Camera del Lavoro di Bologna, 6 febbraio 1998
Alternativa Sindacale Filcea
Assemblea seminariale nazionale sulla contrattazione
Relazione introduttiva

 

 

Abbiamo più volte affermato che dobbiamo valutare i rinnovi contrattuali nel contesto della nuova fase che stiamo attraversando. Dobbiamo quindi cercare, con i nostri limiti, di definirla meglio, sottoponendo alla discussione delle ipotesi (che riteniamo plausibili ma tutte da verificare).

 

Le condizioni strutturali

 

Stiamo usando uno schema interpretativo che individua nella vita della società capitalista l'esistenza di "cicli lunghi" (alternanza di sviluppo e crisi) caratterizzati da particolari modi di produzione: la manifattura (fino alla metà del secolo scorso), poi la fabbrica organica (fino agli ultimi anni dell'800), la fabbrica taylorista (fino alla seconda guerra mondiale) e quella fordista (fino ad oggi). Attualmente (astraendo dalle oscillazioni di breve periodo), a partire dalla fine degli anni '60, siamo nella fase di crisi del fordismo. Molto, molto schematicamente:

Dal punto di vista del modello organizzativo, la prima risposta padronale alla crisi consiste nella segmentazione del ciclo produttivo (processi di distruzione) finalizzata alla ricerca della massima produttività dei singoli segmenti di ciclo, principalmente attraverso la riduzione dei costi (in particolare con l'aumento dell'intensità di lavoro e la riduzione dell'occupazione e del salario), attuata direttamente o anche con l'esternalizzazione di particolari funzioni/segmenti (decentramento, appalti, ecc.).

Questa risposta è però insufficiente, perché il fatto che i singoli segmenti del ciclo produttivo/distributivo siano diventati più efficienti non si traduce necessariamente in un aumento dell'efficienza complessiva. A questo punto per i padroni il problema diventa come ricombinare i singoli segmenti ristrutturati in un organismo con un superiore grado di produttività (processi di mutamento)

E' difficile dire esattamente a che punto siamo oggi perché, in genere, ciò che è sostanzialmente avvenuto diventa evidente solo qualche anno dopo.

Sappiamo che i processi sia di distruzione che di mutamento iniziano nella fabbrica e quando il paradigma si afferma pervadono l'intera società e che i processi di distruzione e mutamento si accavallano: dalla prevalenza dei primi si passa alla prevalenza dei secondi.

Possiamo ragionevolmente ritenere che oggi siamo ancora nella fase di crisi del fordismo (ci vorranno ancora diversi anni perché si affermi un nuovo modo di produzione), ma probabilmente i processi di mutamento iniziano a prevalere su quelli di distruzione.

 

Capitale finanziario e "ordine mondiale"

 

Vediamo ora (sempre molto, molto schematicamente) le dinamiche del capitale finanziario.

La seconda guerra mondiale decreta non solo la sconfitta della Germania ma anche il passaggio della leadership imperialista nel mondo occidentale dalla Gran Bretagna agli USA (passaggio sancito dagli accordi di Bretton Woods del 1944). L'avvio della crisi del fordismo si ripercuote anche a questo livello. Comunque gli USA riescono ad instaurare un sistema che vede un deficit commerciale USA (anche verso l'Europa ma soprattutto) verso l'estremo oriente. Dal punto di vista degli interessi USA il deficit commerciale è compensato dal fatto che il dollaro è la moneta di riferimento mondiale. Controllare il dollaro (in una situazione in cui i prezzi delle materie prime e gran parte degli scambi commerciali sono espressi in dollari) significa poter esercitare un certo controllo sull'andamento dei prezzi internazionali e sulle ragioni di scambio internazionali, poter stampare moneta senza provocare inflazione negli USA ma scaricandola sugli altri paesi.

Grazie a questa situazione, soprattutto dopo il crollo dell'ordine bipolare stabilito a Yalta, sono fioriti "teorie" e "racconti" secondo cui l'"area del Pacifico" sarebbe diventata il luogo/modo vincente a fronte della decadenza della vecchia Europa e gli USA sarebbero rimasti senza competitori politici. Questo concetto nella sinistra (molto permeata di una concezione terzomondista) è stato recepito con lo slogan: "la contraddizione si sposta da Est/Ovest a Nord/Sud", mentre sono state scarse le riflessioni sulle contraddizioni interimperialistiche. Nella sinistra è stato considerato superficialmente (o solo per i suoi effetti sociali) l'avanzamento del processo di formazione dell'Euro che tende a destabilizzare questo equilibrio.

La recente crisi finanziaria ha evidenziato la fragilità della cosiddetta "area del Pacifico" con i crolli delle Borse dell'estremo oriente e la previsione degli analisti finanziari di spostamento di flussi finanziari dalla "bolla" dell'estremo oriente inizialmente verso gli USA poi soprattutto verso l'Europa valutata più stabile nei "fondamentali". Ha rappresentato anche una vittoria degli USA nel sud-est contro il Giappone, ma al prezzo di portare le contraddizioni molto prossime al limite di rottura (vedi il recente convegno di Alternativa Sindacale Bancari).

Questa situazione può portare a diverse soluzioni: da una crisi verticale tipo 1929 (ma oggi ci sono più strumenti per evitarla), ad una spartizione del controllo del mondo tra USA ed Europa (ma è improbabile che gli USA accettino di rinunciare alla leadership ed aumentano gli eventi che dimostrerebbero il contrario), ad un aumento delle contraddizioni tra le tre macro-aree centrate su USA, Unione europea e Giappone o Cina, in particolare tra le prime due (ci sembra lo scenario più probabile).

Negli USA c'è chi, addirittura, prospetta lo scenario di una guerra tra le due sponde dell'Atlantico. A questi la segretaria di stato Albright, in una intervista a U.S. news e world reports, risponde che nel XXI secolo gli schieramenti militari saranno sostituiti dalle aree economiche. L'ipotesi è quella di una nuova guerra fredda (di una "guerra a bassa intensità") soprattutto a carattere commerciale ma (come è avvenuto nella competizione con l'URSS) in periferia anche guerreggiata (si potrebbero fare molti esempi: Africa, Medio oriente, America latina, Cina).

 

Il modello sociale europeo

 

Ipotizziamo che le crescenti contraddizioni tra USA ed Europa assumano la forma della contraddizione tra modelli sociali: liberista e neosocialdemocratico. Sembra cioè profilarsi un modello sociale europeo continentale (contrapposto a quello liberista anglosassone) le cui caratteristiche sono così sintetizzabili:

Il prevalere dei processi di distruzione su quelli di mutamento significa che non basta colpire la classe lavoratrice (ristrutturazioni, aumento dell'intensità di lavoro, riduzione del salario in fabbrica e nel sociale, ecc.), anche perché non è possibile spremere oltre un certo limite i lavoratori senza avere ripercussioni negative sulla stessa efficienza del sistema produttivo. C'è bisogno di una rapida accumulazione e quindi bisogna spremere anche i ceti medi tradizionali. E poiché tali ceti hanno finora consentito la "governabilità" con la loro funzione di ceti-sostegno, il problema diventa come e con chi sostituirli.

Tutto ciò (che abbiamo delineato sempre molto, molto schematicamente) porterebbe ad un nuovo blocco politico e sociale del tipo "alleanza dei produttori per la modernizzazione" tra grande capitale ed aristocrazia della classe lavoratrice.

Una "alleanza dei produttori" pone la questione del neocorporatismo e delle aristocrazie della classe lavoratrice quali nuovi ceti-sostegno al posto dei ceti medi tradizionali e, quindi, significa anche centralità della questione sindacale (incominciamo finalmente ad avvicinarci all'oggetto del nostro seminario).

Abbiamo già affrontato nel seminario di Riccione dello scorso anno la questione dei modelli sindacali in Europa (vedi anche il lavoro di Andrea Scacchi pubblicato su Alternative-Europa di ottobre-novembre 1997). In estrema sintesi le strade possibili vanno verso un modello aziendalistico di tipo anglosassone oppure verso un modello categorialista di tipo centro-nord europeo continentale e, all'interno del secondo è ancora aperto lo scontro sulla questione dell'autonomia e del carattere confederale del sindacato.

 

L'Italia nelle contraddizioni dell'Europa

 

Vediamo ora (sempre molto, molto schematicamente) quello che avviene in Italia.

I vecchi equilibri non reggono più. Il mutamento (l'Euro, ecc.) pone l'alternativa tra integrazione ed emarginazione.

Il mutamento del contesto determina nuove contraddizioni. Vediamone alcune:

Divisioni nel padronato: Il cambiamento del contesto economico nel 1996 (riduzione dell’inflazione, ecc.) ha determinato la divisione nel padronato tra i settori più integrati nei processi di mutamento europei e quelli che ricercano la loro competitività principalmente nei vantaggi di cambio e nella riduzione del costo del lavoro e che, non potendo più fare affidamento sul primo aspetto, pretendono con ancor più determinazione il secondo. La Confindustria (che attua una linea di mediazione tra esigenze strategiche di mutamento e rappresentanza tattica degli interessi legati ai processi di distruzione), con la sostanziale disdetta dell’accordo del 23.7.93 attuata nella vicenda del rinnovo del 2° biennio del CCNL metalmeccanici, segna un cambiamento di fase: ormai si propone l’eliminazione dei due livelli di contrattazione passando per lo svuotamento del CCNL, cioè si propone l’aziendalizzazione della contrattazione (falchi) o comunque una concertazione sempre più subordinata (colombe), e comunque l’eliminazione del carattere confederale e generale del sindacato.

Rivolte corporative e populiste di ceti medi tradizionali: La Lega ed il Polo cavalcano il disagio, ma sono strategicamente deboli, presi nel dilemma tra liberismo e populismo. Il governo Prodi sembra essere, invece, l'espressione di un nascente blocco politico e sociale tra grande capitale ed aristocrazia della classe lavoratrice per la modernizzazione accelerata e contro i ceti medi tradizionali (analogie tendenziali con la fase giolittiana). Infatti, possiamo osservare che stiamo passando dalla crisi oggettiva dei ceti medi tradizionali a misure esplicite del Governo per la loro destrutturazione (vedi le misure fiscali nella finanziaria per il 1998, la gestione delle vertenze per l'agricoltura, l'azzeramento delle licenze dei commercianti, le misure annunciate contro gli ordini professionali).

Si possono osservare anche misure ("pacchetto Treu", ecc.) che favoriscono la segmentazione della classe lavoratrice tramite la stabilizzazione di un ampio precariato e la formazione di aristocrazie (nelle aree, settori, qualifiche forti in relazione al mutamento ed all'integrazione nell'Europa forte).

 

La questione sindacale in Italia

 

In Italia si pone, in generale, la stessa questione europea dell'alternativa tra il modello aziendalista anglosassone e categorialista centro nord europeo continentale. Più in particolare, lo scontro è aperto sul carattere confederale e sull'autonomia, cioè tra una concezione del sindacato centrata sulle categorie ma con una forte connotazione generale e confederale ed una concezione più prossima all'aziendalismo.

Per comprendere la "geografia" e le dinamiche interne al sindacato (in particolare alla Cgil) non è più sufficiente utilizzare il parametro destra / sinistra ma occorre incrociare questo criterio con quello relativo alla concezione del ruolo e dell'autonomia del sindacato che, per semplicità, etichettiamo con politicismo / contrattualismo. [vedi lucido]

Tra i "contrattualisti" la destra sembra più disponibile ad accettare, per "realismo", il ripiegamento sulle aristocrazie operaie, mentre la sinistra (sia pure confusamente e senza una adeguata consapevolezza strategica) sembra maggiormente preoccupata della precarizzazione che mina l'unità della classe lavoratrice. Questa posizione, nella sua variante di sinistra (accompagnata da dichiarazioni spesso altisonanti e radicali a cui con corrisponde una pratica coerente) raccoglie posizioni che vanno dal tentativo di spendere a breve la Cgil per spostare a sinistra l'asse della Cosa 2, a posizioni da "tanto peggio tanto meglio" finalizzate alle tattiche interpartitiche, a semplici tentativi di scaricarsi dalle responsabilità della direzione della contrattazione. Nella sua variante di destra, sostanzialmente disponibile alle aree speciali, si va da chi nella Cgil si è schierato con D'Alema all'epoca della polemica con Cofferati, che concepisce il sindacato come un sostegno immediato ed integrato nella Cosa 2 nel quadro di una concezione neocorporatista, a chi nella Cisl immagina un processo analogo ma finalizzato a sostenere il centro dello schieramento politico. Da ciò si può dedurre il duplice carattere della nostra battaglia nella Cgil: contro i politicisti per difendere il CCNL, l'autonomia ed il carattere confederale del sindacato e contro la destra per difendere l'unità della classe attraverso il controllo del mercato del lavoro.

Se quanto detto sopra riesce in qualche modo ad interpretare la realtà, c'è bisogno di lavorare per un radicamento nella fabbrica e nella società a partire dalle difficili condizioni concrete ma con una visione generale (agire localmente ma pensare globalmente) ed abbiamo bisogno di un sindacato con una adeguata linea confederale generale.

Veniamo finalmente ai problemi concreti che abbiamo nella nostra categoria.

 

Per la democrazia ed il ruolo delle RSU

 

Dopo il positivo decreto legislativo relativo al Pubblico Impiego sulla rappresentanza e rappresentatività sindacale, sembra essere finalmente a portata di mano una legge anche per l'impiego privato.

Ciò mette ancora più in evidenza l'errore di impostazione della FULC che ha deciso un percorso di consultazione tutto interno agli apparati sull'adozione di nuove regole per l'elezione di RSU/RLS e per la consultazione nei rinnovi contrattuali escludendo delegati e lavoratori, e con proposte che tendono a spostare il "potere" dalle RSU e dalle assemblee dei lavoratori agli apparati sindacali.

La nostra iniziativa (con i vari documenti su "Regole e democrazia", ecc. faxati in tutte le regioni) ha contribuito ad imporre il dibattito e ad evitare il peggioramento.

Ma, a dimostrazione del fatto che il problema sta proprio nella sua "cultura", la FULC sta affrontando la scadenza del rinnovo dei CCNL chimica-farmaceutica-ceramica ed energia e del 2° biennio del CCNL gomma-plastica senza una adeguata e tempestiva informazione e coinvolgimento dei lavoratori e dei delegati.

E' un atteggiamento grave contro cui bisogna protestare con forza, anche perché l'insufficienza di democrazia sindacale, di informazione e di coinvolgimento dei lavoratori rendono più difficile la stessa possibilità di realizzare buoni accordi.

 

La nostra linea vertenziale

 

Nel seminario di Riccione dello scorso anno abbiamo tempestivamente ed opportunamente definito la nostra linea vertenziale. In sintesi:

  1. riguardo alle forme della contrattazione: difesa dei due livelli contrattuali, ed in particolare del CCNL, sottoposti ad una destrutturante offensiva padronale;
  2. riguardo ai contenuti: adozione di una linea che consideri l'insieme delle condizioni della classe lavoratrice (salario globale), cioè considerare nel loro insieme le questioni relative a salario, intensità di lavoro, flessibilità dell'orario e del mercato del lavoro, riduzione dell'orario, previdenza, ecc., senza contrapporle tra loro, quindi:
Ed altre questioni (politiche industriali, diritti di formazione, ecc.)

Riguardo alla riduzione dell'orario di lavoro (lo ripetiamo per chi continua a sostenere che le piattaforme dei chimici non prevedono la riduzione d'orario e quindi andrebbero ritirate e ripresentate), nella consultazione per la definizione delle piattaforme rivendicative siamo riusciti ad ottenere:

Anche riguardo alle rivendicazioni su salario ed assetti contrattuali, seppure con contraddizioni e non con la chiarezza che avremmo voluto, la piattaforma rivendicativa ha recepito la nostra proposta elaborata a Riccione.

Infine, la nostra forte battaglia sul "conto ore" e sulle flessibilità dell'orario e del mercato del lavoro ha contribuito alla fissazione di "paletti" sull'argomento.

 

La trattativa per il rinnovo del CCNL chimico-farmaceutico

 

Dunque siamo in presenza di una piattaforma condivisibile, ma (da quello che si può capire finora) c'è il rischio che la trattativa si svolga su una impostazione diversa da quella definita nella piattaforma.

Infatti la contrattazione in corso delle norme sul mercato del lavoro (per molti versi già compromessa dopo l'approvazione in Parlamento del "pacchetto Treu") vede comunque una preoccupante disponibilità da parte sindacale all'aumento delle flessibilità col rischio di stabilizzare una ampia fascia di lavoratori precari.

Come dicevamo, l'accordo nella maggioranza parlamentare per la riduzione dell'orario ha rafforzato le nostre piattaforme rivendicative sull'argomento. Una buona legge dovrebbe prevedere:

  1. la riduzione d’orario a parità di salario a 35 ore, anche per le aziende fino a 15 dipendenti, entro il 2001;
  2. la fissazione di vincoli per limitare le flessibilità, in particolare di un minimo e massimo giornaliero e settimanale, di un tetto e di una penalizzazione per lo straordinario e del suo recupero tramite un "conto ore" opportunamente normato, di misure e controlli contro l’utilizzo del lavoro nero, precario, ecc.;
  3. lo stanziamento di fondi adeguati e certi (come è già in Francia) per favorire la riduzione contrattata e l'assunzione di nuova forza lavoro a tempo indeterminato, recuperati attraverso la lotta all’evasione.
Non dobbiamo però fare un eccessivo affidamento sulla legge, anche perché l'accordo nella maggioranza parlamentare non prevede tutto quanto sopra dettagliato. Inoltre la legge non verrà prevedibilmente promulgata prima di giugno/luglio 1998.

Riteniamo che con il CCNL chimici sia necessario e possibile:

  1. realizzare le 35 ore settimanali a parità di salario per i giornalieri e le 33 ore (con la quinta squadra organica) per i cicli continui entro il 2001 per tutte le aziende (in questo senso è quanto meno incoerente l'ipotesi dell’orario d'ingresso");
  2. il "conto ore", che consente la compensazione plurisettimanale dell'orario, deve essere uno strumento ad utilizzo individuale e finalizzato al recupero degli straordinari e all'aumento dell'occupazione;
  3. in ogni caso deve essere fissato un minimo e massimo giornaliero e settimanale e prevista la contrattazione con le RSU in azienda per l'applicazione concreta dell'orario e delle flessibilità definite nel CCNL;
  4. il costo della riduzione a carico delle imprese (a parte il contributo statale) non deve essere giustificato con l'utilizzo di quote di produttività per non depotenziare il secondo livello di contrattazione;
  5. bisogna cercare di contrastare, per quanto è possibile, l'aumento della flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro (contenuto nel "pacchetto Treu", ecc.) valorizzando il ruolo negoziale e di controllo delle RSU;
  6. va evitata la contrapposizione tra riduzione d'orario e salario: il CCNL chimici deve e può prevedere anche adeguati aumenti salariali (oltre il tetto di inflazione programmata e con un meccanismo automatico di rivalutazione agganciato al PIL).
Su questi obiettivi dobbiamo svolgere una forte iniziativa nelle fabbriche, consapevoli del fatto che la contrattazione in corso nella nostra categoria assume oggettivamente un significato di grande rilievo, che travalica il settore e la categoria, poiché costituirà sicuramente un precedente determinante per gli altri rinnovi contrattuali, per la revisione dell'accordo del 23 luglio e per la stessa definizione della legge sulla riduzione d'orario.

La trattativa è ad un passaggio delicato ed importante ed è aperta a soluzioni diverse (c'è anche chi addirittura propone un sostanziale rinvio come per i cartai). E' quindi necessario che i delegati ed i lavoratori siano informati ed abbiano la possibilità di contare sulla gestione delle trattative, che vengano effettuati attivi dei delegati ed assemblee in tutti i luoghi di lavoro ed, in particolare, che si pretenda il rispetto delle regole esistenti sulle assemblee di mandato.