Relazione introduttiva di
FRANCA PERONI, segretaria generale FP – CGIL Trentino

 

al Convegno di Alternativa Sindacale su "LA SANITA’ NELLA RIFORMA DELLO STATO SOCIALE" – Roma , 22 gennaio 1998 - CGIL Nazionale Corso d’Italia, 25

 

 

Premessa

Circa un anno fa, quando il dibattito sullo Stato sociale si stava avviando nella sua fase più calda, ci parve che vi fosse una giusta attenzione ai problemi previdenziali, ma una mancanza assoluta di dibattito, fuori dagli addetti ai lavori, intorno ai problemi della salute, della sanità e della efficienza delle sue strutture; ci parve che il dibattito attorno a questo argomento venisse lasciato esclusivamente in mano a coloro che, con il famigerato termine "Malasanità" e con la logica di fare di "tutta l’erba, un fascio", volevano esclusivamente minare alla radice il sistema sanitario pubblico e le sue fondamenta universalistiche.

 

Per questo, come Alternativa Sindacale, decidemmo di avviare un lavoro di studio e di analisi intorno ai temi che coinvolgono il nostro Servizio Sanitario Nazionale, cercando di mantenere uno stretto legame con il dibattito più generale che nel movimento sindacale, e anche nel paese, si andava sviluppando intorno alle ipotesi di riforma dello stato sociale.

Dibattito il cui esito allora, è bene ricordare, era tutt’altro che scontato. Va infatti sottolineato che in quella fase al centro vi era ancora il famoso documento "Onofri" che riproponeva la vecchia logica di intervento sullo stato sociale, ed in particolare sulla sanità e previdenza, basata solo su fondamenti economicistici-finanziari.

 

Il lavoro di riflessione di Alternativa Sindacale sul tema che oggi vogliamo affrontare si è concluso nel luglio scorso con un documento che tutti avete in mano e che, attraverso Rassegna Sindacale, ha avuto ampia diffusione in tutta la CGIL. La fase autunnale, come tutti sappiamo, è stata caratterizzata dalla crisi di governo e dall’accordo Governo-Sindacato sullo stato sociale che però ha avuto come cardine dello scontro ancora una volta il sistema previdenziale.

 

Oggi, con questo convegno, vogliamo portare questo nostro contributo al dibattito di tutta la CGIL proprio nello spirito che ci caratterizza come area programmatica congressuale.

Crediamo inoltre che, seppur con alcune riflessioni ulteriori relative alla ipotesi di legge che si sta licenziando in commissione Affari Sociali della Camera, le ipotesi che intendiamo proporre mantengano tutto il loro valore di analisi e di proposta.

Per brevità riprenderemo qui solo alcuni dei passaggi del nostro documento che possono essere maggiormente approfonditi con la lettura dello stesso.

 

La sanità nella riforma dello stato sociale

Come recita il titolo del nostro convegno non è possibile estrapolare il problema della sanità dal contesto più generale della riforma dello stato sociale.

Se il modello di stato sociale che adottiamo è indice del livello di civiltà nella nostra società, non v’è dubbio che il tema della sanità è, assieme all’istruzione, uno degli indicatori prioritari.

Anche per questo l’iniziativa di oggi si rivolge all’insieme della CGIL e non solo agli operatori.

Il problema della Salute investe l’insieme della società e, fatto spesso dimenticato, proprio nel tessuto sociale e nel suo modello trovano le radici molte delle cause che provocano l’insorgenza della malattia. Ma anche questo è segno dei tempi: in una società dove si è affermato il predominio incontrastato del modello capitalistico, ragionare intorno all’obiettivo del raggiungimento del benessere psicofisico del cittadino è incompatibile con la logica del profitto, ed è quindi del tutto naturale abbandonare lo sviluppo di programmi e servizi indirizzati alla prevenzione. Anche la perdita di salute può essere un prezzo da pagare sull’altare dello sviluppo consumistico se necessario.

Il tema della prevenzione sarà comunque approfondito successivamente da un contributo di Massimo Stroppa

 

L’analisi storica ci conferma comunque che il livello di benessere psico-fisico dei cittadini si è evoluto nel corso del tempo, essendo lo stesso strettamente legato al modello di sviluppo economico-sociale: la durata della vita media si è allungata enormemente in questo secolo (da 53,8 anni nel 1931 a 73,5 nel 1990 per i maschi, da 56 a 80 per le donne), e sono mutate radicalmente le patologie riscontrabili nella popolazione, che riprendono i mutamenti dell’organizzazione della vita lavorativa e sociale (malattie cardiovascolari, tumori, malattie infettive trasmissibili, infortuni....).

Dalla fine degli anni 70 il nostro paese ha scelto un modello di stato sociale universalistico che prevede la partecipazione di tutti nel sostenerlo per garantire così prestazioni ad ogni cittadino e cittadina secondo i propri bisogni. E per dirla con la Ministra Bindi "Perché vogliamo salvaguardare quel principio? Perché rappresenta uno dei punti fondamentali delle democrazie contemporanee" (Quale Stato 4/96).

 

La legge 833/78: un caposaldo per la difesa del SSN

La 833/78, unica vera legge di riforma sanitaria, ne è uno dei capisaldi centrali. Essa fu il frutto di battaglie dei lavoratori e delle lavoratrici di questo paese e del mondo della scienza per l’affermazione del diritto alla salute. La legge si ispirava a principi di solidarietà universalistica, riconosceva la salute come diritto per tutti i cittadini, sosteneva l’integrità della persona (quel benessere psico-fisico) attraverso l’integrazione degli interventi preventivi, di cura e riabilitativi. Questa legge, a cui si è data applicazione non totale (sono mancate infatti le parti riferite in particolare alla prevenzione ed all’integrazione fra assistenza e sanità), è stata oggetto di furibondi attacchi nel corso di questi ultimi anni, è stata additata come la madre di tutte le degenerazioni ed eccessi di spesa sanitaria. Essa ha portato, invece, assieme al miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita frutto di un decennio di lotte sindacali, in soli 10 anni (1980-1990) ad aumentare la speranza di vita alla nascita di 3 anni (da 71 a 74.1 per gli uomini, da 77.7 a 80.5 per le donne), mentre l’aspettativa di vita a 65 anni in questo stesso periodo è aumentata di 6 anni ( da 13.4 a 15.2 per gli uomini, da17.2 a 19.1 per le donne).

Sul versante delle politiche sanitarie del nostro paese negli anni successivi alla 833/78, l’impianto della legge di riforma è stato invece messo a dura prova, sia per le mancate attuazioni di parte della stessa, che per interventi ripetuti e scoordinati sul versante della spesa sanitaria, partendo dalla presunzione che la stessa producesse un pesante passivo nei conti dello Stato. Così non era, ma questa filosofia era motivata da una volontà di snaturare i principi stessi della 833/78, introducendo una logica "mercantile" nella sanità che consentisse il progressivo consistente trasferimento di risorse economiche investite in campo sanitario sul fronte del mercato .

 

La spesa sanitaria e le logiche economicistiche

L’attacco alla sanità sul versante della spesa è stato un attacco strumentale, mai sostenuto da reali riscontri di analisi di bilancio, tant’è vero che per sostenere questa teoria si è dovuto ricorrere ad un utilizzo distorto dei dati ed, in alcuni casi, a falsificarne la composizione.

Per spiegare questa strumentalizzazione, dovremmo chiederci cosa sia in realtà la spesa sanitaria, come sia composta, di quali entrate viva.

Vi è la spesa sanitaria complessiva, cioè la spesa sostenuta da ogni cittadino privatamente, dallo stato (attraverso il Fondo sanitario nazionale), dalle Regioni con propri fondi.

Vi è poi il Fondo sanitario nazionale, che è l’unico dato che dovremmo utilizzare quando parliamo di finanza pubblica. Ma anche qui occorre un ulteriore chiarimento: il Fondo è suddiviso in due voci, la prima data dai contributi di malattia versati dai lavoratori e dalle lavoratrici, la seconda dall’integrazione dello Stato attraverso la fiscalità generale. L’analisi più precisa potrete riscontrarla nel nostro documento.

Preme però qui sottolineare che, ad esempio nel 1993-1994, anni caldi degli attacchi alla spesa sanitaria, lo Stato è intervenuto con i soldi dei contribuenti per poco più del 2% dell’intera ricchezza nazionale (PIL). Infatti il resto della spesa è stato sostenuto attraverso i contributi dei lavoratori e dalle entrate proprie delle Usl.

Il mondo del lavoro nel 1994 da solo ha sostenuto, ben il 54% delle entrate correnti, che diviene il 58 % delle entrate riferite al solo Fondo sanitario nazionale.

Nello stesso anno i cittadini italiani hanno speso di tasca loro altri 36.671 miliardi che rappresentano il 27,82% dell’intera spesa sanitaria del nostro paese ( che è stata pari a 131.847 miliardi nel ‘94).

Complessivamente già oggi i cittadini, ed in misura rilevante i lavoratori dipendenti, contribuiscono alla spesa sanitaria per ben il 66 %.

Tutto ciò dovrebbe fugare ogni equivoco verso quelle "filosofie" che sostengono che si dovrebbe ancor più appesantire la partecipazione alla spesa dei cittadini.

Il richiamo all’Europa, inoltre, quando si parla di sanità e più in generale di spesa sociale, non è certo utilizzabile (in questo caso) a sostegno delle politiche liberiste, essendo l’Italia in entrambi i casi, il fanalino di coda, tra i paesi che oggi si disputano il ruolo di leadership nell’Euro (Francia e Germania hanno, rispettivamente, come spesa sanitaria il 7,7% e l’8% del PIL, mentre l’Italia si attesta al 5,4% - fonte CEE 95)

 

Una scelta da cambiare: i tickets

Le politiche sanitarie, poste in campo dopo la 833/78 si sono però ridotte, quasi esclusivamente ad interventi di contenimento e riduzione della spesa sanitaria, attuati attraverso le finanziarie di turno, con l’introduzione dei tickets sanitari su prestazioni farmaceutiche e diagnostiche che sono stati declinati nelle maniere più fantasiose (basti pensare che si è passati da tickets fissi sulla farmaceutica, a quelli percentuali con riferimento a fasce di spesa per medicinali e per ricetta, a tickets che escludevano prima particolari patologie, poi fasce di età); tickets che avevano una vita esclusivamente connessa all’esigenza del pareggio di bilancio, con scarsi risultati equitativi sull’intera platea dei cittadini e delle cittadine.

L’introduzione dei tickets non ha portato grandi entrate al bilancio dello Stato: si pensi che l’entrate per i tickets farmaceutici nel 1996 sono state di solo 1.519 miliardi pari all’1,7 % delle entrate complessive. I tickets non incidono come si vuol far credere nei conti dello Stato, di contro pesano negativamente sui cittadini e sulle loro famiglie, ovviamente per quanto riguarda i redditi, ma anche perchè intervengono nello stato di bisogno ed aggiungono così rilevanti costi al disagio provocato dalla malattia, oltre che creare un progressivo aumento del malcontento degli utenti nei confronti delle "burocrazie" del servizio pubblico, incentivando così il ricorso alla struttura privata.

E’ per questo che crediamo si debba abbandonare la strada dei tickets, intervenendo invece sul versante del controllo attraverso gli ordinatori di spesa (cioè medici di famiglia e specialisti); l’efficacia di tale strada è stata dimostrata sia dalla revisione del prontuario farmaceutico e della conseguente esenzione legata all’efficacia del farmaco, e dall’altra anche ad esempio dalla esperienza Trentina.

Non è questa una proposta che avanziamo per fare facile demagogia: ci rivolgiamo alla Ministra Bindi che sappiamo essere persona attenta ai processi interni alla Sanità e a quelli della gente. Si provi a fare un "piano di fattibilità" di questa proposta di abolizione dei tickets, anche legandola agli istituendi fondi per la sanità integrativa. Se esiste la volontà, non pensiamo sia un obiettivo impossibile da raggiungere. Sarebbe invece un provvedimento che darebbe finalmente all’intero popolo italiano il segno di un cambiamento radicale nelle politiche sanitarie.

 

Il modello aziendalista in sanità

Le politiche sanitarie degli anni 80 hanno trovato compimento (in negativo) nel dlgs 502/92, ricordato con il nome di De Lorenzo, riveduto e corretto (in alcune parti in modo positivo) con il dlgs 517/93 emanato dall’allora Ministra Garavaglia, che hanno introdotto l’aziendalizzazione delle Usl e degli ospedali con l’obbligo del pareggio di bilancio, affidato ad un direttore generale, unico esecutore dei piani annuali di intervento delle Regioni.

Ciò significa che, una volta definiti i piani sanitari regionali (cosa irrealizzata in gran parte del paese) ed, annualmente, il piano degli obiettivi, la concreta realizzazione e decisione in ordine alla articolazione degli stessi viene lasciata nelle mani di un soggetto tecnico che è l’unica fonte decisionale, che ha come unico vincolo il pareggio di bilancio.

Manca, allo stato dell’arte, un collegamento con le comunità locali (che dovrebbero interagire rispetto al quadro dei bisogni presenti sui singoli territori, non solo rispetto all’individuazione degli obiettivi generali, ma anche su quelli specifici), manca una sede di partecipazione e controllo da parte dell’utenza.

L’esperienza di questi anni ha messo in evidenza che il modello aziendalistico è stato indirizzato in modo rilevante verso una logica mercantile della Sanità, evidenziata dalla continua contraddizione tra l’introduzione di un modello che mira al raggiungimento del massimo profitto con il minor costo possibile e l’esigenza di rispondere ad una "produzione" che non è "mercantile", che è rivolta alle persone, che deve tener conto delle diversità culturali, orografiche, delle storie "sanitarie" dei singoli territori. L’esistenza di un presidio poliambulatoriale e con funzioni di primo intervento in alcune vallate molto decentrate del Trentino, ad esempio, fa a pugni con la logica del pareggio di bilancio: ed è questa la contraddizione profonda esistente tra il mero dato ragionieristico di bilancio della Azienda Sanitaria e "l’impatto sociale" delle scelte finanziarie-organizzative sulle comunità locali.

Il processo di autonomia delle strutture sanitarie locali è un obiettivo giusto e da perseguire, così come la loro sburocratizzazione e la loro responsabilizzazione nell’utilizzo delle risorse. Su questo terreno il nostro consenso è totale, con una precisazione sul ruolo del Ministero nel mantenere un forte carattere di indirizzo e di controllo sul rispetto dei diritti dei cittadini che vedremo più avanti.

Vogliamo però sottolineare che la logica "aziendalistica" perseguita ha portato ad abbandonare la centralità dell’obiettivo del raggiungimento del benessere psico-fisico del cittadino, per tramutare le strutture in semplici erogatrici di servizi, con al centro i problemi di bilancio. Questo ha portato anche, ed era inevitabile in questa filosofia, di fatto ad una concentrazione nell’erogazione dei servizi sul fronte ospedaliero, non tenendo in considerazione i costi sociali sostenuti dagli utenti che quotidianamente devono spostarsi per raggiungere il centro erogatore dei singoli servizi, sguarnendo e trascurando tutta quella rete di servizi territoriali che dovevano tra l’altro supportare la prevenzione sanitaria (qualsiasi analisi di spesa regionale trova cifre vergognosamente irrilevanti destinate alla medicina di base), avviando una spirale perversa che, dall’assenza dei presidi e quindi delle politiche di prevenzione sanitaria, porta all’ingolfamento delle strutture ospedaliere, rendendo di fatto impossibile, a risorse invariate, il decentramento di parte delle stesse al territorio. Ancora una volta un esempio per capirci meglio: la Provincia Autonoma di Trento ha posto un vincolo in ordine alla pianta organica dell’Azienda Sanitaria trentina: a risorsa invariata quindi, non è possibile spostare il servizio infermieristico sul territorio, nei diversi presidi, perché ciò porterebbe alla messa in discussione di alcuni reparti di degenza. La deospedalizzazione - che quindi si intende perseguire - è fortemente limitata da disposizioni di turn-over che non sono assolutamente selettive in ordine agli obiettivi dichiarati.

 

La struttura pubblica e quella privata

La filosofia in campo sanitario che ci ha accompagnato nel decennio trascorso ha volutamente messo sullo stesso piano Servizio Sanitario pubblico e strutture private, portando nel concreto a situazioni estreme come il caso lombardo.

L’ipotesi di riordino lombardo non è una anomalia ma è coerente, seppur estremizzato, con la filosofia del 502. La situazione lombarda la affronteremo negli interventi di Stroppa e del dott. Carobella. Qui ci preme però ribadire la sussidarietà delle strutture private al sistema pubblico, e che la A.S.L. non può essere solo un "ufficio pagatore".

In questo contesto si è sviluppata una politica dell’accreditamento delle strutture sanitarie private, fondata su un principio di presupposta pari dignità. E’ mancata qualsiasi valutazione delle necessità in ordine ai tetti di spesa e di attività: l’accreditamento è avvenuto a partire dall’offerta di servizi da parte delle strutture private, e non da una analisi ragionata del fabbisogno territoriale. Anzi, spesso gli investimenti ad alto contenuto tecnologico non sono stati effettuati nella struttura pubblica, perché si è privilegiato l’accreditamento di strutture private. "L’affaire" Galeazzi, con le camere iperbariche, oltre a segnare l’assoluta mancanza di verifiche e controlli da parte del pubblico sulle strutture private, ha reso evidente come sul versante pubblico si sia rinunciato a dotare importanti ospedali nazionali di strumentazione ad altissimo livello tecnologico, per garantire l’espansione del capitale finanziario che ha speculato, sia sul versante edilizio con la costruzione "chiavi in mano" delle strutture, che sul versante dei convenzionamenti.

Anche qui, risulta evidente come le politiche di contenimento della spesa, attraverso la riduzione dei posti letti nelle strutture pubbliche, se non accompagnate da una attenta disamina delle liste d’attesa rispetto alle singole prestazioni ed al numero dei ricoveri effettuati in strutture private, sostenuti però dal SSN, porti ancora una volta al trasferimento di consistenti quantità finanziarie dalla struttura pubblica al capitale privato, non abbassando di fatto la spesa sanitaria complessiva, ma spesso, anzi, aumentandola (era abbastanza facile, negli scorsi anni, che alcuni interventi chirurgici fossero effettuati nelle strutture private, con liste d’attesa più brevi, ma gli esami preliminari di una certa complessità e costo fossero effettuati presso la struttura pubblica, anche grazie alla possibilità di doppio lavoro che i medici avevano).

 

I D.R.G.

La logica aziendalistica ha operato anche sul sistema di finanziamento dell’attività sanitaria, introducendo i Drg (Diagnosys related groups) sistema di finanziamento a tariffa sulle prestazioni effettivamente erogate. Tale sistema avrebbe dovuto essere lo strumento di controllo della spesa ospedaliera, spostando il finanziamento della stessa dai parametri precedenti riferiti alla spesa storica. L’obiettivo dichiarato era quello quindi di avere una maggiore appropriatezza di intervento nei confronti del paziente anche attraverso la riduzione di giornate di degenza inutili e costose. Inoltre nel sistema precedente nelle strutture private il degente spesso era "parcheggiato" oltre il dovuto per consentire ulteriori entrate riferite ai giorni di degenza.

Il Drg , strumento per certi versi utile, richiede però un bilancio di questa prima fase e certamente alcuni cambiamenti significativi.

L’esperienza ci ha insegnato che la strada attraverso la quale i direttori generali hanno agito è stata quella sì della riduzione dei giorni di degenza, attraverso però un aumento dei ricoveri e di prestazioni diagnostiche e strumentali spesso improprie ed inutili.

Dal rapporto dell’Istat del 1995 si possono verificare alcuni dati interessanti: la degenza media è diminuita da 9,8 a 9,2 (da 9 a 8,1 nel caso di ricoveri ordinari per acuti; il numero dei ricoveri invece è cresciuto del 7,4). Complessivamente le giornate di degenza sono aumentate di 7,4, con un tasso di ospedalizzazione che è passato da 160 a 164 per mille.

Analoghi dati si sono riscontrati nella verifica del numero di casi con complicanza dichiarata, negli interventi chirurgici nelle procedure diagnostico-terapeiutirche (ASI l8/19997).

Il rischio è inoltre quello che la struttura, per garantirsi il finanziamento, privilegi alcune prestazioni più "redditizie" di altre, producendo una disomogeneità nel livello di erogazione dei servizi. Da questa prima analisi risulta evidente come i Drg possano essere un utile strumento di valutazione e pesatura delle realtà ospedaliere, ma non possono essere utilizzati come esclusivo strumento di finanziamento delle stesse.

 

 

La libera professione

Il recente inserimento dell’incompatibilità per i medici ospedalieri fra dipendenza pubblica e prestazioni in strutture private, ha certo contribuito a far rientrare una parte di comportamenti anomali.

La possibilità riservata ai medici pubblici ospedalieri di poter esercitare la libera professione entro le mura dell’ospedale, se da una parte riporta all’interno della struttura pubblica prestazioni che prima finivano in quella privata, introduce però un ulteriore pericolo: quello cioè che, senza una attenta verifica del rapporto fra attività istituzionale ed attività libero professionale, si riproducano le liste d’attesa sul fronte istituzionale, privilegiando così l’attività "privata" svolta all’interno dell’ospedale, con una forte diminuzione delle possibilità di accesso alle prestazioni sanitarie da parti sempre più consistenti di utenza che non è in grado di reggere il costo delle stesse.

L’insieme di queste considerazioni, ci porta a sostenere la necessità di una ridefinizione nei piani sanitari regionali e nei programmi annuali di attività, del livello di attività e servizi necessari, con l’esplicita previsione dei servizi ed attività che dovrebbero essere erogati in regime istituzionale, con la definizione dei tempi di attesa per le singole prestazioni, all’interno del quale potrebbero trovare complementarietà anche le attività svolte in regime di libera professione dalla dipendenza sanitaria e dalle strutture private.

E’ ovvio, ma comunque riteniamo di sottolinearlo, come questi piani dovrebbero prevedere il rafforzamento dello strumento della prevenzione e quindi l’implementazione della rete dei servizi territoriali, in un’ottica di integrazione dei diversi livelli (sociale-assistenziale-sanitario).

Ritornando sulla libera professione, pur ribadendo la nostra contrarietà di principio (non è comprensibile perchè ciò che il codice civile vieta a tutto il mondo del lavoro privato, dove regna il libero mercato, sia concesso in una "azienda " pubblica), vogliamo chiedere che almeno, se questa deroga vuole essere mantenuta, si impongano alcune condizioni certe, in modo che l’accesso ai servizi a pagamento sia una libera scelta e non un obbligo. Cito il mio esempio personale: per una visita ortopedica al Gaetano Pini di Milano ho atteso 7 mesi, mentre in libera professione la visita era immediata. Credo sia chiara la proposta che avanziamo.

 

 

 

Il disegno di legge n. 4230

Il disegno di legge n. 4230 "Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale" depositato nella Commissione Affari sociali della Camera è un primo segnale positivo: dopo 20 anni, per la prima volta si segna una discontinuità nelle politiche sanitarie, proponendo un disegno di legge specifico, pur con i rinvii a successive deleghe, sottraendolo alle logiche della finanziaria di turno.

Il disegno di legge tocca diversi punti che noi abbiamo già evidenziato nel nostro documento: dal nodo della partecipazione e quindi del ruolo dei Comuni, alla gestione delle risorse umane, attraverso la valorizzazione della dirigenza, al nodo della formazione del personale sanitario, al rapporto fra i medici di base e l’azienda sanitaria, alla ridefinizione dei ruoli dei diversi agenti (Ministero della Sanità, Regioni, Aziende sanitarie) per quanto attiene le funzioni di indirizzo, programmazione e controllo dell’attività sanitaria, alla regolamentazione della assistenza sanitaria integrativa.

Su alcune di queste questioni, vorremmo contribuire ad approfondire meglio il merito.

Il disegno di legge non entra nel merito di una riflessione sulle forme di finanziamento del SSN.

 

Un finanziamento legato al PIL

Qui noi ci sentiamo di avanzare una proposta molto precisa.

Nelle prime righe di questo documento precisavamo come il SSN sia uno degli indicatori del livello di civiltà di una società.

Per questo riteniamo non più ripetibile l’esperienza vissuta negli ultimi 15 anni nei quali la spesa sanitaria è stata vista solo come un costo.

Noi pensiamo ad una strettissima connessione dei tre fattori: analisi dei bisogni, programmazione, ricchezza disponibile.

Per questo proponiamo si predisponga un programma pluriennale del fabbisogno sanitario (compresi quindi investimenti sul versante della prevenzione), che venga finanziato da una percentuale precisa del PIL. Ciò in altri termini significa legare la spesa sanitaria alla reale ricchezza del paese, costringendo da un lato il Parlamento a discutere non di disponibilità di cassa, ma di modello di società, e dall’altro le Regioni e strutture sanitarie a dotarsi di veri piani di programmazione.

 

L’IREP

Sul versante del finanziamento siamo inoltre in presenza di una importante modificazione, e cioè l’introduzione dell’Irep che dovrebbe sostituire, a livello regionale, assieme ad altre piccole imposte minori, il contributo collocato sui lavoratori. E’ altrettanto evidente però la preoccupazione che, a partire da parametri percentualmente differenziati, anche in maniera divaricante fra le diverse Regioni italiane con riferimento alla spesa sanitaria regionale, l’introduzione di una nuova imposta che si attesta sul 4,5% potrebbe comportare con il tempo la necessità per alcuni territori (che hanno già quantità di risorse derivanti dal vecchio sistema di finanziamento più alte), di ridefinire il livello delle proprie prestazioni, introducendo un meccanismo di differenziazione dell’attuale livello di erogazione dei servizi, da territorio a territorio.

L’Irep è sicuramente una importante innovazione che va sostenuta attraverso un attento monitoraggio delle sue fasi di prima applicazione. Crediamo occorra però controllare almeno due possibili effetti negativi:

 

Il Piano Sanitario Nazionale

Occorre allora ragionare per definire in maniera chiara ed inequivocabile (e questo ruolo deve averlo il Piano Sanitario Nazionale) le prestazioni da erogarsi obbligatoriamente con quelle che possono essere collocate su quel livello di interventi integrativi aggiuntivi, che i singoli territori possono programmare con risorse aggiuntive. Questa distinzione dovrebbe operare non solo a carattere generale, ma anche con riferimento ai livelli minimi necessari richiesti nei confronti del singolo utente, del singolo territorio regionale, della singola Usl.

In quest’ottica programmatoria, dovrebbero essere inseriti anche i criteri di accreditamento delle strutture sanitarie private.

Queste problematiche ci conducono al ruolo che il Ministero della Sanità dovrà avere nel futuro.

 

Il ruolo del Ministero della Sanità

L’ubriacatura federalista (o meglio quella liberista) ha portato qualcuno anche a proporre l’abolizione di tale Ministero. In una fase di maggior potere delle regioni e maggior autonomia delle strutture sanitarie locali, va al contrario dato un ruolo centrale al ministero sul terreno della definizione degli standards esigibili da tutti i cittadini, così come va previsto che il Ministero debba avere un forte controllo sul rapporto, che deve essere funzionale e non d’interesse, tra la struttura pubblica e quella privata.

 

Il ruolo del Comune

All’interno di queste direttrici dovrebbe collocarsi anche il ruolo dei Comuni, che dovrebbe estendersi dal coinvolgimento nella fase programmatoria del servizio sul territorio a quello della valutazione dell’attività dell’azienda sanitaria e del suo dirigente generale. In questa direzione è positiva la delega introdotta nella legge, anche se andrà affrontata la questione di come il comune - i comuni (e valutiamo positivamente che non ci si sia riferiti al solo sindaco) interagiscono con l’azienda. Inoltre nella legge non si fa alcun riferimento agli ospedali - aziende. Non è infatti pensabile che queste strutture rimangano delle repubbliche autonome sul territorio.

 

Il ruolo degli utenti

Del pari, deve essere individuato lo strumento di partecipazione e controllo dell’utenza nei confronti non solo della programmazione sanitaria, ma più precisamente sulla valutazione dei servizi, in particolar modo nei distretti.

 

I fondi sanitari integrativi

Un ragionamento a parte merita la previsione di assistenza sanitaria integrativa, gestita da soggetti terzi, alla cui partecipazione nella gestione dei fondi potrebbero intervenire regioni e province autonome.

Siamo fortemente critici all’introduzione di fondi sanitari integrativi, anche se rileviamo che ormai sembra questa essere la strada con cui dovremo confrontarci. Riteniamo quindi necessario evidenziare alcune problematicità.

L’introduzione di forme di assistenza sanitaria integrativa possono portare gradatamente all’esclusione di quote sempre più consistenti di cittadini e cittadine dalla copertura di prestazioni assicurate attraverso questo strumento. Il mercato del lavoro ha subito profonde trasformazioni: flessibilizzazioni, precarizzazioni, disoccupazioni di fatto escludono questa fascia debole dalla partecipazione e quindi dall’usufruizione di tale forma. Non solo, anche per i lavoratori con un minimo di stabilità, occorre pensare che se continuiamo a trasferire previdenza e sanità integrative all’interno della contrattazione, rischiamo di appesantire il costo del lavoro e comunque - visti i tempi - di ridurre considerevolmente i salari.

L’aspetto più preoccupante è che la previsione di un livello di assistenza sanitaria integrativa sia in realtà una scorciatoia per rinunciare ad intervenire sul livello di sanità "istituzionale" - garantito a tutti - trasferendo progressivamente servizi essenziali sul fronte di quelli garantiti attraverso le forme integrative.

Su questa partita intendiamo ragionare, a partire però da alcuni elementi di chiarezza e cioè il rifiuto di qualsiasi assistenza sanitaria integrativa che copra prestazioni gestite oggi dal servizio sanitario pubblico. Forme di copertura integrativa potrebbero essere previste attraverso la costituzione - prevista contrattualmente - di "casse di solidarietà di sostegno ai rischi sanitari" che non solo prevedano vincoli statutari che escludano la copertura delle prestazioni sanitarie garantite dal sistema universalistico, ma che abbiano anche funzioni di controllo della spesa aggiuntiva ad esse rinviata, alle quali venga anche dato un ruolo istituzionale insieme ai comuni di funzioni di controllo sulle aziende sanitarie inserite nel proprio ambito territoriale, per quanto riguarda le prestazioni erogate.

 

In chiusura vorrei riprendere un’altra previsione del ddl - e non solo perchè sono una sindacalista della Funzione Pubblica - : cioè il passaggio che prevede di favorire la partecipazione degli operatori all’attività di valutazione e promozione della qualità dell’assistenza organizzata dalle strutture sanitarie pubbliche.

La mia esperienza di operatrice del settore mi consente di sostenere che, contrariamente a quanto si pensa, importanti modificazioni nell’organizzazione del lavoro e nell’erogazione dei servizi prendono il via dagli operatori, perchè gli amministratori pubblici spesso sono impreparati al riguardo.

Nella sanità, questa cosa è ancora più evidente: non occorre ricordare gli anni dell’emergenza infermieristica, che hanno visto il mantenimento del livello di erogazione dei servizi solo a partire dalla disponibilità totale di lavoratori e lavoratrici che saltavano sistematicamente turni di riposo, ferie..... La passione che spesso riscontro tra gli operatori e le operatrici della sanità è forse data anche dal fatto che il loro lavoro è sulla "materia umana". Certo non voglio nascondere anche i casi negativi che sono saliti agli onori della cronaca: trovo però che altrettanto non viene quotidianamente fatto per i tanti piccoli casi che rendono vivibile la vita del cittadino all’interno della struttura sanitaria. Credo allora sia importante sottolineare il "valore lavoro" degli operatori della sanità: valorizzare il lavoro d’équipe, attraverso il superamento dei rigidi steccati professionali (in questo senso crediamo siano da rifiutare le proposte di alcuni Ordini professionali che, partendo da una giusta richiesta di valorizzazione della professionalità, rafforzano la separatezza delle professioni), perchè è solo l’intreccio forte delle competenze che riesce alla fine a garantire quel "prodotto finito" che è la centralità degli utenti rispetto al servizio erogato. In questa direzione si dovrà muovere il contratto di lavoro in fase di rinnovo.

Allargare alla partecipazione degli operatori e delle operatrici quindi l’attività di valutazione e promozione della sanità è un percorso che prima che essere funzionale, diventa obbligatorio. In tal senso è importante quindi che recuperiamo anche le sperimentazioni organizzative e professionali che vengono quotidianamente praticate per sedimentarle nell’organizzazione del lavoro delle strutture sanitarie.

 

Conclusione

Per concludere, il sindacato e la sinistra nel suo complesso, non possono più rinviare una riflessione sul perché gli utenti, pur in presenza di un servizio con elevati risultati, con miglioramenti invidiabili in campo della salute, mantengono una certa avversione alla struttura sanitaria pubblica. Un esempio di ciò è anche il caso Di Bella, pur con le specificità che porta con sé. Innanzitutto vogliamo esprimere il nostro sostegno alla posizione della Ministra Bindi. La speranza non si tutela lasciando mano libera al caso. La vita non è una lotteria. La speranza, quella che basa su fondamento razionale, in campo scientifico è strettamente connessa alla verifica accertata dei risultati.

Va però detto che il mondo scientifico non sempre ha dimostrato il necessario distacco dagli interessi economici forti.

Il rapporto che le strutture sanitarie hanno nei confronti dell’utenza è spesso asettico, istituzionale, che da chi si trova nello stato di malattia, e dai suoi parenti viene vissuta come ostilità.

Il S.S.N. ha bisogno di miglioramenti, e per fare ciò occorre avere come priorità il rapporto con l’utenza. E non solo come enunciazione di principio, non solo per tutelare generici , quanto non esigibili, diritti. L’azienda sanitaria ed ospedaliera deve abbattere gli steccati che la separa dai cittadini.

Significa abbattere tutti i disagi che il paziente trova per accedere ai servizi ed ai ricoveri cancellando liste di attesa, eliminando le innumerevoli code: è la struttura che deve saper dialogare al suo interno e non il paziente che deve conoscere le "strade" della burocrazia.

Occorre non sottovalutare l’aspetto alberghiero della degenza. Occorre, inoltre, che il paziente venga coinvolto, attraverso l’informazione e la discussione, nella ricerca del metodo migliore per raggiungere la guarigione o per individuare la cura più efficace.

Il paziente come soggetto, e non come oggetto, di cura.

E in questo quadro, va anche cambiato radicalmente il ruolo del medico di famiglia, oggi completamente escluso dal rapporto con le strutture del S.S.N.

L’obiettivo da raggiungere è quello che quando sui mass-media comparirà un caso di cattivo funzionamento di una struttura (perché ciò può accadere) venga vissuta come l’eccezione e non come la regola. Già oggi in realtà è l’eccezione, ma l’opinione pubblica lo vive come la regola.

Anche a dispetto delle campagne di stampa questo è un obiettivo raggiungibile.