Introduzione di Giovanna Giorgetti all’incontro tenuto a Roma il 10 febbraio 1998 "Riflettere sui tempi: un Incontro" utilizzata anche come base per l'intervento effettuato al Seminario di Alternativa Sindacale tenutosi a Brescia il 20-2-98

 

 

L’intervento pubblicato dal Manifesto "riflettere sui tempi" è stato scritto da un gruppo di compagne della CGIL, esso non è risultato di un "percorso", ma una reazione spontanea di alcune donne diversamente collocate nell’organizzazione che hanno sentito l’esigenza di "uscire", di fare sentire la propria voce.

In realtà non siamo state le uniche, altre, come le compagne della FIOM lo avevano già fatto.

Tutte, e questa è la ragione di questo incontro, abbiamo sentito il desiderio di ritrovarci con donne non solo del sindacato, ma anche dei partiti delle istituzioni, giornaliste o comunque interessate per riprendere una discussione che è molto nostra quella degli orari e dei tempi.

Le cause che ci hanno spinto sono: il dibattito in corso per la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore e l’accordo firmato il 12 novembre scorso tra Confindustria e Sindacati per il recepimento della direttiva UE sulle 40 ore ( da noi l’orario legale settimanale è ancora di 48 ore).

Le donne sono da tempo consapevoli della portata della riduzione dell’orario di lavoro come risposta ai processi di globalizzazione e alla doppia rottura del rapporto tra produzione e occupazione e tra produttività e salari.

Il processo di accumulazione non ridistribuisce più al lavoro, ma anzi lo rende sempre più precario. Ma le donne sono anche consapevoli che gli effetti e la portata di tale obiettivo debbano riguardare non solo il lavoro dipendente ma anche il modello di sviluppo, il ruolo dello Stato Sociale, la qualità del territorio;

insomma esso intreccia strettamente il rapporto tra la produzione e la riproduzione.

Infatti noi donne non ci siamo mai limitate a parlare di orari, ma abbiamo sempre parlato di "politiche dei tempi". Per noi il tempo è difficilmente separabile in compartimenti stagni; il percorrere della vita è un tutto correlato. Per questo, per noi, non possono esistere gestioni separate del tempo: quella del lavoro dipendente di competenza delle parti sociali, quella della vita privata e sociale di competenza delle istituzioni o delle singole e dei singoli. Il tempo, il diritto a gestire la propria vita è un diritto di cittadinanza, gli uomini subiscono più delle donne le separatezze imposte dalla produzione, perché possono scaricare le contraddizioni sulle donne.

Proporre tempi che siano sostenibili rispetto alla vita delle persone, significa superare la vecchia logica che vuole risolvere i problemi semplicemente scomponendoli in parti sempre più piccole e separate, da una parte si discute del lavoro, da un’altra dei servizi, dall’altra della scuola ecc.

Citiamo la proposta sui tempi delle donne del PCI, non perché sia stata l’unica, ma perché faceva questo sforzo di complessità; la riproduzione è parte centrale della vita, non una sua derivata secondaria, la qualità sociale si misura anche in termini di tempo disponibile per la cultura, la formazione, gli affetti, il corpo, l’impegno sociale. Questa proposta aveva il merito di rimettere insieme il lavoro e il territorio, limitando così la centralità della impresa a governare il tempo e lo spazio.

Ma quella proposta, ed era tra le cose che più mi aveva colpito, inseriva anche un concetto sociale del tempo, si può rispondere ai bisogni della società, della socialità anche in termini di tempo della propria vita e non solo di reddito.

Questo concetto mi sembra di portata straordinaria - in una era in cui tutto viene mercificato e tradotto in danaro, si propone il tempo come unità di misura della qualità sociale - alla collettività si contribuisce anche con il tempo, costruendo un rapporto nuovo e più profondo tra desiderio e utilità sociale.

Peccato che questo concetto ha finora trovato applicazioni importanti ma limitate, tutte in ottica di piccoli gruppi e un po’ privatistica come le banche dei tempi.

Oggi la riduzione dell’orario di lavoro è finalmente, in Europa, nell’agenda politica in Francia, in Italia e se ne discute persino in Svizzera; merito dei Governi, ma, ci tengo a rilevarlo, non è un risultato solo politico, ma anche frutto di processi di consapevolezza più generale cui hanno contribuito in particolare la cultura e l’iniziativa delle donne.

Del resto gran parte delle esperienze innovative di gestione dei tempi sono promosse e realizzate da donne.

Per questo trovo il dibattito in corso molto preoccupante per i toni che sta assumendo e per la sua qualità: Questa assurda contrapposizione tra legge e contrattazione, e la sua "personalizzazione", come se il problema dell’orario fosse una questione solo di capi dei partiti e dei sindacati, tutti rigorosamente maschi naturalmente!

La legge è assolutamente necessaria, ma è anche essenziale il ruolo della contrattazione. Il nodo è quale legge e quale contrattazione. Lo dice il buon senso.

Le legge deve fissare la nuova durata massima del lavoro, deve stabilire scadenze, definire incentivi e disincentivi, ma soprattutto diritti universali per tutte e tutti valevoli in tutte le situazioni che ci sia poi contrattazione o meno.

La legge deve incentivare e sostenere le contrattazione, il controllo collettivo dei lavoratori e delle lavoratrici, la possibilità di conciliare gli imperativi delle imprese con i bisogni delle persone. Perché lo sappiano il nodo è poi tradurre gli obiettivi definiti dalle legge nella diversità delle situazioni reali.

Per questo occorre ridare parola ai soggetti più direttamente coinvolti alle donne e agli uomini inseriti nel lavoro dipendente e non solo.

In primo luogo è necessario dare una risposta netta e di movimento alle posizioni della Confindustria, che attacca furiosamente l’ipotesi della legge perché vuole tutta la flessibilità e disponibilità del lavoro possibile e in ogni caso senza alcun aggravio di costi. Il sindacato è diviso, si sente espropriato e rischia di essere subalterno alla Confindustria nell’assurda contrapposizione tra legge e contratti. Ma quello che conta, nonostante le interessanti prese di posizioni nei congressi e in vari documenti, esso non ha saputo o voluto in questi anni imporre una strategia di riduzione degli orari nei contratti nazionali. Qualche risultato è stato ottenuto a livello aziendale, ma in situazioni di difesa, a fronte di attacchi occupazionali e in cambio dell’ampiamento dell’utilizzo degli impianti la notte o la domenica o di ampie flessibilità. Questo non toglie che alcuni risultati sono stati significativi e con effetti positivi sulle lavoratrici e i lavoratori coinvolti.

In realtà chi contrappone contratti a legge rischia di non voler fare nulla.

Se la legge è necessaria, bisognerebbe discuterne il contesto, la sua portata, il suo respiro politico.

Forse è l’ora di chiedersi chi governa i tempi visto che le disparità tra i soggetti sono crescenti. Il tempo è anch’esso un processo di redistribuzione del reddito nei processi di accumulazione, è una variabile sempre più importante anche per l’equità sociale tra lavori garantiti e precari e disoccupati, un terreno della stessa politica economica del Paese.

Si tratta di ridistribuire l’enorme crescita di produttività in ore di riposo, per sé, per gli affetti, ma anche per la società, e di ridistribuire tempo tre chi ne ha forzatamente troppo e chi non ne ha; di eliminare il cattivo uso degli straordinari, ma anche di ridistribuire lavoro, tutti i lavori produttivi e riproduttivi tra i sessi.

La situazione delle donne di dover coprire contemporaneamente molti ruoli comporta un enorme carico di lavoro giornaliero. Se si sommano, sempre secondo il rapporto dell’ISTAT, le ore di lavoro familiare ed extradomestico, si scopre che oltre il 35% delle donne occupate lavora 70 ore o più a settimana ( contro il 7,7% degli uomini ), mentre il 54% supera le 60 ore.

Nel 6° Rapporto sullo sviluppo umano (la parte delle donne Undp - 1995) è stata condotta una vasta ricerca sulla quantità di tempo impiegata da donne e uomini in attività per il mercato e non per il mercato. Prendendo in considerazione paesi industrializzati o in via di sviluppo, i dati ottenuti sono stati usati per fornire stime relative al valore del lavoro domestico e di altre forme di lavoro non retribuito.

L'esame dei 31 paesi campionati ci rivela una situazione piuttosto drammatica:

In quasi tutti i paesi, le donne lavorano per un numero maggiore di ore degli uomini. Le donne si assumono in media il 53% e il 51% del carico totale di lavoro rispettivamente nei paesi in via di sviluppo e nei paesi industrializzati.

La riduzione dell’orario di lavoro è anche un fatto culturale, investe il modello dei consumi, l’ambiente, può porre le basi per una società meno sprecona, può rallentarne i ritmi ormai vicino alla saturazione, contenerne i consumi energetici, ridare umanità alle città.

Le stesse esperienze delle Banche del tempo incontrano grossi limiti perché spesso chi domanda tempo non è in grado di darne.

La complessità del tempo si misura anche nella interconnessione tra tempo e spazio, Mario Agostinelli nel libro " tempo e spazio nell’impresa post-fordista", fa rilevare che quando si produce "ordine" in un punto si produce disordine più elevato nell’ambiente circostante.

Così anche gli interventi sui tempi della produzione rendono più "produttiva" la fabbrica ma si riversano nel territorio; è provato che il così detto just in time, riduce i tempi necessari per la produzione e la consistenza dei magazzini, ma aumenta il traffico di merci sul territorio. L’efficienza guadagnata nella produzione è scaricata in inefficienza del contesto esterno, in aumento dei disagi, dell’inquinamento, dei consumi di energia....

Anche l’aumento dei turni di lavoro causa effetti sul territorio, si impatta con il sistema dei trasporti, l’orario dei servizi, e le vite delle presone che li subiscono anche quando non sono direttamente coinvolte con la produzione.

Chi ha fatto contrattazione nei luoghi di lavoro, specie ove sono prevalenti le donne, sa che la ricomposizione dei tempi è molto difficile e a volte traumatica e bisogna saper cogliere tutte le differenze e le specificità; orari che vanno bene in situazioni di campagna, con brevi percorrenze casa - lavoro, non sono proponibili nella aree più industrializzate o metropolitane. Basti pensare al famoso 6 per 6 ( 6 ore per 6 giorni) delle lavoratrici tessili.

Per le donne l’equilibrio tra vita personale e lavorativa è più complicata, esse chiedono contemporaneamente più rigidità e più flessibilità, ma certamente non nel senso in cui la intende la azienda. La mia esperienza nel settore tessile mi insegna che non solo le donne accettano condizioni di orari diversi a seconda del territorio, dell’età, della situazione familiare, ma che non tollerano di cambiarli sovente, e sono fortemente contrarie a tutte le normative sulla flessibilità (specie di straordinari collettivi contrattati con obbligo di recupero ) previste dai contratti.

In Lombardia ci sono anche esempi di ribellione delle donne nei confronti di accordi su regimi di orari insopportabili, come recentemente nel commercio.

Viceversa le donne chiedono una loro flessibilità, che preferisco chiamare bisogno di libertà. Libertà di avere più disponibilità di tempo per fare fronte alle esigenze personale, più permessi, congedi, flex time. Spesso è questa la ragione che costringe le donne nei lavori atipici, in cui le ore di lavoro non sono certo meno di quelle del lavoro dipendente, anzi spesso sono maggiori, ma che consentono , pur a enormi costi, di conciliare il lavoro con i bisogni delle vite familiari.

Ma parlare di tempi significa anche affrontare i nodi della qualità e della intensità del lavoro. E’ evidente che in un dibattito, come quello imposto da Confindustria, tutto portato sullo scambio di flessibilità ci sia preoccupazione e poco entusiasmo tra le lavoratrici e i lavoratori.

Le donne avevano prodotto una loro elaborazione, ricordo una iniziativa a Milano e a Brescia, lavorare tutte lavorare meglio, in cui si contrapponeva qualità, consapevolezza, controllo del proprio lavoro ai parametri della disponibilità della quantità come misura di un lavoro sempre più alienante.

Il tempo per tutti e per le donne, in particolare ha più dimensioni, non è sempre uguale, nella giornata, nella vita, dipende da quello che si fa e come lo si fa. E questa consapevolezza deve entrare anche nella contrattazione degli orari di lavoro.

Per questo il testo dell’accordo Confindustria Sindacati del 12 novembre scorso ci fa discutere e ci trova in dissenso su alcuni punti.

Per tener conto di questa complessità, qual è il riferimento più adeguato alla ridefinizione dell’orario massimo di lavoro, Il giorno, il mese, l’anno?

L’intesa prevede per i contratti la possibilità di una misura del tempo di lavoro su base annua ( più esattamente come media effettuata su periodi plurisettimanali fino ad un limite di 12 mesi), ma con il solo vincolo del diritto del lavoratore ad un riposo consecutivo di 11 ore ogni 24 ore, salvo ovviamente diversa disposizione contrattuale. Ci potrebbe perciò essere una giornata lavorativa di 13 ore!

Francamente mi sembra improponibile! Il parametri dell’orario di lavoro debbono tener conto di vari fattori: l’impatto occupazionale e quindi l’esigenza di limitare gli straordinari, ma anche le esigenze della vita di lavoratrici e lavoratori, il vincolo di non peggiorare le condizioni di lavoro ma piuttosto di considerare che la nuova organizzazione di lavoro richiede ritmi sempre più feroci e attenzione.

La logica di ricondurre tutto all’orario massimo annuale rischia invece, di essere causa di crescente costrittività per le lavoratrici; del resto abbiamo dei seri dubbi che sia giusto lasciare così ampio margine alla mediazione dei rapporti di forza, quando si tratta di questioni che investono molto intimamente la vita sociale e familiare.

La vita delle donne, soprattutto, è regolata dallo scorrere della giornata, i bisogni dei figli non sono flessibili, i servizi hanno tempi determinati, spesso troppo rigidamente, ma anche la baby sitter per eccellenza, la nonna, ha i suoi tempi e i suoi bisogni. Per questo servono dei confini, dei paletti che determinano anche la durata massima del giorno e della settimana.

Un’ultima riflessione riguarda la notte, ma andrebbe anche estesa a tutti gli orari disagiati.

La notte è nociva lo dicono tutti gli studi e anche la raccomandazione della UE sulla salute nei luoghi di lavoro, ma La Corte Europa aveva denunciato la legge 94/77 circa il divieto al lavoro notturno delle donne perché contraria alla parità. La Corte non obbliga al lavoro notturno, ma non accetta differenze di genere, se non per la tutela della maternità. Si potrebbe ovviamente rispondere rifiutando il lavoro notturno per tutti salvo deroghe per particolari esigenze sociali e tecnologiche. L’accordo Confindustria Sindacati invece apre al lavoro notturno per le donne stabilendo alcune esclusioni per le lavoratrici in gravidanza e puerperio, per i genitori con bambini a carico fino ai tre anni, o con soggetti handicappati a carico.

Noi donne avevamo incominciato a discuterne, in seguito alle note sentenze, ma se ne è tenuto poco conto, noi difendevamo la legislazione italiana perché riconoscendo il diverso disagio per donne e uomini nel lavoro di notte ma consentiva poi alla contrattazione di derogarne in considerazioni delle singole specificità e della volontà delle donne.

Si è prodotta su questo punto anche una interessante contrattazione di cui ne hanno giovato tutti uomini e donne.

Ma se si vuole ridiscutere dal lavoro notturno, perché non parlarne partendo dalla sua nocività e della sua necessità (è sempre giustificato?), per definire le tutele per lavoratrici e lavoratori, tramite divieti e non solo non obblighi, per definire criteri di durata (quante ore per quanto tempo della vita è sostenibile?), le condizioni salariali, ambientali e della sicurezza del lavoro e personale necessarie ecc...

La discussione sull’orario e sui tempi deve avere un ampio respiro, e bisogna già da ora fare questa battaglia; anche gli stessi effetti occupazionali si misurano su questa capacità di fare del tempo una variabile del modello di sviluppo e di società, altrimenti gli stessi effetti immediati saranno presto assorbibili dalla produttività e dalla crescita della precarietà del lavoro. Per questo occorre mettere in campo tutti i soggetti, le esperienze, e in particolare la grande esperienza ed elaborazione delle donne è un impegno che chiediamo a tutte noi, ma soprattutto ai soggetti sociali e istituzionali.