Per il convegno su
GLI INGANNI DELLO STATO SOCIALE
Sabato 21 giugno 1997 - ore 10-20
Napoli, via dei Tribunali 362, Iº piano, associazione
l’Internazionale
Scheda preliminare per i compagni di associazioni,
circoli, redazioni che promuovono il convegno. Si
sottolinea qui l’ovvia attualità del tema. I tempi stretti per
l’organizzazione del convegno sono dettati dall’urgenza
dell’agenda politica: le scadenze governative accelerate,
le discussioni organizzate da quasi tutti i partiti (da Pds a
Prc, passando per An) e le tematiche stesse affrontate
dalle confederazioni sindacali (Cisl in testa).
Questa scheda preliminare serve solo per definire
tematiche e modalità di svolgimento del nostro
convegno. Naturalmente essa non è vincolante in
nessuna parte e vuole unicamente aiutare a incanalare
la discussione per la preparazione dell’incontro e della
relazione introduttiva. Si propone che, nelle diverse fasi
del dibattito, la tematica del convegno copra:
- un confronto (quasi preliminare) di carattere teorico
sulla teoria generale dello stato (la concezione marxista
in contrapposizione a quella borghese);
- uno svolgimento storico delle forme di intervento
"sociale" dello stato borghese (da Bismarck
e dal corporativismo, al "welfare state" e al
keynesismo);
- e un aspetto attuale sulle politiche di restrizione di
tale intervento "sociale" dello stato (a partire
dalle strategie dell’imperialismo transnazionale indicate
tramite il Fmi).
Naturalmente, lo sfondo politico è rappresentato dallo
stadio e dalla fase che via via caratterizza la lotta di
classe in relazione a tutti questi tre filoni.
Sulla scorta di esperienze assai positive già avute, si è
pensato di svolgere il convegno come una sorta di
"tavola rotonda allargata", ossia con ripetuti interventi a
rotazione dei compagni promotori e del pubblico (un
primo ciclo di interventi di max 10 minuti ciascuno, e i
successivi di 5 minuti). Ciò al fine, positivamente
raggiunto nelle precedenti esperienze, di discutere
effettivamente rispondendo alle reciproche posizioni
esposte, senza doversi limitare semplicemente a
"prendere atto" di poche e lunghe relazioni predisposte a
tavolino.
Per perseguire significativamente codesto obiettivo è
opportuno procedere su diversi piani:
- predisporre collettivamente una relazione
introduttiva (di media lunghezza, mezz’ora circa),
concordata tra tutti i promotori, e come tale concepita
essenzialmente quale esposizione tematica e
problematica, sulla quale poi i convenuti preciseranno le
proprie posizioni e interpretazioni (di tale relazione si
suggerisce qui appresso, solo per comodità, una
possibile "traccia" sicuramente da integrare e anche da
cambiare profondamente).
- sollecitare tutti i compagni di associazioni, circoli
e redazioni coinvolti a produrre il materiale che
ritengano idoneo e opportuno, per renderlo disponibile in
occasione del convegno; può trattarsi di materiale già
preesistente (articoli o libri) o elaborato per la
circostanza, di cui ciascuna struttura si preoccuperà di
portare copie al convegno.
- invitare gli stessi compagni a predisporre
comunque una bibliografia ragionata di riferimento (con
un minimo di sommario estratto per ogni titolo) delle
posizioni da loro espresse, o da essi ritenute
significative; e fornire tali riferimenti a tutti i
partecipanti al convegno stesso, di certo almeno
contestualmente all’incontro, ma se possibile anche in
anticipo tramite i propri canali politici culturali.
- promuovere nel mese di giugno tutte le forme
possibili di diffusione dell’iniziativa, non solo con
riferimento all’appuntamento organizzativo, ma anche e
soprattutto nel merito dei contenuti tematici del
convegno, per far sì che i partecipanti possano
intervenire già su una base in qualche modo
predisposta.
Successivamente al convegno, qualora se ne ravvisi
l’opportunità, si potranno pubblicare tempestivamente
gli atti a cura delle edizioni di Laboratorio politico
[L’organizzazione del convegno non ha un proprio
"bilancio": c’è solo la possibilità di contribuire
parzialmente alla stampa degli atti e, probabilmente, a
qualche panino e bevanda nella giornata del convegno
(questo è il motivo principale per aver concentrato
l’incontro in una sola giornata, evitando pernottamenti);
per il resto (soprattutto spese di viaggio, e altri costi
organizzativi) ciascuna struttura partecipante provvederà
di propria iniziativa].
Occorre far saltare il vecchio involucro,
con la stessa violenza con cui il gambero rompe il
proprio.
(Friedrich Engels)
Gli inganni dello stato sociale possono essere letti in
diverse maniere. Due sono le principali.
La prima consiste nel considerare le provvidenze di
carattere sociale generale fornite dallo stato - che è e
resta borghese - come una "conquista" del proletariato,
tale che alcuni la ritengono preludere al socialismo;
siccome nel fatto di alcuni risultati strappati con la lotta
(ma non certo nei ... pezzetti di socialismo) c’è
dialetticamente del vero, gli "inganni" potrebbero essere
intesi come inadempienze degli obblighi statuali in tal
senso, elusione ed erosione del presunti còmpiti
universalistici dello stato (borghese).
La seconda mette l’accento sul carattere di classe dello
stato borghese e non si illude sul dichiarato
universalismo dello stato stesso, al di sopra delle parti e
delle classi; considera ciò come ennesima forma di
occultamento ideologico nella fase dell’imperialismo; il
che non esclude, ma anzi esalta, il significato delle lotte
di classe che costringono il capitale a camuffare la
propria prepotenza nelle sue vesti statuali; e sa che tali
concessioni alla popolazione sono ben poca cosa
rispetto al dovuto; perdipiù, esse sono escogitate a tutto
vantaggio del mercato capitalistico; in fondo, lo stato
borghese è la violenza organizzata del capitale e non
potrebbe essere altrimenti; sicché gli inganni sono
proprio gli "abbellimenti" che una falsa sinistra concede
in regalo allo stato "sociale".
La prima possibile interpretazione è quella democratica
borghese, "progressista" e riformista, oggi riferibile al
keynesismo; la seconda è quella comunista, in cui lo
"stato sociale" è solo simulacro del salario sociale, non in
senso meramente economico, ma politico, come valore
della forza-lavoro di tutta la classe, da sempre riferita al
marxismo.
Alla luce delle più recenti involuzioni sul mercato
mondiale, nella fase della prolungata crisi del processo
di accumulazione capitalistico, l’invocato
ridimensionamento del cosiddetto "stato sociale",
testimoniato dalle uniformi direttive del Fmi, della Bm e
della Ue, dà ragione alla seconda tesi.
Il confronto tra opposte concezioni dello stato e la critica
marxista dello stato
Lo "stato, qualunque esso sia, non è libero e non è
popolare" [Lenin]; questa è la premessa necessaria per
considerare se esso possa essere sociale.
Il cosiddetto "stato sociale", come il lassalliano "stato
libero popolare", rappresenta una parola d’ordine
opportunistica che, secondo Lenin, falsifica il marxismo.
Ritenere che lo "stato borghese", anziché svolgere "la
funzione di oppressione di una classe sull’altra", possa
"soddisfare certe esigenze generali della società, è fuori
della concezione marxista dello stato"; la
socialdemocrazia non è l’ala destra del proletariato ma
solo l’ala sinistra della borghesia (Gramsci).
La classe operaia non può contentarsi di utilizzare la
macchina dello stato così come la trova per condurre a
buon fine i còmpiti della trasformazione socialista
(Engels e Marx). Engels ribadisce la necessità di
cambiar subito forma allo stato.
Marx, Engels, Lenin e Gramsci sembrano riferimenti più
affidabili di quanti a loro "ritornano" al fine di
affossarli in un "approfondimento" che,
canonizzandoli, li renda inoffensivi.
Partire dalla definizione di stato nel modo di produzione
capitalistico: lo stato borghese come stato del capitale.
Altre specificazioni inerenti lo stato, diverse da
"borghese" - democratico, sociale, libero, costituzionale,
ecc. - sono aggettivi che seguono, e mai possono
modificare il sostantivo, per vanificare il carattere di
classe dello stato del capitale in nome di una
supponente sua socialità universalistica.
Tale ipostatizzazione appiattisce il processo reale, di cui
è smarrita la contraddizione e la necessaria mediazione
posta nell’antagonismo sociale e nella lotta di classe.
La distanza tra la concezione marxista, che per qualsiasi
forma di stato avutasi nella storia dell’umanità ravvisa i
suoi elementi costitutivi nella struttura di dominanza
gerarchica data dai rapporti di proprietà ossia di classe,
e quella liberale, che pretende di indicare lo stato stesso
come super partes, mediatore e conciliatore degli
interessi diversi di tutti, è incolmabile.
Lo stato diventa un organo di classe; ciò si capisce
considerandone l’opposta origine, allorché "la società
aveva creato, a partire dalla semplice originaria
divisione del lavoro, propri organi per occuparsi degli
interessi comuni", ma trasformatisi poi "da servitori della
società in suoi padroni" (Engels).
Le tracce di ciò rimangono nella falsa coscienza comune
del superstizioso idealismo dello stato. Del resto, gli
stessi stati di classe investono gli interessi comuni alla
ricerca di una loro legittimazione di massa.
Questo intende Marx quando parla di "idealismo dello
stato", oggi diventato patrimonio ideologico della
"sinistra" insieme all’idea della superiorità "obiettiva"
dello stato borghese e delle liberalità della democrazia,
ossia di quella filantropia del capitale, che genera la
"superstizione dello stato" e le "litanìe democratiche" che
i "progressisti" prendono a prestito dai partiti borghesi
(Marx e Engels).
Marx e Engels mostrano la sostanziale identità formale,
dal punto di vista liberalborghese, di "stato" e
"democrazia". La critica del concetto borghese di
"democrazia" coincide con la critica dello stato borghese
(Lenin).
La disquisizione intorno alle "differenze" empiriche e
formali dei particolari assetti statuali (antico o moderno,
monarchico o repubblicano, assolutista o costituzionale,
autoritario o liberale, germanico o anglosassone,
neoliberista o sociale, differenziandone la "complessità"
di funzioni) è irrilevante, esistendo il potere del capitale
nella figura politica di dittatura della borghesia.
Si tratta di "forme" che, tutte adeguate alla particolare
diversità storica del medesimo dominio di classe sulla
base del modo di produzione dato, contingentemente
"mutano con le frontiere di ogni paese".
La sciocca disputa sulla presunta mancanza di una
teoria marxista dello stato è antica, senza aspettare la
volgarizzazione dei Dahrendorf o dei Bobbio.
L’occupazione privata dello stato svela la doppiezza
borghese di stornare a fini privati ciò che continua a
essere denominato come "pubblico" (e, nello stesso
tempo, di derubricare dall’etichetta pubblica ciò che
conviene gestire apertamente e direttamente attraverso
le privatizzazioni).
Lenin ha osservato l’"onnipotenza della ricchezza"
rispetto a qualunque forma dello stato. Engels ha
avvertito sulla sistematicità della corruzione e Marx sulla
violenza borghese per la conservazione del potere (il
"modello inglese" non fa eccezione).
L’antagonismo proletario è la necessaria conseguenza
della violenza che la borghesia impiega per la
conservazione del proprio stato.
L’"economia nazionale" non sussiste, se non quale
tendenziale mistificazione di classe, pur entro una
predominanza territoriale nazionale statuale. La
rappresentazione dell’"economia nazionale" quale "corpo
collettivo" è da considerare una falsa astrazione, una
mera parvenza, raffigurata ideologicamente dal capitale
del nuovo ordine mondiale nelle forme del moderno
stato corporativo o neocorporativo, comunque esso sia
mascherato.
La forma nazionale del capitale è una forma di
passaggio (lo stesso capitale rappresenta un’"epoca di
transizione"), in cui le diverse frazioni di capitale
operanti su un mercato nazionale si mostrino capaci di
mediare i rispettivi interessi particolari. All'istituzione
di uno stato a cui è demandata l’organizzazione della
forza di classe nella giurisdizione di un mercato
nazionale: ciascuno stato di contro a ciascun altro.
Una corrispondente mediazione giurisdizionale,
istituzionale tra le singole frazioni del capitale mondiale
transnazionale non è possibile storicamente, né
concettualmente né praticamente, a causa della
immanente concorrenzialità tra la pluralità insopprimibile
di diversi centri di decisione capitalistici.
Il cosiddetto nuovo ordine mondiale integra
semplicemente un processo di approssimazione
empirica al "governo sovranazionale" nel perdurare
"residuale" di interessi locali necessariamente
rappresentati dagli stati borghesi nazionali. Le decisioni
sovranazionali definiscono così il carattere di
subalternità del corrispondente livello decisionale
nazionale.
La centralizzazione gestionale degli organi esecutivi
unitamente a un loro decentramento operativo trae
origine da qui. La primitiva fase della sottomissione
formale della vecchia configurazione istituzionale alle
nuove esigenze è superata nella sua fase monopolistica
transnazionale. Quest’ultima è la fase dell’adeguamento
della forma-stato stessa - rispetto alla figura dello stato
di diritto, nazionale e sovrano, ereditata dalla primitiva
forma liberalborghese - in quanto sottomissione reale di
stati e nazioni alla gerarchia del nuovo ordine
imperialistico.
L’odierno riassetto delle istituzioni statuali ha una sua
nuova peculiare simultaneità in un accentramento forte
accompagnato da un decentramento diffuso. Il "modello"
è mutuato dall’organizzazione del grande capitale
monopolistico finanziario transnazionale (decisioni
strategiche avocate alla holding con parvenza di
decentramento "partecipativo" a unità produttive di
dimensioni ridotte, nell’ideologia dell’"impresa-rete").
A partire dalle forme del capitale si può comprendere
criticamente la tendenza delle forme delle istituzioni, in
un costante omomorfismo tra capitale e istituzioni, tra
microstrutture aziendali e macrostrutture statuali e
sovrastatuali: minoranze che comandano grazie a
sistemi maggioritari, decentramenti operativi federati
sotto il controllo centralizzato delle strutture decisionali,
ecc.
Le istituzioni sovranazionali sono espressione politica
del grande capitale finanziario transnazionale: dopo
l’intervento keynesiano del cosiddetto stato sociale, per
l’uscita dalla crisi e la ripresa dell’accumulazione, adesso
nella crisi prevale la "deregolamentazione" degli stati
coordinati a quelle istituzioni sovranazionali, chiamate a
mediare tra gli interessi reciprocamente conflittuali dei
capitalisti transnazionali e tra questi e i perduranti
interessi localistici "nazionali" incorporati nei rispettivi
stati.
Le restrizioni dell’intervento "sociale" dello stato
nazionale, in tutto il mondo, sono conseguenza di
codesta crisi.
La storia, simulata come "sociale", dello stato borghese
Al cospetto della deregolamentazione, le pregresse
concessioni di massa, come risultati molto parziali di
decenni di lotte di classe, cui era pervenuto lo "stato
sociale" dell’epoca keynesiana ad alcuni sembrano il
"socialismo". Ma non si confonda questa lettura
antagonistica con un inesistente progetto socialista
autonomamente interno alla logica dello stato
dell’imperialismo multinazionale keynesiano, logica
cresciuta dal "socialismo anti-marxista" del
proudhoniano austriaco Silvio Gesell, e dal fabianesimo
del lib-lab Sidney Webb che propugnò per primo
sistematicamente l’assistenzialismo pubblico quale
cardine del futuro "welfare state", come prodromi del
cosiddetto "stato sociale", dopo Lassalle, Bismarck (il
pre-corporativismo bismarckiano è il solco in cui è
gettato il seme del cosiddetto "stato sociale"
keynesiano), e il revisionismo della seconda
Internazionale.
Lo stato da riformare, da rendere sociale, è sostituito da
una sua metafora mistificata; l’economia del capitale
viene presentata come qualcosa di armonico: l’ideologia
della Grande Corporazione.
Marx definiva la gestione burocratica dello stato come
"formalismo di stato", lo stato immaginario di contro allo
stato reale, lo stato che, in quanto formalismo, eleva a
proprio contenuto solo il nome dell’istituzione
astrattamente preposta all’interesse comune: col
"cretinismo parlamentare", l’amministrazione generale
degli interessi di tutta la classe è al di sopra, sì, degli
interessi particolari delle singole corporazioni, ma non
dell’intera società. Quelle corporazioni appaiono allora
come burocrazie imperfette. La burocrazia dello stato
privatizzato sostituisce e coordina quegli interessi
particolari, restaurando una forma neocorporativa
superiore, quale burocrazia perfetta (Marx).
Il "formalismo di stato", lo stato come perfetta burocrazia
neocorporativa, è la forma istituzionale più pericolosa
verso cui naviga l’intero sistema imperialistico
sovranazionale, capace di saldare in un disegno
dispotico e contraddittorio le alterne tendenze borghesi.
Il corporativismo, vecchio e nuovo, è il necessario punto
d’approdo dello stato borghese contemporaneo, nel
mercato mondiale del capitale transnazionale. La
maldestra costruzione keynesiana può essere
considerata la più cospicua esperienza concettuale e
operativa per il perseguimento di tale obiettivo.
Anche nel new deal rooseveltiano (a detta degli stessi
keynesiani) "fu soltanto la spesa monetaria
enormemente accresciuta per la seconda guerra
mondiale che finalmente curò la grande depressione":
finché c’è guerra c’è speranza, è il motto del capitale che
si fa stato. Il fallimento keynesiano del cosiddetto stato
sociale mette allo scoperto la mistificazione pubblica
dell’interesse privato dello stato a-sociale del capitale, in
tutta la sua capacità di dominio imperialistico.
Nel rapporto tra il privato e il pubblico, l’occupazione
privata dello stato da parte della borghesia si mostra in
quelle sfere in cui essa ha convenienza a conservare
l’apparenza, se non addirittura la parvenza, della forma
"pubblica", come per la gestione del debito pubblico, che
è "credito" dei privati, ossia l’alienazione dello stato ai
privati stessi (Marx).
Nel "controllo comune", o non, dei mezzi di produzione
da parte dei produttori risiede la contraddizione del
nesso sostanziale tra pubblico e privato, che è realmente
quello tra socializzazione e privatizzazione. Del resto, la
storia ha ampiamente insegnato come la difesa del
"pubblico" quale "formalismo di stato" abbia causato
fenomeni di stagnazione e arretramento della base
materiale del modo di produzione.
Un malinteso statalismo presenta come "socialisti"
progetti di monopolio statale (come forma di "socialismo
di stato" alla Jaurès o alla Bismarck). Il governo dello
stato borghese è il comitato esecutivo della maggioranza
parlamentare che rappresenta gli speculatori di ogni
risma. Mettere a loro disposizione svariati miliardi e
affidare a costoro il credito nazionale, significa solo
regalar loro nuovi mezzi per vuotare le tasche della
popolazione ancora più a fondo e per depredare la
ricchezza della nazione, dando loro il controllo delle
finanze pubbliche. E tutto questo in nome e "per mezzo
del socialismo di stato!, un socialismo di stato che
rappresenta una delle malattie infantili del socialismo
proletario". Del resto "la repubblica borghese è la
repubblica degli uomini d’affari, dove la politica non è
che un affare commerciale tra gli altri" (Engels).
Se lo stato non è sotto il potere del popolo anche la
statalizzazione diventa un dogma (Marx). La contesa tra
pubblico e privato è riemersa con la deregolamentazione
del cosiddetto "meno stato, più mercato", in cui i signori
del denaro sono i protagonisti assoluti. Lo "stato", nella
sua accezione formale, non basta più, e serve
assoggettarlo maggiormente alla libertà del denaro, per
cui il bilancio pubblico allargato non diminuisce affatto,
ma aumenta con il disavanzo. Ciò che muta
radicalmente è la composizione della spesa e quella del
disavanzo che viene sempre più spostata verso gli oneri
del debito pubblico e del pagamento degli interessi
passivi, del finanziamento, diretto o occulto, di attività
industriali e appalti, a scapito degli interventi per la
società. Qui si inscrive la crisi del cosiddetto "stato
sociale" di derivazione keynesiana. Ed è qui che la
sinistra eclettica, non di classe, di fronte a codesto
attacco ha rilasciato un’indebita patente di democraticità
popolare al keynesismo.
Di recente si è sentito dire che "lo stato sociale si
cambia, non si abbatte". Lenin diceva: "lo stato borghese
si abbatte, non si cambia" (precisando bene il
"borghese", giacché per lo stato in generale non ci può
essere "soppressione", ma solo "estinzione" in uno con le
classi). Sicché le possibilità sono due: o, si pensa, lo
stato sociale non è borghese; o, da parte di chi ha
manifestato quella recente opinione, non si segue
teoricamente e politicamente né Lenin né Gramsci, né
Marx né Engels. La seconda ipotesi è la più probabile.
La contrapposizione antagonistica, nella crisi, tra "stato
sociale" e salario sociale
Le mistificazioni che specificamente riguardano il
cosiddetto "stato sociale" e il suo illusorio modo di
operare si chiariscono meglio nella fase di crisi, per la
sua funzionalità rispetto al ciclo del capitale. Nella fase
del ciclo di accumulazione che precede non
immediatamente lo scoppio della crisi da
sovraproduzione, che però è ancora una fase di
espansione, si suol dire che vi è "carenza di domanda".
Detto meglio, ciò significa che il capitale non trova più,
così facilmente come prima, occasioni di investimento
profittevole: l’estrazione di plusvalore si fa più ardua. In
tale fase l’intervento richiesto dal capitale allo stato ha
due facce.
- In attesa di rifugiarsi nella speculazione pura,
l’imperialismo in pre-crisi, all’esportazione di capitale,
associa lo sviluppo artificiale della "domanda" interna
per il tramite dello stato. Si dà così alla società
solo ciò che può rientrare, valorizzato, nei conti
del capitale: purché la spesa pubblica dia profitto,
tutto può andar bene dalle strade (come già insegnava
Marx) alle medicine, dai libri alle armi, ecc.; di qui
appalti, commesse, tangenti e corruzione, che non sono
l’eccezione ma la regola dello stato borghese, sociale o
meno. Il capitale interviene solo quando si valorizza,
cioè quando il prodotto in questione "rende". Altrimenti
esso scarica l’onere sul suo stato, il quale a sua volta
possa fare pagare le spese coattivamente come
sovraimposte alla collettività (mediante tasse o debito
pubblico, il che è lo stesso).
- Lo stato, inoltre, fa recuperare indirettamente al
capitale quote di plusvalore dal lato dei costi di
produzione. Oltre che per il tramite di finanziamenti
agevolati e tariffe preferenziali (energia,
telecomunicazioni, ecc.), ciò avviene in particolare e
soprattutto sul cosiddetto "costo del lavoro", o
meglio sul salario sociale della forza-lavoro nelle sue
componenti indiretta (forme varie di assistenza) e
differita (forme varie di previdenza). Questo è il
luogo d’elezione degli interventi del cosiddetto stato
sociale, perché nella fase della crescita capitalistica
che precede la saturazione critica, anche la popolazione
lavoratrice si avvicina alla saturazione occupazionale,
ciò che implica una corrispondente crescita del "costo
del lavoro". Lo stato del capitale è perciò chiamato
a pagare quelle componenti del salario di classe che
figurano come quota "sociale", alleviando i
conti del capitale.
In effetti, lo stato appare nella sua finzione di socialità
universalistica, fornendo alla società civile "servizi"
gratuiti o semi-gratuiti, che altrimenti dovrebbero essere
comprati e pagati con reddito, e con reddito salariale in
particolare. Ciò costituirebbe un onere certo per i
capitalisti compratori di forza-lavoro.
La parvenza sociale dello stato borghese si svela
semplicemente constatando quale sia la fonte di
finanziamento di quei servizi: ossia, la sua capacità di
superimposizione fiscale generale, la quale, com’è noto,
in un sistema capitalistico imperialistico, incide per il
90% sui redditi da lavoro, soprattutto dipendente (anche
con crescenti imposte indirette). Pagare la produzione di
questi valori d’uso collettivi (servizi) con reddito anziché
direttamente con capitale, osserva Marx, non è segno di
progresso ma di arretratezza. Tutto ciò vuol dire che le
quote salariali che i capitalisti risparmiano grazie allo
stato "sociale" sono pagate dagli altri lavoratori,
mediante un trasferimento coatto interno al monte salari:
salario sociale è e salario sociale rimane.
Quanto si è voluto "dare" con apparente generosità in
fase di espansione, non si esita a "togliere" con ancor
maggiore facilità quando occorra ridurre i costi generali
della produzione capitalistica. Le quote del salario
sociale, indiretta e differita, di fronte all’espandersi della
sovrapopolazione relativa e all’aumento dell’esercito
industriale di riserva (soprattutto nella sua forma
"stagnante"), sono le prime e più facili da tagliare.
Questa è la presunta "crisi dello stato sociale", forma
peculiare in cui si presenta la crisi generale da
sovraproduzione. Il salario diretto, o busta-paga,
riguardando i lavoratori occupati, viene ridotto sùbito
dopo che i lavoratori stessi siano stati colpiti
"socialmente" insieme a disoccupati e sottoccupati,
precari e marginali.
L’imperialismo in sovraproduzione trasforma così, a
proprio vantaggio, la crisi di capitale in crisi di lavoro. E
poiché, nonostante tutto e nonostante le sue origini,
l’aspetto antitetico dello stato "sociale" è radicato nelle
conquiste parziali della lotta di classe del proletariato e
dei suoi alleati, la sua sconfitta significa anche
realmente la fine o quanto meno la retrocessione di
quelle conquiste.
Per il proletariato tutto, è il simulacro del salario sociale
che viene chiamato "stato sociale", altrimenti detto "stato
del benessere" (che si riduce poi a mercato del
benessere: da welfare state a welfare market, dicono).
La mediazione col proletariato, che mai c’è realmente,
sembra cessare di colpo, e la contraddizione tra valore
d’uso dei servizi sociali e loro valore di scambio come
merci riemerge prepotente.
L’ignoranza di tale contraddizione sta al fondo anche di
tutte le ambiguità del cosiddetto "privato sociale", dal
"volontariato" ai supponenti "lavori socialmente utili" e
quant’altro ci sia di non-mercantile, non chiaramente
compreso quale surrogato borghese di una risposta che
il capitale dà attraverso il "suo" stato, usato come
ammortizzatore e normalizzatore del conflitto sociale.
Le direttive del Fmi in materia di restrizioni allo "stato
sociale" sono perciò comuni a tutti i paesi a regime
capitalistico, cioè praticamente a tutto il mondo: si
differenziano solo le circostanze e le modalità
d’attuazione, necessariamente difformi, a es., tra Usa e
Malesia.
Nell’Italia contemporanea il punto d’approdo è il
cosiddetto "protocollo del 3 luglio 1993", che rappresenta
una sorta di "programma sociale" della borghesia, di cui
il sindacato e il partito "operaio borghese" (per dirla con
Engels) ne sono i principali fautori e portavoce: "questa
specie di democraticismo confinato entro i limiti di ciò
che è permesso dalla polizia e non è permesso dalla
logica" Marx).
Marx e Engels incitano il proletariato a non comportarsi
"decentemente", come un branco di pecore ben pasciute
per lasciar tranquillo il governo, temere la polizia,
rispettare le leggi, e fornire senza lagnarsi la carne da
cannone. All’opposto, avversando l’ipocrisia ripugnante
della "rispettabilità borghese penetrata nella carne e nel
sangue degli operai" (come scriveva Engels a Sorge),
avvertivano di non nascondersi la possibilità che i nuovi
eletti in parlamento, nelle liste del "partito operaio", che
hanno di fronte cinque anni di legislatura, "possano
venire a patti col governo, che con un poco di dolce
violenza potrebbe riuscire a far votare un
compromesso".
Rispetto alla mistificazione di "socialità" del capitale, la
lotta politica si rivolge contro lo stato borghese per
strappare "concessioni". Solo un "acconto", è qualsiasi
riforma alla quale sia costretta la borghesia a séguito
delle lotte del proletariato (Engels).
Engels insiste particolarmente anche sulla denuncia di
come si sia accresciuta la pressione sui lavoratori di
tutte le classi: non è solo il proletariato a subire il potere
della borghesia monopolistica finanziaria, ma artigiani,
contadini e piccoli commercianti sono rovinati dal grande
capitale; cosicché insieme a impiegati, operai,
braccianti, ecc., tutti cominciano a sentire la pressione
dell’attuale sistema di produzione capitalistico. Per
questo, diceva, per non farli cadere facile preda della
reazione, del qualunquismo o del riformismo, occorre
additare loro una via d’uscita scientificamente fondata.
Al volontarismo dell’immediatezza e all’idealismo
rivoluzionario, tipici della piccola borghesia, si
contrappone l’inevitabilità oggettiva e materiale di una
guerra di classe di lunga durata. Nelle società in cui
predomina il modo di produzione capitalistico il partito
comunista non può andare al governo, neppure nella
migliore delle ipotesi, se non snaturandosi e
abbandonando i propri obiettivi: rimane la proficuità di
una forte opposizione allo stato borghese, che esso sia
sociale oppure no (Marx).
La Scheda preliminare è stata inviata a tutti i promotori
del convegno: Comunismo in/formazione con Bandiera
rossa, Betelli Dalmine, Cattivi Maestri, la
Contraddizione, Contropiano, Coordinamento
Nazionale Rsu, Cub scuola Venezia, l’Internazionale,
Invarianti, Laboratorio politico, Laboratorio marxista
Parma, il Lavoratore, Progetto comunista, Proposta
comunista, Puntorosso Jesi, Puntorosso Vicenza,
Radio cittaperta Roma, Rdb, Sin-cobas, Vis-à-vis.
Attendiamo le vostre valutazioni, integrazioni, modifiche,
ecc. Esse potranno essere inviate, presso l’associazione
la Contraddizione, al seguente fax.06.287190070,
oppure alle seguente casella di posta elettronica,
contrad@iol.it