Note critiche del coordinamento regionale (Lazio) RSU sul documento confederale CGIL "LINEE DI INDIRIZZO PER UNA RIFORMA DELLO STATO SOCIALE" La lettura del documento confederale in oggetto, ha fatto emergere molte perplessita sulle linee di fondo che hanno informato la stesura del testo. Le note di critica che seguono evidenziano le perplessita' emerse, e svolgono un'analisi dei vari capitoli della proposta di riforma dello Stato Sociale, per fornire una chiave di lettura del testo. Nelle prime righe della parte del documento indicata come " premessa ", si afferma troppo frettolosamente, in altre parole senza aver fornito spiegazioni/motivazioni convincenti, che " la riforma dello Stato Sociale e' dunque una necessita' (non evidenziato nel testo), dovuta ai nuovi bisogni e trasformazioni della societa', ed e' interesse del sindacato confederale contribuire con una propria proposta che combatta nuove forme d'esclusione sociale ed allarghi la sfera dei diritti". Sulla base delle affermazioni contenute nelle righe precedenti, non e' certamente possibile concordare che si tratta di una necessita' (un qualcosa d'ineluttabile). Pertanto o il redattore del documento non ha prestato attenzione ai termini che usava, ed in questo caso si puo' parlare di una riflessione frettolosa, oppure si ricade nell'ipotesi di un'intenzione volta ad aprire un varco alle richieste della controparte, ed in questo caso le buone volonta' dichiarate di combattere l'esclusione sociale e di estendere i diritti, non sono altro che metodi per buggerare il popolino, tecniche mistificatorie per edulcorare pillole molto amare. Da quest'affermazione, conseguentemente in cascata, si produce il documento con le varie ipotesi di riforma che andremo a considerare. Per quanto concerne la dinamica demografica va detto esplicitamente che si tratta di una falsificazione, non e' vero che l'esplosione del problema economico sulle pensioni, o sulla sanita', deriva dal fatto che ci sono piu' anziani a seguito dell'allungamento la vita media, bensi il problema emerge dalla contrazione dell'occupazione in seguito alle forti ristrutturazioni, ai prepensionamenti, e alla totale mancanza di una politica seria occupazionale. E' naturale che se non si opera per espandere la popolazione effettivamente impiegata, la percentuale dei pensionati prevale sugli occupati. Va detto, inoltre, che le statistiche elaborate dalla controparte non tengono conto del lavoro sommerso e di quello minorile, che nella nostra cattolica e progredita Italia e' molto consistente, ed inoltre rappresenta, per i minori, una delle principali cause d'abbandono degli studi. Non si puo' assolutamente concordare con chi tende a centrare il problema economico sulla causa demografica, affermando strumentalmente che la popolazione anziana e' in aumento rispetto a quella giovane e grava pesantemente su quest'ultima, se non si permette a chi e' in condizione di esprimere un'attivita' lavorativa, di entrare nel circuito produttivo, e a maggior ragione, se si continua a licenziare e a ridurre la popolazione attiva, aumentano i carichi di lavoro per quelli occupati. Prima di preoccuparsi delle culle vuote bisogna aver assorbito nel lavoro, tutti quelli che possono e vogliono svolgere un'attivita', altrimenti si fa della pura e complice demagogia. Soltanto nel caso in cui, avendo impiegato tutti i giovani desiderosi e bisognosi, e avendo ridotto a zero la disoccupazione, troveremmo necessario, per soddisfare altri bisogni, espandere ulteriormente il lavoro, allora si che le culle vuote rappresenterebbero un problema, e dovremo operare per trovare una soluzione a quella che a queste condizioni, a giusto titolo, potrebbe essere chiamata questione demografica. Molte di queste allusioni demografiche hanno fatto da base strumentale per portare l'attacco alle pensioni, e questo con la complicita' del sindacato (non si puo' piu' continuare a pensare a compagni che sbagliano, siamo di fronte a sindacalisti adulti, smaliziati, e che operano vergognose mistificazioni). La riduzione dell'orario di lavoro a parita' di salario, coerentemente coniugata ad un'efficace politica salariale che tenda a recuperare quelle situazioni a basso reddito, unitamente ad una seria campagna d'indagine che faccia emergere la consistenza del sommerso e che apra la strada per un recupero sia contributivo sia fiscale, e' la soluzione che puo' far scomparire sia le preoccupazioni demografiche, sia quelle relative alle risorse per il nostro Stato Sociale. Non s'intravede nel documento una posizione chiara d'opposizione ai parametri di Maastricht, e quando se ne parla nella premessa, si afferma che bisogna procedere ad una serie d'investimenti per contrastare l'effetto recessivo delle politiche di contenimento della spesa sociale, conseguenti alle manovre per l'ingresso in Europa. Si accettano quindi i parametri, e si tenta di controbilanciare l'effetto di questi, tramite improbabili politiche d'investimento. Da un sindacato dei lavoratori ci si aspetta di piu'! Molto ambigue appaiono le qualificazioni di "intervento pubblico sovente passivo, " auspicando invece un metodo di tipo attivo. Molte di queste ipotesi d'intervento attivo dello Stato, nascondono politiche di contenimento di spesa, di quadratura di bilancio, criteri manageriali di gestione della cosa pubblica, in definitiva i capisaldi dell'attacco allo Stato Sociale. Lo Stato non e' un'azienda, e tanto meno deve funzionare con i criteri di questa. Criticabile e' anche la posizione sulla formazione professionale, i cui costi vengono scaricati dalle imprese alla collettivita'. Sempre sul tema della formazione, non si accenna minimamente, o forse non ci si rende conto, che con le politiche di formazione si tendono a distorcere le cause della disoccupazione reale del paese, facendo assumere all'aspetto professionale un ruolo rilevante (mentre nella realta' e' del tutto marginale) poiche' il problema e' di natura totalmente economica. C'e' da dire inoltre che tramite i percorsi professionali, si fa scomparire temporaneamente (la durata dei corsi) parte della disoccupazione reale, e a conferma di quanto appena detto, dall'esperienza maturata in altri paesi dove sono gia' stati sperimentati questi percorsi formativi, emerge che nonostante il valore aggiunto dalla formazione, non si sono registrati sensibili miglioramenti sul problema occupazionale. In piu' parti il documento e' permeato da logiche di privatizzazione o di svendita del patrimonio demaniale. Maggiore attenzione va posta alla questione del federalismo fiscale. Le autonomie regionali possono rappresentare una tappa fondamentale per una forte differenziazione sociale sul territorio nazionale. Dato che gran parte dello Stato Sociale poggia sulla fiscalita' generale, si puo' immaginare cosa accadra' con l'introduzione di un federalismo fiscale. Da qui in cascata le ripercussioni sugli spazi democratici, poiche' una riduzione di potere sia economico sia d'intervento dello Stato, e' seguito da un incremento di entrambi a favore delle regioni. Prevale il particolare sul generale. Quali ripercussioni sul mondo del lavoro, dove da queste autonomie territoriali sara' automaticamente facilitata la deriva verso una differenziazione regionale, motivata a questo punto con piu' forza dall'autogoverno dell'amministrazione economica. Con una cosi diminuita influenza, a seguito del maggior decentramento delle politiche d'investimento a livello regionale, come puo' lo Stato intervenire se non come tappabuchi sulle conseguenze di scelte locali, quale voce in capitolo riesce ad avere! Non c'e' da salutare il federalismo come un bene, bensi opporsi ad esso poiche' rappresenta la piattaforma per un'involuzione ultra-liberista e di destra. Il nostro federalismo, infatti, si caratterizza in opposizione a tutte le forme di federazione che hanno preso corpo nel mondo, perche' non tende a riunire stati in una realta' soprannazionale (quindi a far prevalere l'aspetto generale su quello particolare) bensi per interessi economici particolari si divide uno Stato unito in realta' autonome economicamente, che in tal modo possono curare la loro differenziazione in opposizione all'interesse comune, vissuto come un peso. Preoccupante il passaggio, nella parte riguardante " il lavoro", dove si definisce "un primo passo" il decreto legislativo per le politiche attive del lavoro, dove per riqualificazione del pubblico s'intende, sostanzialmente, un superamento del monopolio pubblico del collocamento, in favore del privato, delle agenzie del lavoro interinale. Sull'ipotesi avanzata di una "flessibilita' salariale agganciata ai percorsi formativi", non si puo' essere assolutamente d'accordo, anche se si afferma di voler garantire l'applicazione dei contratti nazionali, lasciando intendere che le variazioni salariali verrebbero sommate ad una base contrattuale in ogni caso garantita. Questa proposta fa emergere perplessita', sia sulla notevole differenziazione in tal modo consentita, che si aggiungerebbe quindi, alla stratificazione a livelli gia' consistente, sia sulla reale evoluzione della copertura (il livello di vita garantito) dalla base contrattuale. Da queste due considerazioni si puo' comprendere quale buona opportunita' si offrirebbe al datore di lavoro, per spremere e ricattare ancora di piu' i dipendenti. Deve essere chiarito cosa s'intende quando si afferma che "va approntato un organico intervento, per l'inserimento nel lavoro delle giovani generazioni (utilizzando a tal fine anche il servizio civile) ". In altri passaggi del documento emerge la volonta' di deviare i soldi dei lavoratori, verso compagnie d'assicurazione, verso privati, in particolare, nella parte in cui si vogliono trasformare gli ammortizzatori sociali, che ora si alimentano con risorse provenienti dai lavoratori e gestite dallo Stato, in un'assicurazione obbligatoria sempre pagata dai dipendenti, ma governata da privati. C'e' da rilevare che nel passaggio da forme di gestione pubblica ad altre di tipo assicurativo, vi e' immediatamente un abbattimento consistente dell'aspetto redistributivo delle risorse collettive, che normalmente trovano il percorso per assistere chi, in seguito a ristrutturazioni o crisi cicliche, perde il lavoro. L'ammontare dell'abbattimento di quest'elemento redistributivo va a costituire il realizzo delle compagnie d'assicurazione. Per questo motivo oggi assistiamo ad una forte campagna a favore, della trasformazione della previdenza, e dell'assistenza, da pubblica a privata. Consistenti risorse economiche (provenienti dai salari dei dipendenti) anziche' raggiungere lavoratori bisognosi, devono trovare la via per giungere nelle tasche delle compagnie d'assicurazione, del grande capitale. Che la politica sia notevolmente penetrata, compromessa, con il mondo dell'imprenditoria lo sapevamo ed e' stato confermato inequivocabilmente da tangentopoli, ma che un sindacato dei lavoratori come la CGIL, si faccia sorprendere, o sia cosi "distratto" tanto da non rendersi conto di cio' che bolle in pentola, e' molto difficile da credere, anche per i piu' ingenui! Questo sindacato da molti anni oramai "sorprende troppo", ed negli ultimi tempi la forte disponibilita' verso le privatizzazioni, e l'enfasi con cui dipinge come vantaggiosa una gestione delle risorse da parte delle assicurazioni, e' a dir poco angosciante. Si sta operando ai danni dei lavoratori una consistente sottrazione di salario, sia diretto, sia sociale, un furto, altro che un vantaggio! Proseguendo nella parte del documento riguardante il lavoro, c'e' da ridire anche sul punto b). Qui si prospetta un "Trattamento di mobilita' e per il reimpiego connesso a percorsi di formazione e riqualificazione, su base assicurativo- fiscale a prevalente finanziamento contributivo", percio' una parte verrebbe prelevata dalla fiscalita' generale, un'altra porzione sarebbe versata dal lavoratore e la fetta piu' consistente dal datore di lavoro. Per la prima volta si afferma che, per provvedere alla necessita' di una formazione/riqualificazione futura (nel caso gia' disgraziato per se, di un trattamento di mobilita' e reimpiego) il dipendente dovra' partecipare al costo della riqualificazione con proprie risorse. Si dice al lavoratore che sono cambiati i tempi, che mentre sino ad ieri la formazione avveniva nelle imprese e a carico di queste, per il futuro, le cose dovranno cambiare ed egli sara' costretto a cominciare sin da ora a mettersi da parte dei soldi (versandoli a compagnie d'assicurazione) (sic!). Le imprese devono essere alleggerite, poiche' non possono piu' farsi carico di tali costi! I tempi sono cambiati! ... Un sindacato moderno che sta al passo con i tempi e che vuole tutelare i lavoratori! ... (sic!) Non e' possibile credere che la volonta' del sindacato di proteggere i lavoratori, da anni ormai, si traduce sempre in una penalizzazione di quest'ultimi. E' da molto tempo che assistiamo ad una metamorfosi di significato, un fenomeno particolare che investe la lingua parlata dai sindacalisti - protezione si traduce in penalizzazione - tutela dei salari in abbattimento del salario reale, flessibilita' salariale - tutela del posto di lavoro in mobilita', flessibilita' - politiche per l'occupazione in incremento dell'eta' pensionabile, ristrutturazioni. Bisogna usare il dizionario dei contrari per tradurre il linguaggio. Nella parte riguardante l'assistenza, ed in particolare nel passaggio dove si afferma che si vuole passare da "forme di sostegno passivizzanti a una corresponsabilizzazione dei cittadini in processi di fuoriuscita individuale e collettiva dall'indigenza e dal disagio ... ", si comprende chiaramente che c'e' la volonta' di restringere il sostegno economico dei disoccupati/inoccupati, ridurre i periodi d'assistenza economica. Nella fase storica che stiamo attraversando, dove il problema occupazionale assume connotati drammatici, ridurre l'entita' dell'assistenza, non produce altro che un incremento della sofferenza sociale, altra penalizzazione per chi e' in condizioni fortemente disagiate. Piu' avanti nel passaggio riguardante il terzo settore si afferma che esso "puo' diventare un protagonista della trasformazione del Welfare, in funzione d'integrazione dei servizi pubblici", e nelle successive righe riguardanti l'argomento, si afferma che "il terzo settore puo' utilmente intervenire soprattutto nelle grandi citta' dove i servizi pubblici non sono in grado di rispondere all'aumento della domanda e dei costi". E' chiaro che mentre nelle righe precedenti si afferma di voler evitare che il terzo settore si configuri come un'area di subappalto e a basso costo, nella realta' si desidera utilizzarlo proprio in questa accezione. In conclusione, il documento confederale oltre a presentare in molti passaggi uno sviluppo contraddittorio, (si affermano cose che sono contraddette subito dopo, o nello sviluppo d'altri punti) esso e' orientato a restringere i margini dello Stato Sociale, soprattutto perche' permeato, in modo consistente, da un'ottica di gestione dello Stato Sociale prevalentemente manageriale, privatistica, criteri questi inconciliabili con la filosofia di base del Welfare. Pertanto si ritiene che tale documento vada respinto integralmente. 6