuto neppure a livello parlamentare e sindacale, ma sembra essersi realizzata ultimamente l'intenzione Eni di incorporare in questa super-Eni anche la chimica, ma solo ed esclusivamente la petrolchimica. Praticamente un ritorno all'Eni di Mattei, col petrolio, il metano e le attività di raffinazione ed estrazione.
Questo la dice lunga sulle grandi ipoteche che pesano anche sull'ultimo piano presentato da Enichem e spiega il carattere di sopravvivenza (e del vediamo che succede, intanto tiriamo avanti), che informa tutta la filosofia del piano.
Ecco perché tutta la questione della chimica Enichem deve coinvolgere il parlamento e l'Eni in quanto azienda ispiratrice delle grandi scelte su cui ci si sta confrontando.
Una linea di mera sopravvivenza non basta. Il rischio è che Enichem si riduca a vedersi costretta a vendere il comparto delle plastiche, delle gomme e dei poliuretani, attestandosi e ridimensionandosi solo sulle attività che AGIP considera sinergiche al ciclo della petrolchimica.
Oggi l'Enichem, libera dai problemi di indebitamento, se adeguatamente sostenuta potrebbe pensare ad importanti acquisizioni, in modo da raggiungere quell'economia di scala e quelle quote di mercato, sopratutto sulle specialità e sui materiali, che le permetterebbero di essere e rimanere tra i primi produttori Europei.
Da queste considerazioni nasce l'urgenza di sottoporre a critica l'ultimo piano Enichem.
Un piano inadeguato che nasconde una tendenza al disimpegno ed a una progressiva e rischiosa uscita di Eni dalla chimica.
Ora ci troviamo di fronte ad un passaggio delicato.
Enichem ha presentato il suo piano. Un piano criticato da molti, anche da importanti esponenti del PDS come Andrea Margheri che, sulle critiche alla strategia Enichem ha tenuto un convegno a Roma il 30 Ottobre 1996.
Ma a livello parlamentare il dibattito langue e nessuna osservazione critica sembra più sollevarsi.
La FULC Nazionale ha appena siglato il suo consenso al piano Enichem, nonostante le dure critiche avanzate fin dai primi giorni del confronto.
Non è un buon scenario quello che abbiamo di fronte. Per questo non dobbiamo far cadere la critica al piano Enichem. Non dobbiamo cessare di sottolinearne i limiti e le debolezze.
Il compito principale che abbiamo di fronte è quello di riportare ad unità il confronto sulla chimica Italiana, a partire da Enichem, rilanciando e sostenendo la necessità di una vera vertenza che sappia riaprire il dibattito sulla chimica e che sappia imporre scelte diverse da quelle sin qui adottate.