Per il convegno su

GLI INGANNI DELLO STATO SOCIALE

Sabato 21 giugno 1997 - ore 10-20 Napoli, via dei Tribunali 362, Iº piano, associazione l’Internazionale


Scheda preliminare per i compagni di associazioni,
circoli, redazioni che promuovono il convegno. Si
sottolinea qui l’ovvia attualità del tema. I tempi stretti per
l’organizzazione del convegno sono dettati dall’urgenza
dell’agenda politica: le scadenze governative accelerate,
le discussioni organizzate da quasi tutti i partiti (da Pds a
Prc, passando per An) e le tematiche stesse affrontate
dalle confederazioni sindacali (Cisl in testa).
 
 Questa scheda preliminare serve solo per definire
tematiche e modalità di svolgimento del nostro
convegno. Naturalmente essa non è vincolante in
nessuna parte e vuole unicamente aiutare a incanalare
la discussione per la preparazione dell’incontro e della
relazione introduttiva. Si propone che, nelle diverse fasi
del dibattito, la tematica del convegno copra:


 Naturalmente, lo sfondo politico è rappresentato dallo
stadio e dalla fase che via via caratterizza la lotta di
classe in relazione a tutti questi tre filoni.

 Sulla scorta di esperienze assai positive già avute, si è
pensato di svolgere il convegno come una sorta di
"tavola rotonda allargata", ossia con ripetuti interventi a
rotazione dei compagni promotori e del pubblico (un
primo ciclo di interventi di max 10 minuti ciascuno, e i
successivi di 5 minuti). Ciò al fine, positivamente
raggiunto nelle precedenti esperienze, di discutere
effettivamente rispondendo alle reciproche posizioni
esposte, senza doversi limitare semplicemente a
"prendere atto" di poche e lunghe relazioni predisposte a
tavolino.
 
 Per perseguire significativamente codesto obiettivo è
opportuno procedere su diversi piani:
  1. predisporre collettivamente una relazione introduttiva (di media lunghezza, mezz’ora circa), concordata tra tutti i promotori, e come tale concepita essenzialmente quale esposizione tematica e problematica, sulla quale poi i convenuti preciseranno le proprie posizioni e interpretazioni (di tale relazione si suggerisce qui appresso, solo per comodità, una possibile "traccia" sicuramente da integrare e anche da cambiare profondamente).
  2. sollecitare tutti i compagni di associazioni, circoli e redazioni coinvolti a produrre il materiale che ritengano idoneo e opportuno, per renderlo disponibile in occasione del convegno; può trattarsi di materiale già preesistente (articoli o libri) o elaborato per la circostanza, di cui ciascuna struttura si preoccuperà di portare copie al convegno.
  3. invitare gli stessi compagni a predisporre comunque una bibliografia ragionata di riferimento (con un minimo di sommario estratto per ogni titolo) delle posizioni da loro espresse, o da essi ritenute significative; e fornire tali riferimenti a tutti i partecipanti al convegno stesso, di certo almeno contestualmente all’incontro, ma se possibile anche in anticipo tramite i propri canali politici culturali.
  4. promuovere nel mese di giugno tutte le forme possibili di diffusione dell’iniziativa, non solo con riferimento all’appuntamento organizzativo, ma anche e soprattutto nel merito dei contenuti tematici del convegno, per far sì che i partecipanti possano intervenire già su una base in qualche modo predisposta.
Successivamente al convegno, qualora se ne ravvisi l’opportunità, si potranno pubblicare tempestivamente gli atti a cura delle edizioni di Laboratorio politico [L’organizzazione del convegno non ha un proprio "bilancio": c’è solo la possibilità di contribuire parzialmente alla stampa degli atti e, probabilmente, a qualche panino e bevanda nella giornata del convegno (questo è il motivo principale per aver concentrato l’incontro in una sola giornata, evitando pernottamenti); per il resto (soprattutto spese di viaggio, e altri costi organizzativi) ciascuna struttura partecipante provvederà di propria iniziativa]. Occorre far saltare il vecchio involucro, con la stessa violenza con cui il gambero rompe il proprio. (Friedrich Engels) Gli inganni dello stato sociale possono essere letti in diverse maniere. Due sono le principali. La prima consiste nel considerare le provvidenze di carattere sociale generale fornite dallo stato - che è e resta borghese - come una "conquista" del proletariato, tale che alcuni la ritengono preludere al socialismo; siccome nel fatto di alcuni risultati strappati con la lotta (ma non certo nei ... pezzetti di socialismo) c’è dialetticamente del vero, gli "inganni" potrebbero essere intesi come inadempienze degli obblighi statuali in tal senso, elusione ed erosione del presunti còmpiti universalistici dello stato (borghese). La seconda mette l’accento sul carattere di classe dello stato borghese e non si illude sul dichiarato universalismo dello stato stesso, al di sopra delle parti e delle classi; considera ciò come ennesima forma di occultamento ideologico nella fase dell’imperialismo; il che non esclude, ma anzi esalta, il significato delle lotte di classe che costringono il capitale a camuffare la propria prepotenza nelle sue vesti statuali; e sa che tali concessioni alla popolazione sono ben poca cosa rispetto al dovuto; perdipiù, esse sono escogitate a tutto vantaggio del mercato capitalistico; in fondo, lo stato borghese è la violenza organizzata del capitale e non potrebbe essere altrimenti; sicché gli inganni sono proprio gli "abbellimenti" che una falsa sinistra concede in regalo allo stato "sociale". La prima possibile interpretazione è quella democratica borghese, "progressista" e riformista, oggi riferibile al keynesismo; la seconda è quella comunista, in cui lo "stato sociale" è solo simulacro del salario sociale, non in senso meramente economico, ma politico, come valore della forza-lavoro di tutta la classe, da sempre riferita al marxismo. Alla luce delle più recenti involuzioni sul mercato mondiale, nella fase della prolungata crisi del processo di accumulazione capitalistico, l’invocato ridimensionamento del cosiddetto "stato sociale", testimoniato dalle uniformi direttive del Fmi, della Bm e della Ue, dà ragione alla seconda tesi. Il confronto tra opposte concezioni dello stato e la critica marxista dello stato Lo "stato, qualunque esso sia, non è libero e non è popolare" [Lenin]; questa è la premessa necessaria per considerare se esso possa essere sociale. Il cosiddetto "stato sociale", come il lassalliano "stato libero popolare", rappresenta una parola d’ordine opportunistica che, secondo Lenin, falsifica il marxismo. Ritenere che lo "stato borghese", anziché svolgere "la funzione di oppressione di una classe sull’altra", possa "soddisfare certe esigenze generali della società, è fuori della concezione marxista dello stato"; la socialdemocrazia non è l’ala destra del proletariato ma solo l’ala sinistra della borghesia (Gramsci). La classe operaia non può contentarsi di utilizzare la macchina dello stato così come la trova per condurre a buon fine i còmpiti della trasformazione socialista (Engels e Marx). Engels ribadisce la necessità di cambiar subito forma allo stato. Marx, Engels, Lenin e Gramsci sembrano riferimenti più affidabili di quanti a loro "ritornano" al fine di affossarli in un "approfondimento" che, canonizzandoli, li renda inoffensivi. Partire dalla definizione di stato nel modo di produzione capitalistico: lo stato borghese come stato del capitale. Altre specificazioni inerenti lo stato, diverse da "borghese" - democratico, sociale, libero, costituzionale, ecc. - sono aggettivi che seguono, e mai possono modificare il sostantivo, per vanificare il carattere di classe dello stato del capitale in nome di una supponente sua socialità universalistica. Tale ipostatizzazione appiattisce il processo reale, di cui è smarrita la contraddizione e la necessaria mediazione posta nell’antagonismo sociale e nella lotta di classe. La distanza tra la concezione marxista, che per qualsiasi forma di stato avutasi nella storia dell’umanità ravvisa i suoi elementi costitutivi nella struttura di dominanza gerarchica data dai rapporti di proprietà; ossia di classe, e quella liberale, che pretende di indicare lo stato stesso come super partes, mediatore e conciliatore degli interessi diversi di tutti, è incolmabile. Lo stato diventa un organo di classe; ciò si capisce considerandone l’opposta origine, allorché "la società aveva creato, a partire dalla semplice originaria divisione del lavoro, propri organi per occuparsi degli interessi comuni", ma trasformatisi poi "da servitori della società in suoi padroni" (Engels). Le tracce di ciò rimangono nella falsa coscienza comune del superstizioso idealismo dello stato. Del resto, gli stessi stati di classe investono gli interessi comuni alla ricerca di una loro legittimazione di massa. Questo intende Marx quando parla di "idealismo dello stato", oggi diventato patrimonio ideologico della "sinistra" insieme all’idea della superiorità "obiettiva" dello stato borghese e delle liberalità della democrazia, ossia di quella filantropia del capitale, che genera la "superstizione dello stato" e le "litanìe democratiche" che i "progressisti" prendono a prestito dai partiti borghesi (Marx e Engels). Marx e Engels mostrano la sostanziale identità formale, dal punto di vista liberalborghese, di "stato" e "democrazia". La critica del concetto borghese di "democrazia" coincide con la critica dello stato borghese (Lenin). La disquisizione intorno alle "differenze" empiriche e formali dei particolari assetti statuali (antico o moderno, monarchico o repubblicano, assolutista o costituzionale, autoritario o liberale, germanico o anglosassone, neoliberista o sociale, differenziandone la "complessità" di funzioni) è irrilevante, esistendo il potere del capitale nella figura politica di dittatura della borghesia. Si tratta di "forme" che, tutte adeguate alla particolare diversità storica del medesimo dominio di classe sulla base del modo di produzione dato, contingentemente "mutano con le frontiere di ogni paese". La sciocca disputa sulla presunta mancanza di una teoria marxista dello stato è antica, senza aspettare la volgarizzazione dei Dahrendorf o dei Bobbio. L’occupazione privata dello stato svela la doppiezza borghese di stornare a fini privati ciò che continua a essere denominato come "pubblico" (e, nello stesso tempo, di derubricare dall’etichetta pubblica ciò che conviene gestire apertamente e direttamente attraverso le privatizzazioni). Lenin ha osservato l’"onnipotenza della ricchezza" rispetto a qualunque forma dello stato. Engels ha avvertito sulla sistematicità della corruzione e Marx sulla violenza borghese per la conservazione del potere (il "modello inglese" non fa eccezione). L’antagonismo proletario è la necessaria conseguenza della violenza che la borghesia impiega per la conservazione del proprio stato. L’"economia nazionale" non sussiste, se non quale tendenziale mistificazione di classe, pur entro una predominanza territoriale nazionale statuale. La rappresentazione dell’"economia nazionale" quale "corpo collettivo" è da considerare una falsa astrazione, una mera parvenza, raffigurata ideologicamente dal capitale del nuovo ordine mondiale nelle forme del moderno stato corporativo o neocorporativo, comunque esso sia mascherato. La forma nazionale del capitale è una forma di passaggio (lo stesso capitale rappresenta un’"epoca di transizione"), in cui le diverse frazioni di capitale operanti su un mercato nazionale si mostrino capaci di mediare i rispettivi interessi particolari. All'istituzione di uno stato a cui è demandata l’organizzazione della forza di classe nella giurisdizione di un mercato nazionale: ciascuno stato di contro a ciascun altro. Una corrispondente mediazione giurisdizionale, istituzionale tra le singole frazioni del capitale mondiale transnazionale non è possibile storicamente, né concettualmente né praticamente, a causa della immanente concorrenzialità tra la pluralità insopprimibile di diversi centri di decisione capitalistici. Il cosiddetto nuovo ordine mondiale integra semplicemente un processo di approssimazione empirica al "governo sovranazionale" nel perdurare "residuale" di interessi locali necessariamente rappresentati dagli stati borghesi nazionali. Le decisioni sovranazionali definiscono così il carattere di subalternità del corrispondente livello decisionale nazionale. La centralizzazione gestionale degli organi esecutivi unitamente a un loro decentramento operativo trae origine da qui. La primitiva fase della sottomissione formale della vecchia configurazione istituzionale alle nuove esigenze è superata nella sua fase monopolistica transnazionale. Quest’ultima è la fase dell’adeguamento della forma-stato stessa - rispetto alla figura dello stato di diritto, nazionale e sovrano, ereditata dalla primitiva forma liberalborghese - in quanto sottomissione reale di stati e nazioni alla gerarchia del nuovo ordine imperialistico. L’odierno riassetto delle istituzioni statuali ha una sua nuova peculiare simultaneità in un accentramento forte accompagnato da un decentramento diffuso. Il "modello" è mutuato dall’organizzazione del grande capitale monopolistico finanziario transnazionale (decisioni strategiche avocate alla holding con parvenza di decentramento "partecipativo" a unità produttive di dimensioni ridotte, nell’ideologia dell’"impresa-rete"). A partire dalle forme del capitale si può comprendere criticamente la tendenza delle forme delle istituzioni, in un costante omomorfismo tra capitale e istituzioni, tra microstrutture aziendali e macrostrutture statuali e sovrastatuali: minoranze che comandano grazie a sistemi maggioritari, decentramenti operativi federati sotto il controllo centralizzato delle strutture decisionali, ecc. Le istituzioni sovranazionali sono espressione politica del grande capitale finanziario transnazionale: dopo l’intervento keynesiano del cosiddetto stato sociale, per l’uscita dalla crisi e la ripresa dell’accumulazione, adesso nella crisi prevale la "deregolamentazione" degli stati coordinati a quelle istituzioni sovranazionali, chiamate a mediare tra gli interessi reciprocamente conflittuali dei capitalisti transnazionali e tra questi e i perduranti interessi localistici "nazionali" incorporati nei rispettivi stati. Le restrizioni dell’intervento "sociale" dello stato nazionale, in tutto il mondo, sono conseguenza di codesta crisi. La storia, simulata come "sociale", dello stato borghese Al cospetto della deregolamentazione, le pregresse concessioni di massa, come risultati molto parziali di decenni di lotte di classe, cui era pervenuto lo "stato sociale" dell’epoca keynesiana ad alcuni sembrano il "socialismo". Ma non si confonda questa lettura antagonistica con un inesistente progetto socialista autonomamente interno alla logica dello stato dell’imperialismo multinazionale keynesiano, logica cresciuta dal "socialismo anti-marxista" del proudhoniano austriaco Silvio Gesell, e dal fabianesimo del lib-lab Sidney Webb che propugnò per primo sistematicamente l’assistenzialismo pubblico quale cardine del futuro "welfare state", come prodromi del cosiddetto "stato sociale", dopo Lassalle, Bismarck (il pre-corporativismo bismarckiano è il solco in cui è gettato il seme del cosiddetto "stato sociale" keynesiano), e il revisionismo della seconda Internazionale. Lo stato da riformare, da rendere sociale, è sostituito da una sua metafora mistificata; l’economia del capitale viene presentata come qualcosa di armonico: l’ideologia della Grande Corporazione. Marx definiva la gestione burocratica dello stato come "formalismo di stato", lo stato immaginario di contro allo stato reale, lo stato che, in quanto formalismo, eleva a proprio contenuto solo il nome dell’istituzione astrattamente preposta all’interesse comune: col "cretinismo parlamentare", l’amministrazione generale degli interessi di tutta la classe è al di sopra, sì, degli interessi particolari delle singole corporazioni, ma non dell’intera società. Quelle corporazioni appaiono allora come burocrazie imperfette. La burocrazia dello stato privatizzato sostituisce e coordina quegli interessi particolari, restaurando una forma neocorporativa superiore, quale burocrazia perfetta (Marx). Il "formalismo di stato", lo stato come perfetta burocrazia neocorporativa, è la forma istituzionale più pericolosa verso cui naviga l’intero sistema imperialistico sovranazionale, capace di saldare in un disegno dispotico e contraddittorio le alterne tendenze borghesi. Il corporativismo, vecchio e nuovo, è il necessario punto d’approdo dello stato borghese contemporaneo, nel mercato mondiale del capitale transnazionale. La maldestra costruzione keynesiana può essere considerata la più cospicua esperienza concettuale e operativa per il perseguimento di tale obiettivo. Anche nel new deal rooseveltiano (a detta degli stessi keynesiani) "fu soltanto la spesa monetaria enormemente accresciuta per la seconda guerra mondiale che finalmente curò la grande depressione": finché c’è guerra c’è speranza, è il motto del capitale che si fa stato. Il fallimento keynesiano del cosiddetto stato sociale mette allo scoperto la mistificazione pubblica dell’interesse privato dello stato a-sociale del capitale, in tutta la sua capacità di dominio imperialistico. Nel rapporto tra il privato e il pubblico, l’occupazione privata dello stato da parte della borghesia si mostra in quelle sfere in cui essa ha convenienza a conservare l’apparenza, se non addirittura la parvenza, della forma "pubblica", come per la gestione del debito pubblico, che è "credito" dei privati, ossia l’alienazione dello stato ai privati stessi (Marx). Nel "controllo comune", o non, dei mezzi di produzione da parte dei produttori risiede la contraddizione del nesso sostanziale tra pubblico e privato, che è realmente quello tra socializzazione e privatizzazione. Del resto, la storia ha ampiamente insegnato come la difesa del "pubblico" quale "formalismo di stato" abbia causato fenomeni di stagnazione e arretramento della base materiale del modo di produzione. Un malinteso statalismo presenta come "socialisti" progetti di monopolio statale (come forma di "socialismo di stato" alla Jaurès o alla Bismarck). Il governo dello stato borghese è il comitato esecutivo della maggioranza parlamentare che rappresenta gli speculatori di ogni risma. Mettere a loro disposizione svariati miliardi e affidare a costoro il credito nazionale, significa solo regalar loro nuovi mezzi per vuotare le tasche della popolazione ancora più a fondo e per depredare la ricchezza della nazione, dando loro il controllo delle finanze pubbliche. E tutto questo in nome e "per mezzo del socialismo di stato!, un socialismo di stato che rappresenta una delle malattie infantili del socialismo proletario". Del resto "la repubblica borghese è la repubblica degli uomini d’affari, dove la politica non è che un affare commerciale tra gli altri" (Engels). Se lo stato non è sotto il potere del popolo anche la statalizzazione diventa un dogma (Marx). La contesa tra pubblico e privato è riemersa con la deregolamentazione del cosiddetto "meno stato, più mercato", in cui i signori del denaro sono i protagonisti assoluti. Lo "stato", nella sua accezione formale, non basta più, e serve assoggettarlo maggiormente alla libertà del denaro, per cui il bilancio pubblico allargato non diminuisce affatto, ma aumenta con il disavanzo. Ciò che muta radicalmente è la composizione della spesa e quella del disavanzo che viene sempre più spostata verso gli oneri del debito pubblico e del pagamento degli interessi passivi, del finanziamento, diretto o occulto, di attività industriali e appalti, a scapito degli interventi per la società. Qui si inscrive la crisi del cosiddetto "stato sociale" di derivazione keynesiana. Ed è qui che la sinistra eclettica, non di classe, di fronte a codesto attacco ha rilasciato un’indebita patente di democraticità popolare al keynesismo. Di recente si è sentito dire che "lo stato sociale si cambia, non si abbatte". Lenin diceva: "lo stato borghese si abbatte, non si cambia" (precisando bene il "borghese", giacché per lo stato in generale non ci può essere "soppressione", ma solo "estinzione" in uno con le classi). Sicché le possibilità sono due: o, si pensa, lo stato sociale non è borghese; o, da parte di chi ha manifestato quella recente opinione, non si segue teoricamente e politicamente né Lenin né Gramsci, né Marx né Engels. La seconda ipotesi è la più probabile. La contrapposizione antagonistica, nella crisi, tra "stato sociale" e salario sociale Le mistificazioni che specificamente riguardano il cosiddetto "stato sociale" e il suo illusorio modo di operare si chiariscono meglio nella fase di crisi, per la sua funzionalità rispetto al ciclo del capitale. Nella fase del ciclo di accumulazione che precede non immediatamente lo scoppio della crisi da sovraproduzione, che però è ancora una fase di espansione, si suol dire che vi è "carenza di domanda". Detto meglio, ciò significa che il capitale non trova più, così facilmente come prima, occasioni di investimento profittevole: l’estrazione di plusvalore si fa più ardua. In tale fase l’intervento richiesto dal capitale allo stato ha due facce.
  1. In attesa di rifugiarsi nella speculazione pura, l’imperialismo in pre-crisi, all’esportazione di capitale, associa lo sviluppo artificiale della "domanda" interna per il tramite dello stato. Si dà così alla società solo ciò che può rientrare, valorizzato, nei conti del capitale: purché la spesa pubblica dia profitto, tutto può andar bene dalle strade (come già insegnava Marx) alle medicine, dai libri alle armi, ecc.; di qui appalti, commesse, tangenti e corruzione, che non sono l’eccezione ma la regola dello stato borghese, sociale o meno. Il capitale interviene solo quando si valorizza, cioè quando il prodotto in questione "rende". Altrimenti esso scarica l’onere sul suo stato, il quale a sua volta possa fare pagare le spese coattivamente come sovraimposte alla collettività (mediante tasse o debito pubblico, il che è lo stesso).
  2. Lo stato, inoltre, fa recuperare indirettamente al capitale quote di plusvalore dal lato dei costi di produzione. Oltre che per il tramite di finanziamenti agevolati e tariffe preferenziali (energia, telecomunicazioni, ecc.), ciò avviene in particolare e soprattutto sul cosiddetto "costo del lavoro", o meglio sul salario sociale della forza-lavoro nelle sue componenti indiretta (forme varie di assistenza) e differita (forme varie di previdenza). Questo è il luogo d’elezione degli interventi del cosiddetto stato sociale, perché nella fase della crescita capitalistica che precede la saturazione critica, anche la popolazione lavoratrice si avvicina alla saturazione occupazionale, ciò che implica una corrispondente crescita del "costo del lavoro". Lo stato del capitale è perciò chiamato a pagare quelle componenti del salario di classe che figurano come quota "sociale", alleviando i conti del capitale.
In effetti, lo stato appare nella sua finzione di socialità universalistica, fornendo alla società civile "servizi" gratuiti o semi-gratuiti, che altrimenti dovrebbero essere comprati e pagati con reddito, e con reddito salariale in particolare. Ciò costituirebbe un onere certo per i capitalisti compratori di forza-lavoro. La parvenza sociale dello stato borghese si svela semplicemente constatando quale sia la fonte di finanziamento di quei servizi: ossia, la sua capacità di superimposizione fiscale generale, la quale, com’è noto, in un sistema capitalistico imperialistico, incide per il 90% sui redditi da lavoro, soprattutto dipendente (anche con crescenti imposte indirette). Pagare la produzione di questi valori d’uso collettivi (servizi) con reddito anziché direttamente con capitale, osserva Marx, non è segno di progresso ma di arretratezza. Tutto ciò vuol dire che le quote salariali che i capitalisti risparmiano grazie allo stato "sociale" sono pagate dagli altri lavoratori, mediante un trasferimento coatto interno al monte salari: salario sociale è e salario sociale rimane. Quanto si è voluto "dare" con apparente generosità in fase di espansione, non si esita a "togliere" con ancor maggiore facilità quando occorra ridurre i costi generali della produzione capitalistica. Le quote del salario sociale, indiretta e differita, di fronte all’espandersi della sovrapopolazione relativa e all’aumento dell’esercito industriale di riserva (soprattutto nella sua forma "stagnante"), sono le prime e più facili da tagliare. Questa è la presunta "crisi dello stato sociale", forma peculiare in cui si presenta la crisi generale da sovraproduzione. Il salario diretto, o busta-paga, riguardando i lavoratori occupati, viene ridotto sùbito dopo che i lavoratori stessi siano stati colpiti "socialmente" insieme a disoccupati e sottoccupati, precari e marginali. L’imperialismo in sovraproduzione trasforma così, a proprio vantaggio, la crisi di capitale in crisi di lavoro. E poiché, nonostante tutto e nonostante le sue origini, l’aspetto antitetico dello stato "sociale" è radicato nelle conquiste parziali della lotta di classe del proletariato e dei suoi alleati, la sua sconfitta significa anche realmente la fine o quanto meno la retrocessione di quelle conquiste. Per il proletariato tutto, è il simulacro del salario sociale che viene chiamato "stato sociale", altrimenti detto "stato del benessere" (che si riduce poi a mercato del benessere: da welfare state a welfare market, dicono). La mediazione col proletariato, che mai c’è realmente, sembra cessare di colpo, e la contraddizione tra valore d’uso dei servizi sociali e loro valore di scambio come merci riemerge prepotente. L’ignoranza di tale contraddizione sta al fondo anche di tutte le ambiguità del cosiddetto "privato sociale", dal "volontariato" ai supponenti "lavori socialmente utili" e quant’altro ci sia di non-mercantile, non chiaramente compreso quale surrogato borghese di una risposta che il capitale dà attraverso il "suo" stato, usato come ammortizzatore e normalizzatore del conflitto sociale. Le direttive del Fmi in materia di restrizioni allo "stato sociale" sono perciò comuni a tutti i paesi a regime capitalistico, cioè praticamente a tutto il mondo: si differenziano solo le circostanze e le modalità d’attuazione, necessariamente difformi, a es., tra Usa e Malesia. Nell’Italia contemporanea il punto d’approdo è il cosiddetto "protocollo del 3 luglio 1993", che rappresenta una sorta di "programma sociale" della borghesia, di cui il sindacato e il partito "operaio borghese" (per dirla con Engels) ne sono i principali fautori e portavoce: "questa specie di democraticismo confinato entro i limiti di ciò che è permesso dalla polizia e non è permesso dalla logica" Marx). Marx e Engels incitano il proletariato a non comportarsi "decentemente", come un branco di pecore ben pasciute per lasciar tranquillo il governo, temere la polizia, rispettare le leggi, e fornire senza lagnarsi la carne da cannone. All’opposto, avversando l’ipocrisia ripugnante della "rispettabilità borghese penetrata nella carne e nel sangue degli operai" (come scriveva Engels a Sorge), avvertivano di non nascondersi la possibilità che i nuovi eletti in parlamento, nelle liste del "partito operaio", che hanno di fronte cinque anni di legislatura, "possano venire a patti col governo, che con un poco di dolce violenza potrebbe riuscire a far votare un compromesso". Rispetto alla mistificazione di "socialità" del capitale, la lotta politica si rivolge contro lo stato borghese per strappare "concessioni". Solo un "acconto", è qualsiasi riforma alla quale sia costretta la borghesia a séguito delle lotte del proletariato (Engels). Engels insiste particolarmente anche sulla denuncia di come si sia accresciuta la pressione sui lavoratori di tutte le classi: non è solo il proletariato a subire il potere della borghesia monopolistica finanziaria, ma artigiani, contadini e piccoli commercianti sono rovinati dal grande capitale; cosicché insieme a impiegati, operai, braccianti, ecc., tutti cominciano a sentire la pressione dell’attuale sistema di produzione capitalistico. Per questo, diceva, per non farli cadere facile preda della reazione, del qualunquismo o del riformismo, occorre additare loro una via d’uscita scientificamente fondata. Al volontarismo dell’immediatezza e all’idealismo rivoluzionario, tipici della piccola borghesia, si contrappone l’inevitabilità oggettiva e materiale di una guerra di classe di lunga durata. Nelle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico il partito comunista non può andare al governo, neppure nella migliore delle ipotesi, se non snaturandosi e abbandonando i propri obiettivi: rimane la proficuità di una forte opposizione allo stato borghese, che esso sia sociale oppure no (Marx). La Scheda preliminare è stata inviata a tutti i promotori del convegno: Comunismo in/formazione con Bandiera rossa, Betelli Dalmine, Cattivi Maestri, la Contraddizione, Contropiano, Coordinamento Nazionale Rsu, Cub scuola Venezia, l’Internazionale, Invarianti, Laboratorio politico, Laboratorio marxista Parma, il Lavoratore, Progetto comunista, Proposta comunista, Puntorosso Jesi, Puntorosso Vicenza, Radio cittaperta Roma, Rdb, Sin-cobas, Vis-à-vis. Attendiamo le vostre valutazioni, integrazioni, modifiche, ecc. Esse potranno essere inviate, presso l’associazione la Contraddizione, al seguente fax.06.287190070, oppure alle seguente casella di posta elettronica, contrad@iol.it