C.G.I.L. ALTERNATIVA SINDACALE
IL RIORDINO DEI CICLI SCOLASTICI

Convegno nazionale Roma 8 febbraio 1997

Una scelta ambiziosa

La riforma dei cicli scolastici e' la strada che il Governo ha imboccato per affrontare i problemi della trasformazione degli ordinamenti scolastici e del loro adeguamento alla realta' contemporanea.

La scelta e' positiva in quanto riapre, in merito alle finalita' e agli obiettivi del sistema formativo, un dibattito che, per quanto ventennale, si era arenato nella politica dei piccoli passi, nell'apprezzamento o nella critica delle modifiche di ordinamento per via amministrativa, nelle riforme parziali che davano come immutabile la struttura complessiva del sistema. Si modifica cosi' il contesto complessivo della nostra stessa azione di sindacato della scuola, per troppo tempo chiusa nell'orizzonte dei cambiamenti possibili, cioe' subordinata alle opzioni, per altro disomogenee, delle direzioni ministeriali, che il sindacato non e' stato in grado ne' di omogeneizzare ne' di fermare.

Tale scelta conferma un semplice concetto, che come Alternativa Sindacale abbiamo piu' volte riaffermato, e cioe' che non e' possibile procedere a processi di riforma parziali senza modificare il sistema complessivo. Il fondare il nuovo sistema su due grossi cicli risolve alla radice la crisi di identita' della scuola media scorporandone le funzioni e incorporando con piu' continuita' nella scuola primaria il consolidamento, nella secondaria l'orientamento. In questo contesto l'innalzamento dell'obbligo puo' assumere il valore della ridefinizione di un diverso curricolo e di una diversa scolarizzazione e puo' essere concretamente allontanato il rischio di un innalzamento pro-forma, di puro e semplice parcheggio in un percorso formativo spezzato.

Ma e' anche una scelta ambiziosa in quanto un'operazione di tali dimensioni richiede la soluzione di altri nodi di fondo, per affrontare i quali occorre uscire da equivoci ed ambiguita'. Da molti anni infatti la discussione sui destini del sistema formativo italiano si dibatte tra le emergenze di un'organizzazione scolastica da tempo inadeguata ed i tentativi di mettere in discussione, insieme alle altre funzioni dello stato sociale, anche il fondamento pubblico e il carattere pluralista della scuola.

Per una critica dell'economia politica della formazione.

Se l'organizzazione inadeguata della scuola ha messo in luce ormai da tempo tutti i limiti dell'impostazione gentiliana con la sua separazione tra studi "disinteressati" e astratti, affidati ai licei e riservati alle classi alte, e studi tecnici e professionali, riservati alle classi subalterne; se le riforme parziali fatte nel dopoguerra non hanno modificato questa struttura , ma hanno solo spostato in avanti nell'eta' dei ragazzi e delle ragazze e nel grado di scuola questa segmentazione; se, infine, questa inadeguatezza e' apparsa chiara anche alle classi sociali che finora avevano tratto vantaggio dal mantenimento del sistema gentiliano, nel momento in cui le rapide trasformazioni economiche e tecnologiche rendevano al tempo stesso inutili le professionalita' tradizionali ed incoerenti le segmentazioni scolastiche e quelle sociali - il tentativo di mettere in discussione il carattere pubblico e la funzione sociale della scuola ha avuto due capisaldi. Da un lato si e' tentato di affermare il principio per cui lo sviluppo scolastico dovrebbe essere piu' o meno meccanicamente subordinato allo sviluppo economico, contribuendo a costruire essenzialmente figure professionali per il mercato del lavoro che ne deriva, attraverso una piu' articolata e mirata professionalizzazione da attuarsi in precisi canali gia' nel corso dei primi anni degli studi secondari. Dall'altro si e' diffusa l'idea che questo scopo sia piu' facilmente raggiungibile attraverso un servizio scolastico non piu' affidato allo Stato, bensi' all'iniziativa privata, meno oneroso per la finanza pubblica e ipoteticamente piu' efficiente in quanto piu' articolato e soggetto agli effetti della concorrenza.

L'ambizione di smontare l'impalcatura gentiliana comporta la necessita' di fare i conti con queste due tendenze oggi fortemente presenti, perche' obiettivamente radicate nei fenomeni attuali dell'economia mondiale.

Ma a questa idea di una scuola intesa come affare per l'economia occorre contrapporre l'idea di una scuola come affare per la democrazia e per la societa' nel suo complesso, che, quindi, si misuri non tanto con i tempi e i modi della produzione o con le esigenze del mercato, ma con i tempi di vita degli alunni e con le loro eta'. D'altra parte cio' non e' pura utopia umanistica: in tutte le societa' economicamente avanzate la scuola tende a modificarsi nel senso di un innalzamento della base culturale, che e' esso stesso premessa ad una piu' qualificata flessibilita' e adattabilita' della forza lavoro alle nuove tecnologie e alle nuove formule organizzative. Da questo punto di vista le esigenze della societa' per un innalzamento dell'istruzione e le esigenze dell'economia per una forza lavoro piu' acculturata e un corpo sociale piu' evoluto nei consumi, generalmente coincidono. E' percio' un vizio di arretratezza della societa' italiana la pretesa di istituire vincoli troppo stretti tra economia e formazione in termini di contenuti e di potere, un vizio tanto piu' pericoloso nel momento in cui nella riorganizzazione in rete delle relazioni produttive, economiche e commerciali la scuola viene a rappresentare un nodo importantissimo su cui si esercitano le pressioni e i tentativi di controllo da parte dei poteri forti. Non puo' quindi la scuola essere sottratta alle funzioni democratiche che solo il suo carattere pubblico può garantire.

Rispetto a questi obiettivi il documento ministeriale non scioglie tutti gli equivoci.

Il pubblico, il privato e l'obbligo allargato.

In primo luogo e' indiscutibile che la scelta, pur condivisibile, dell'anticipo dell'obbligo all'ultimo anno della scuola per l'infanzia accelera le questioni relative alla parita' tra pubblico e privato. Con quasi il 30% dei bambini e delle bambine scolarizzati nelle scuole private si accelera inevitabilmente il problema del loro finanziamento al fine di garantirne la gratuita', conseguente all'obbligatorieta', e la congruita' con la parificazione degli ordinamenti. Se a cio' si aggiunge l'effetto di trascinamento che l'obbligatorieta' puo' produrre sul percorso dai tre ai cinque anni e sulla scelta della scuola elementare, il provvedimento rischia di rilanciare il privato in un settore dove solo negli ultimi anni la scuola pubblica e' riuscita a coprire la maggior parte del fabbisogno.

L'intervento pubblico non potra' quindi configurarsi ne' come delega al privato in tutte le situazioni in cui questo prevale, ne' come semplice apertura di monosezioni per i bambini e le bambine con cinque anni d'eta', magari inserite nel corpo delle attuali scuole elementari. Quest'ultima soluzione, oltre a lasciare gran parte del campo al privato, condizionerebbe inevitabilmente la didattica di queste monosezioni in direzione della cosiddetta "primina", cosa che e' decisamente da evitare, dal momento che nelle intenzioni dello stesso documento ministeriale l'inserimento di questo primo anno di obbligo nella scuola dell'infanzia, lo differenzia negli obiettivi dalla scuola primaria, facendone un anno di accoglienza e di inserimento nel mondo scolastico piuttosto che un anno di apprendimento del leggere e dello scrivere. Anzi vanno decisamente combattute le posizioni che vorrebbero a cinque anni o anche prima l'anticipazione di queste funzioni dal momento che ben altri sono gli alfabeti comunicativi a cui a quest'eta' i bambini e le bambine sono comunque soggetti e che sono spinti ad usare nella societa' contemporanea.

Occorre quindi che l'anticipo dell'obbligo sia accompagnato da un progetto di reinsediamento della scuola dell'infanzia pubblica sul territorio nazionale.

Orientamento o canalizzazione?

In secondo luogo occorre sciogliere i nodi dell'orientamento, consapevoli che dalle insufficienze di questa funzione e' derivata una delle cause principali della dispersione scolastica.

Se e' positiva la scelta di inserire l'orientamento agli studi e al lavoro nei primi anni della secondaria, occorre tuttavia chiarire in che cosa questa funzione consista e in che misura differisca dalla scelta-senza-ritorno di indirizzi precisi e definiti. Dal testo ministeriale si evince che questa operazione e' limitata ad un assaggio di attivita' nel primo anno della secondaria e da una scelta di indirizzo nel secondo anno, con possibilita' di tornare sulla propria scelta ad ogni cadenza quadrimestrale, fatti salvi gli eventuali recuperi. Se si considera che l'obiettivo di abbassare a diciotto anni il conseguimento del diploma di maturita' costringe a collocare a dodici anni l'ingresso nel ciclo secondario, e' evidente che tale scelta avviene a tredici anni. In altre parole rispetto alla situazione attuale che prevedeva tale scelta a quattordici anni, abbiamo l'anticipazione di un anno, attenuata solo dalla possibilita' di cambiare eventualmente indirizzo a fine quadrimestre e, forse, da una piu' generica struttura di indirizzo (il documento ne indica cinque, non propriamente tali - classico, scientifico, artistico, tecnico e professionale - contro gli undici del triennio superiore). Dal momento che uno dei problemi che la riforma dovrebbe affrontare e' proprio quello della posticipazione delle scelte, c'e' da chiedersi se le attenuazioni introdotte costituiscano una soluzione di questo problema o non si configurino come un aggravamento. L'insistenza sull'introduzione in questo stesso periodo di attivita' di formazione professionale lascia intendere che piu' che all'orientamento il periodo sia deputato ad una vera e propria scelta tra lavoro e studio o tra i vari indirizzi di studio. Altra cosa sarebbe l'introduzione di attivita' pratiche per sviluppare, a partire da alcune abilita', il raggiungimento di conoscenze e di capacita' logiche: ma questa e' cosa che con la formazione professionale c'entra poco o niente, riguarda la didattica, non la struttura degli ordinamenti, alla quale tutt'al piu' e' richiesto di considerare lo spazio per queste attivita'.

Dunque una simile impostazione potrebbe risultare addirittura un passo indietro rispetto all'attuale situazione che comunque assicura una formazione unica fino ai quattordici anni.

Inoltre il problema del passaggio eventuale da un indirizzo all'altro, e' problema da porsi dopo la scelta e va quindi previsto nel ciclo superiore, piuttosto che in quello inferiore. Nella fase dell'orientamento vanno valorizzate soprattutto le possibilita' di osservazione e di sperimentazione degli indirizzi stessi, garantendo quanto finora e' stato raggiunto in merito a unitarieta' della formazione dentro l'attuale struttura.

In questo ambito anche la scelta di limitare l'obbligo ai quindici anni d'eta' , pur giustificata dall'anticipo della fine degli studi secondari, oltre ad abbassare uno degli obiettivi storici del sindacato, rischia di non coincidere con i tempi di crescita fisiologica e culturale dei ragazzi e delle ragazze, con conseguenze sull'articolazione dei programmi e sul loro completamento per coloro che interrompono gli studi al termine dell'obbligo. La cosa e' tanto piu' incomprensibile se si da' credito all'intenzione di procedere immediatamente all'innalzamento dell'obbligo nel sistema attuale, il che comporterebbe un periodo transitorio in cui questo, pur senza dare luogo a nuovi titoli, ma solo ad una certificazione, terminerebbe a sedici anni, per poi scendere, a regime, ai quindici anni.

Professionalizzazione e pre-professionalizzazione.

In terzo luogo la "armonizzazione fra preparazione cosiddetta cuturale e preparazione cosiddetta professionale", che pure e' uno dei piu' importanti obiettivi che il documento e la riforma dei cicli si prefiggono, mostra ancora notevoli ambiguita', soprattutto nell'impianto del triennio superiore della secondaria. Innanzi tutto va evidenziata la contraddizione tra la scelta di ridurre a non piu' di undici gli indirizzi e la definizione del triennio superiore come "professionalizzante", dal momento che non sembra che undici indirizzi possano coprire il ventaglio delle professioni. La cosa e' tanto piu' vera dal momento che e' previsto che il titolo finale superiore collocato a 18 anni di eta', contro i 19 attuali, non abbia nessun valore immediato ai fini dell'inserimento nel lavoro, ma possa servire solo per accedere all'universita', ai corsi post-secondari e alla formazione professionale di secondo livello.

Questa scelta e' gravida di conseguenze innanzi tutto sul fronte delle questioni relative al valore legale del titolo di studio, cosa che deve vedere la piu' grande attenzione da parte del sindacato anche in relazione ai problemi di governo della forza lavoro nel nostro Paese. Da questo punto di vista l'esame di Stato deve rappresentare la garanzia di questo valore, rispetto a posizioni che vorrebbero piuttosto ridurre il titolo finale a pura certificazione di abilita'.

Il rilievo posto sull'istruzione post-secondaria e sulla formazione professionale, lascierebbe intendere per il pezzo superiore della secondaria una caratterizzazione pre-professionalizzante. Ma poiche' la via dell'inferno e' lastricata dalle buone intenzioni, sarebbe bene sciogliere fin da ora gli equivoci rispetto al fatto se la formazione professionale sara' interna alla scuola e integrativa di attivita' curricolari (come sembra dagli apprezzamenti per il modello tedesco) o esterna e alternativa (come sembra dalle possibilita' successive all'obbligo), se l'istruzione post-secondaria sara' garantita o lasciata all'intervento casuale di diversi soggetti(statali, regionali, privati, convenzionati?), se l'intervento sull'apprendistato o sulla formazione-lavoro sara' di tipo esclusivamente professionale o anche di carattere generale, se i titoli di studio (secondario inferiore, secondario superiore, qualifica professionale ecc.) saranno titoli veri e propri o solo certificazioni di competenze e di corsi seguiti.

Occorre evitare in altre parole che il carattere pre-professionalizzante si traduca nel ritirarsi della scuola dai compiti di professionalizzazione che verrebbero delegati ad altri soggetti non necessariamente pubblici. Ne deriverebbe il paradosso per cui ad un'intenzione di espansione scolastica conseguirebbe in realta' una riduzione della scolarita'. E' evidente quindi che l'integrazione tra le diverse strutture dovra' assegnare un ruolo centrale alla struttura pubblica, come d'altra parte era chiaro nelle originarie formulazioni sul Sistema Formativo Integrato, che il nostro sindacato ha abbracciato fin dal congresso del 1981: sarebbe una ben misera fine di una grande idea se il tutto anziche' produrre integrazione producesse la disintegrazione dei percorsi e degli esiti, se il rapporto col lavoro producesse descolarizzazione di 500.000 studenti dell'istruzione professionale anziche' la scolarizzazione di 800.000 giovani lavoratori, se l'articolazione professionale producesse l'esclusione e, insieme, la segmentazione corporativa governata a colpi di numero chiuso, se un sistema di crediti formativi, che consente di non sprecare un grammo della propria esperienza formativa, venisse confuso con l'abolizione del valore, legale perche' economico, economico perche' sociale, del titolo di studio.

In altre parole se il sistema deve effettivamente prevedere raccordi con la formazione professionale l'universita' e il post- secondario non si puo' prescindere dalla riforma dei primi due settori e da un chiarimento sul terzo. Non dimentichiamo che in Italia non esiste un sistema di formazione professionale omogeneamente distribuito sul territorio nazionale e che da molti anni rivendichiamo la riforma della legge 845 del 1978. Allo stesso modo non va dimenticato che l'Italia e' il paese che ha le lauree universitarie piu' lunghe e il minor numero di corsi post-laurea. Questo fatto produce come conseguenza l'astrattezza delle preparazioni anche a livello universitario, come il documento stesso rileva, e l'ostilita' degli studenti per qualsiasi corso post-laurea, come il caso dei corsi di specializzazione per l'insegnamento sta dimostrando. Occorre quindi una riforma universitaria che riduca le annualita' dei corsi di laurea a non piu' di quattro, nei casi di massima durata. In un quadro di questo tipo anche la partita delle lauree brevi avrebbe un altro esito. Tanto piu' se si chiarisce il posto occupato dai corsi post-secondari, ai quali va va prima di tutto attribuito un ruolo di innalzamento delle professionalita', onde evitare la beffa per cui il raggiungimento delle professionalita' attuali si ritrovi spostato avanti di uno o due anni.

Il ruolo del sindacato.

Se per un giudizio di merito sono ineludibili le risposte alle questioni fin qui proposte, non sara' ininfluente la gestione di tutta l'operazione. Tanto piu', dal momento che l'intenzione e' quella di attivare da subito iniziative come l'innalzamento dell'obbligo o come l'introduzione del nuovo ordinamento ad ogni scadenza dei cicli attuali, le contraddizioni non mancheranno. Rispetto alle questioni che si apriranno e' decisivo definire l'atteggiamento che terra' il sindacato ed il ruolo che intendera' svolgere.

E' evidente che tale ruolo non potra' essere quello di consigliere del principe ne' quello di cassa di risonanza per iniziative propagandistiche sulla bonta'dell'opera. Semmai questo e' un problema del MInistero, che dovrebbe invitare i collegi docenti, le assemblee studentesche e gli organi collegiali a discutere della proposta.

Innanzi tutto il sindacato dovra' misurarsi con le questioni gia' citate: gli sbocchi professionali, il valore pluralista e democratico che dovra' avere l'istruzione impartita, il carattere pubblico o privato dei diversi pezzi del sistema.

Su quest'ultimo aspetto va respinta l'evoluzione che la questione sta avendo nella commissione sulla parita'. Va respinto qualsiasi tentativo di introdurre la gestione manageriale al posto di modalita' di gestione scolastica, che se vorranno essere coinvolgenti, dovranno vedere l'allargamento dei poteri e della democrazia. Da questo punto di vista non ci fanno dormire sonni tranquilli le ambiguita' del d.d.l. Bassanini e ne' quanto sembra emergere sul fronte degli organi collegiali.

Ma andranno introdotti e verificati anche altri aspetti della questione piu' legati all'organizzazione del lavoro e del personale.

L'organizzazione della scuola primaria in cicli biennali non dovra', per esempio, produrre la rotazione biennale dei docenti, nello stesso tempo andra' costruito un asse di continuita' tra l'ultimo biennio ed i primi due che non potra' non avere ricadute sulla riorganizzazione della pluralita' docente, diversamente intesa finora nella scuola elementare e nella scuola media.

Allo stesso modo sara' impossibile eludere il nodo dei piani orari della secondaria, dell'articolazione dei programmi, del riaccorpamento delle discipline. E' evidente che non andranno percorsi gli errori della commissione Brocca che all'individuazione delle discipline essenziali preferi' la sommatoria di tutte le discipline. Il rapporto tra attivita' frontali e attivita' di laboratorio, tra discipline obbligatorie e discipline facoltative, fra materie comuni e materie opzionali, tra momenti formalizzati e momenti meno formalizzati della vita scolastica dovra' trovare nella riforma una risposta adeguata. L'organico e l'orario dei docenti dovranno essere formati con parametri diversi rispetto a quelli attuali facilmente determinabili vista la rigidita' del sistema: non e' pensabile che tutta la parte variabile dell'attivita' docente venga svolta in ore eccedenti.

Il fatto che questi problemi trovino risposta nella riforma dovra' essere dirimente rispetto all'atteggiamento che terra' il sindacato. Anche in questa aoccasione l'atteggiamento della CGIL non potra' essere del tipo : "tutto va bene purche' ci sia la riforma".

E' evidente che tutto cio' avra' ricadute sul personale che non possono essere liquidate, come fa il documento ministeriale, improvvisando le utilizzazioni.

Le ricadute non sono solo quelle del taglio di un'annata dell'attuale scuola elementare o della scomparsa della scuola media. Andranno modificate le aree disciplinari ed il peso specifico rispetto ad ogni preparazione. Dovra' essere modificata la composizione e la struttura delle cattedre. La stessa determinazione degli organici per la formazione professionale e per i corsi post secondari dovra' avere subito una sua definizione, non solo nell'interesse della categoria , ma soprattutto per gli interessi degli studenti e dei cittadini, dal momento che formazione professionale e i corsi post-secondari non possono essere degli optional.

Tutta la gestione del personale imporra' un diverso atteggiamento al Ministero e una diversa determinazione all'azione sindacale. La formazione. l'aggiornamento, la riconversione professionale degli insegnanti non potranno essere gestiti, come e' avvenuto finora, come un'emergenza per poche unita' di personale e per un periodo limitato. La questione dovra' diventare un fatto di sistema. Ancora prima di decidere in che cosa consistera' e che cosa si fara' e' decisivo strappare al Ministero la condivisione di questo principio, altrimenti si ripetera' la storia gia' nota, tale da non garantire nulla ne' sul piano della qualita' ne' sul piano della serenita' dei soggetti che saranno coinvolti in queste operazioni.

La riforma non puo' quindi prescindere dall'indicare gli investimenti e le risorse che l'accompagneranno.

Il sindacato non puo' eludere a sua volta questi problemi a partire dalla individuazione di precisi obiettivi contrattuali volti a questo scopo: la realizzzazione di periodi sabatici per la formazione del personale diventa stavolta inevitabile, cominciando con il ripensare l'uso delle risorse residue dell'ultimo contratto.

Tra le ricadute contrattuali di questa riforma che ha la pretesa di avvicinare il modello scolastico italiano agli altri modelli europei, non va trascurata la diversa considerazione che godono sul piano sociale e retributivo i docenti degli altri paesi europei. Si tratta di scale retributive spesso molto diverse dalle nostre, che divaricano molto le retribuzioni soprattutto tra obbligo e post-obbligo. Rispetto a cio' sarebbero fuori luogo analoghe divaricazioni, proprio nel momento in cui la definizione di un titolo di studio di pari livello per tutti gli ordini e i gradi di scuola, rende concretamente raggiungibile l'obiettivo della funzione unica docente.

Non di meno il problemma della rivalutazione retributiva richiede che il sindacato ponga con radicalita' il problema del rapporto tra spesa per l'istruzione e P.I.L.

(Documento a cura dei compagni di Alternativa Sindacale del Centro Nazionale C.G.I.L. Scuola)