UN'ANALISI CRITICA DELLE PROPOSTE CGIL-CISL-UIL SULLA RIFORMA DELLO STATO SOCIALE COORDINAMENTO REGIONALE DEL LAZIO DELLE DELEGATE E DEI DELEGATI ELETTI NELLE RSU ROMA 5 LUGLIO 1997 PREMESSA Ci sembra che il tutto il percorso finora seguito per prepararsi al confronto sulla "riforma dello Stato sociale" - che parte dal documento sulle "Linee di indirizzo per una riforma dello Stato sociale", approvato dal C.D. nazionale della Cgil del 18 aprile 1997, per arrivare alle proposte unitarie Cgil-Cisl-Uil - sia gravemente compromesso dalla mancanza di interlocuzione con i diretti interessati della suddetta "riforma": i lavoratori. Non ci risulta che siano stati coinvolti nella fase piu' importante, quella della costruzione della piattaforma medesima. La consultazione che si apre in questi giorni prende a riferimento un testo che e' gia' il frutto di una mediazione di vertice a livello confederale, ed e', appunto, solo una consultazione e non un percorso democratico di costruzione dal basso e sintesi di obiettivi rivendicativi. Questo metodo ricorda l'infausto precedente della controriforma previdenziale del governo Dini e non ci sembra che sia il caso di procedere ancora su questa via, se si vuole che il sindacato conservi il consenso dei lavoratori come base della sua legittimazione. Per tale motivo, al di la' dei contenuti di merito, riteniamo pregiudiziale a qualsiasi confronto con il governo la realizzazione di una consultazione vincolante dei lavoratori. Cio' e' tanto piu' necessario in quanto la proposta governativa parte da presupposti che non possono essere condivisi. Si dice infatti che "il rispetto del piano di stabilizzazione proposto dal Governo con il Dpef, prevede che lo sforzo piu' consistente debba essere sopportato nel 1998... infatti occorrera' adottare una manovra di contenimento di indebitamento della P.A. di 25.000 miliardi (pari all'1,2% del Pil), dei quali 10.000 miliardi attraverso misure di adeguamento delle entrate e 15.000 miliardi di riduzione delle spese... Le misure di riordino dello stato sociale si rendono ancor piu' necessarie se si considera che per le spese relative alle prestazioni sociali e' prevista, per il periodo 1997-2000, una crescita media annua termini reali del 2,99%... l'obiettivo che ci si prefigge e' quello di stabilizzare le prestazioni sociali sul Pil al valore medio del biennio 1996-1997". Questa non e' una riforma, ma una proposta di taglio della spesa sociale, che smentisce subito quanto proclamato nel documento unitario Cgil-Cisl-Uil: "Le ragioni del cambiamento, quindi, non sono di natura finanziaria". Date tali premesse, non vorremmo dover verificare, a posteriori, che il metodo di gestione verticistica della trattativa era funzionale all'accettazione sostanziale del contenuto delle proposte avanzate dal governo. Percio' riteniamo che si debba subito interrompere il confronto avviato con il governo, per poter chiamare i lavoratori ad esprimersi circa le scelte che riguardano il loro livello di vita e di salario. In questo modo si puo' chiedere loro un mandato su una precisa piattaforma rivendicativa, accompagnata da adeguate ed articolate azioni di lotta, che consenta di modificare i rapporti di forza su cui condurre la trattativa. Quanto ai contenuti di tale piattaforma rivendicativa, riteniamo che essi vadano individuati analizzando criticamente le proposte confederali unitarie e ponendole a confronto con quelle governative e con le ragioni addotte a loro sostegno. LE RAGIONI DELLA "RIFORMA" Il passaggio, logicamente, preliminare per andare ad una trattativa sulla riforma dello "Stato sociale" dovrebbe essere quello di capire se essa e' necessaria e perche', onde comprendere anche per chi sussista tale necessita' e se corrisponda agli interessi dei lavoratori, che il sindacato deve rappresentare. Su cio' gia' la premessa del documento della Cgil del 18 aprile era singolarmente evasiva ed ambigua, si diceva che il "nostro sistema di sicurezza sociale" e' scosso da una triplice crisi: "finanziaria, di efficienza e di consenso". Le cause di questa crisi erano individuate nei "mutamenti socio- economici accelerati dalla globalizzazione dei mercati, dalla trasformazione del mercato del lavoro, dalle dinamiche demografiche ma anche da cambiamenti soggettivi, come per esempio la richiesta delle donne di stare a pieno titolo nel mercato del lavoro e di vedere riconosciuto il lavoro di cura non retribuito". Ci sembra che non ci sia un'analisi delle cause ma una mera descrizione superficiale, da cui pero' discendono delle scelte che, come vedremo piu' avanti, assecondano il processo in corso. Anche nel documento confederale Cgil-Cisl-Uil manca una qualsiasi spiegazione fondata del motivo per cui si debba andare ad una trattativa sullo "Stato sociale", si afferma: "E in tale quadro che si inserisce il confronto sui temi dello Stato Sociale, che deve avere come obiettivo la sua riqualificazione per poter meglio far fronte a una realta' sociale ed economica mutata, in un contesto istituzionale tra l'altro in profonda evoluzione". Cerchiamo di capire quale sia il senso dei "mutamenti socio-economici" evocati (sia nel documento della Cgil, che in quello unitario), perche' altrimenti la loro registrazione passiva equivale alla singolare scoperta che la storia socio-economica non si e' fermata. La crisi del sistema di "sicurezza sociale" e' solo una delle conseguenze della crisi dell'accumulazione di capitale, che da quasi trenta anni avvolge i paesi capitalistici. Dall'inizio degli anni settanta le possibilita' di espansione profittevole del capitale sul mercato mondiale hanno subito una battuta d'arresto, la saturazione dei mercati internazionali ha prodotto una stagnazione dei ritmi di accumulazione del capitale: i tassi medi reali di crescita nei paesi Ocse sono passati dal 4,4% annuo, nel periodo 1950-73, al 2,5%, nel periodo 1973-94 - cioe' si sono quasi dimezzati. Cio' ha comportato l'inizio di una dura offensiva contro i livelli di salario e di vita delle classi lavoratrici, in tutto il mondo. Non si tratta, fra l'altro di una novita' storica, in tutte le fasi di crisi il sistema capitalistico tenta di contrastare la caduta dei profitti con la compressione dei livelli salariali storici, precedentemente conquistati dalle classi lavoratrici. La novita' di tale fase di crisi e' l'estensione mondiale delle sue manifestazioni e il fatto che i livelli salariali storici oggi comprendono (a differenza della precedente grande crisi mondiale del 1939-45) quella quota salariale che viene denominata, del tutto impropriamente, "Stato sociale" Il salario sociale globale Occorre allora avere chiara quale sia la natura economica della spesa sociale in discussione e perche' essa sia sottoposta ad una pressione crescente. Innanzitutto la spesa sociale e', per la massima parte, una delle forme del salario. Infatti quest'ultimo, correttamente inteso, e' cio' che il proprietario di capitale, o lo Stato, paga per un determinato tempo di lavoro. I lavoratori scambiano la loro merce, il lavoro, con la merce del capitalista o del datore di lavoro pubblico, il denaro. Tanto denaro per tanto lavoro, ma parte di questi pagamenti non sono in forma monetaria. Infatti il salario e' una grandezza sociale perche' comprende i costi necessari per far esistere la merce forza-lavoro, ossia per l'esistenza del proletariato intero come classe nell'arco di tutta la vita. In questi costi rientrano i prezzi pagati per ottenere tutte le merci avute in cambio del salario: non solo quindi quelle che servono al lavoratore individuale che percepisce la busta-paga, ma alla "razza dei venditori di forza lavoro" e cioe' a tutte le persone, vecchie e giovani, abili o inabili al lavoro, che dipendono per la loro esistenza da quella fonte di reddito. Esso si concepisce come "salario sociale globale di classe" ed e' semplicemente un nome speciale dato al prezzo di mercato dell'unica merce di proprieta' della classe lavoratrice: la merce forza lavoro. Ecco perche' quella parte della spesa sociale erogata in forma monetaria (il salario differito o previdenza) o di servizi collettivi (il salario indiretto: sanita', scuola, trasporti, edilizia popolare, energia e comunicazioni) e' economicamente una parte rilevante del salario. Il "salario sociale globale di classe", a differenza del prezzo delle altre merci, e' dato da due diversi elementi di valore. Il primo e' l'elemento fisico e costituisce il limite minimo per la riproduzione fisica della razza dei venditori della merce forza lavoro. L'altro e' l'elemento storico-sociale. Questo puo' aumentare o diminuire, ed anche annullarsi, in modo che rimanga soltanto il limite fisico. L'attacco al salario sociale globale Nel documento confederale unitario si afferma: "Le finalita' fondamentali che assumono le Organizzazioni sindacali nel confronto con il Governo sono lo sviluppo e l'equita'. E per il conseguimento di questi obiettivi che Cgil, Cisl e Uil hanno contribuito con la politica dei redditi al risanamento dei conti pubblici e si sono proposti come interlocutori determinanti nella ridefinizione degli assetti del sistema previdenziale e sanitario, attraverso radicali riforme che hanno innovato profondamente questi settori fondamentali del welfare e hanno reso piu' efficiente la spesa sociale". Ci sembra che il richiamo allo "sviluppo e all'equita'" risulti del tutto retorico, vista la mancanza di risultati in tal senso. La strategia messa in campo dal sindacato confederale, fin dalla meta' degli anni settanta, non ha prodotto l'auspicato aumento dello "sviluppo". Infatti la crescita media annua del Pil e' continuamente calata dal 5,7% (1961-70), al 3,8% (1971-80), al 2,3% (1981-90) fino all'1,05% dell'ultimo periodo (1991-96). Riguardo all'equita', i fatti storici non sembrano affatto confortare la tesi confederale: la quota dei redditi interni da lavoro dipendente in rapporto al Pil (cioe' la fetta del reddito prodotto durante l'anno, che va ai salariati e alle loro famiglie) e' costantemente diminuita dal valore massimo del 51,1%, nel 1975, al 41% nel 1996. Quindi non si puo' certo dire che i lavoratori non abbiano sopportato sufficienti sacrifici: la politica dei redditi e' stata la politica del solo reddito da lavoro, su cui e' finora gravato il peso del risanamento dei conti pubblici. Tuttavia anche sul fronte dell'occupazione (per l'aumento della quale tali sacrifici sono stati sempre richiesti) i risultati non sono arrivati: il tasso ufficiale di disoccupazione e' passato dal 5,8% del 1975 al 12,1% del 1996. Cio' illustra come dalla meta' degli anni settanta sia iniziato, in Italia, l'attacco al salario sociale globale della classe lavoratrice ed alle sue condizioni di vita, nel tentativo di comprimere il suo livello storico precedente e cosi di sostenere la ripresa dei profitti. Naturalmente il bersaglio principale iniziale e' stato il livello dell'occupazione: attraverso le ristrutturazioni aziendali si e' andato progressivamente ricostituendo un vasto ed articolato esercito industriale di riserva, che e' qualcosa di piu' complesso del semplice aumento della disoccupazione ufficiale. Infatti si articola in tre forme principali: fluttuante, latente e stagnante. La prima corrisponde approssimativamente ai disoccupati registrati, ed e' quella che viene presa come riferimento ufficiale, ma che, senza considerare la consistenza e l'azione delle altre forme sul mercato del lavoro, non spiega molto. La seconda e' costituita da quella quota di forza lavoro pronta ad entrare o ad uscire dal mercato del lavoro quando l'accumulazione di capitale lo richieda: tale ruolo - che era svolto nel passato dai contadini - e' oggi ricoperto, in Italia, dai lavoratori-studenti, dalle casalinghe che lavorano occasionalmente per un salario e dai lavoratori immigrati irregolari, per un ammontare complessivo di oltre 2,5 milioni di persone nel `95 (secondo dati Censis), oltre il 10,4% della forza-lavoro. Ma ancora piu' importante e' la parte stagnante dell'esercito industriale di riserva, che comprende tutte le forme di lavoro precarie ed instabili che concorrono ad abbassare il salario medio e a flessibilizzare l'uso della forza-lavoro: si tratta dei lavoratori temporanei, dei pensionati lavoratori, dei disoccupati, cassintegrati e lavoratori in mobilita' che continuano a lavorare in "nero", per un ammontare di quasi 3,4 milioni di unita' (oltre il 14% della forza-lavoro). Questo composito esercito industriale di riserva e' la tangibile testimonianza degli effetti del perdurare della crisi dell'accumulazione di capitale sulla forza-lavoro: e' capitale variabile in eccesso. Esso e' una delle principali leve della crescente compressione del salario sociale globale della classe lavoratrice e dell'intensificazione dei ritmi lavorativi. A questo processo si e' accompagnato l'attacco al salario diretto (con l'uso dell'inflazione e la lunga vicenda della scala mobile) e poi a quello differito (previdenza) ed indiretto (servizi collettivi). La dinamica di questa strategia e' quella di una spirale, poiche' ogni obiettivo raggiunto su uno dei fronti interessati diviene il presupposto per un nuovo attacco: oggi si torna a parlare di spesa previdenziale, sanitaria, scolastica e di una nuova deregolamentazione del mercato del lavoro. Tutti questi fronti sono stati gia' pesantemente attaccati dalla meta' degli anni settanta in poi, ma cio' non li ha affatto risparmiati dall'essere di nuovo presi di mira, appena le condizioni lo consentissero: si ricordera', da ultimo, che in occasione della controriforma previdenziale del governo Dini si volle convincere i lavoratori che essa avrebbe sistemato l'equilibrio finanziario della previdenza per decenni. La correttezza di tale affermazione e' sotto gli occhi di tutti. Oggi siamo ad un punto di svolta in tale strategia, poiche' nonostante i tagli attuati dal `92 in poi sul salario diretto (con la fine della scala mobile e l'avvio della strategia della concertazione) e su quello previdenziale ed indiretto (con le controriforme di Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini) - che hanno comportato tagli per oltre il 3% del Pil (circa 60.000 miliardi attuali) - siamo di nuovo di fronte ad un tentativo di comprimere il salario sociale globale della classe lavoratrice. STRATEGIE A CONFRONTO La proposta avanzata dal governo Prodi e' particolarmente insidiosa, in quanto si tenta di accreditare la tesi che stabilizzare le prestazioni sociali rispetto al Pil, non comporterebbe tagli. Cio' non e' affatto vero, per cui occorre chiarire il significato economico di tale obiettivo. Se, come e' documentato dai lavori della "Commissione Onofri" (richiamati nel documento del governo Prodi), il crescente invecchiamento della popolazione italiana comportera' un aumento delle spese per la previdenza e per la sanita', stabilizzare la dinamica di tali spese rispetto alla crescita del reddito nazionale significa programmare un impoverimento relativo (rispetto alla crescita della ricchezza prodotta) dei pensionati e dei lavoratori che usufruiscono dei servizi sanitari, scolastici, di trasporto, dell'edilizia pubblica, ecc. Rispetto a questa strategia la risposta sindacale afferma di volere: "Una scelta, quindi, di rivisitazione della spesa sociale, di razionalizzazione, e di ridistribuzione, non certamente di una sua riduzione rispetto al PIL. Cgil, Cisl e Uil rivendicano al contrario, un adeguamento della spesa sociale italiana rispetto a quella dei principali paesi europei quando si libereranno risorse a seguito del cosiddetto dividendo Maastricht, cioe' a seguito dei minori interessi per il debito pubblico. La spesa sociale italiana deve essere considerata infatti un investimento in grado di aumentare la capacita' di crescita del paese, elevarne la produttivita' e consentire cosi una maggiore competitivita' sul mercato internazionale". Qui e' espresso un orientamento strategico che accetta la tesi della stabilizzazione della spesa rispetto al Pil e percio' l'impoverimento relativo, che viene redistribuito all'interno della classe dei lavoratori. Questo e' il senso dell'affermazione che "non si vuole ridurre", ma si rimanda l'adeguamento del livello di spesa ad un futuro indefinito, ci pare l'ennesima riproposizione di una politica dei due tempi: prima i sacrifici, poi... i sacrifici. Inoltre e' contraddittorio considerare tale spesa un investimento e poi rimandarla ai tempi di riduzione degli interessi sul debito pubblico. A tale proposito basta leggere quanto scritto nella relazione della Commissione Onofri: "Solo una rapidissima discesa dell'onere per interessi potrebbe aprire qualche spazio nella struttura del bilancio pubblico, ma essa e' raggiungibile solamente con un aumento ancora piu' forte e permanente, di quanto non stia avvenendo attualmente, dell'avanzo primario dei conti delle AP. Il che, a sua volta, richiederebbe un contributo dalla spesa sociale al risanamento dei conti pubblici, ancora piu' forte nel breve periodo". Quindi siamo in presenza di un circolo vizioso: gli interessi diminuiranno se aumenta l'avanzo primario, il quale aumentera' solo se si taglia il salario sociale, e solo allora ci sara' lo spazio per "adeguare" la spesa gia' tagliata: il risultato finale e' che la compressione del salario sociale sarebbe gia' avvenuta ed accettata. Crediamo che il principio strategico di una piattaforma di difesa delle condizioni di vita e di salario della classe lavoratrice debba essere, quantomeno, quello della costanza del livello del salario sociale globale, che comporta il netto rifiuto di accettare la stabilizzazione della spesa sociale rispetto al Pil. Quindi se aumenta il numero degli anziani, e cio' provoca una crescita del salario differito e delle spese sanitarie, occorre che aumenti almeno proporzionalmente la quota di tali spese rispetto al Pil. Questa che e' una proposta equa per i lavoratori, comporta che si modifichi il rapporto fra salari e profitti e percio' che si cerchino fonti di finanziamento aggiuntive. Queste non mancano di certo visti i livelli record di evasione fiscale e contributiva in Italia: occorre pero' dire chiaramente che fino a quando i lavoratori accetteranno passivamente, con la complicita' dei vertici sindacali, di subire il taglio del salario sociale globale, non ci sara' nessun motivo politicamente ed economicamente forte per andare a reperire altrove le risorse che mancassero. Inoltre occorre demistificare l'uso della demografia per giustificare, con una parvenza di oggettivita', scelte di politica economica che hanno un preciso segno di classe. Infatti secondo la Commissione Onofri: "Alcune stime effettuate presso la Ragioneria Generale dello Stato, sulla base delle valutazioni del diverso fabbisogno di spesa per prestazioni sanitarie per eta' e delle previsioni dell'andamento della distribuzione per eta' della popolazione, segnala che la spesa sanitaria, in Italia, nei prossimi venti anni potrebbe espandersi di mezzo punto percentuale di Pil e di un altro punto nei venti anni successivi. Le stesse proiezioni demografiche applicate alla dinamica della spesa per pensioni mostrano che, nel nostro paese, questa potrebbe crescere nel corso dei prossimi venti anni di circa 1,5 punti percentuali di Pil. A differenza della spesa sanitaria, la spesa pensionistica, man mano che va a regime il passaggio al sistema contributivo, arresterebbe la sua crescita in termini di Pil, stabilizzandosi". Questo sarebbe il risultato "naturale" dell'aumento della popolazione anziana (cioe' avente almeno 65 anni d'eta', che salirebbe dal 16% del totale nel `94 al 36% nel 2044) e della diminuzione di quella giovanile (cioe' fino ai 19 anni, che calerebbe dal 22% nel `94 al 14% nel 2044), che farebbe crescere le spese sanitarie e pensionistiche, mentre diminuirebbe un poco quella scolastica. Quindi si produrrebbe, in futuro, una sorta di sindrome della popolazione lavorativa mancante: ci sarebbero troppi pochi lavoratori (la popolazione attiva, cioe' appartenente alla classe d'eta' 20-64 anni, passerebbe dal 62% nel `94 al 50% nel 2044) per produrre la ricchezza necessaria a mantenere troppi anziani. Mancando le risorse economiche per far fronte a tale incremento di spesa, occorrerebbe trovare subito il modo di stabilizzare la loro quota in rapporto al Pil. Quindi le lontane previsioni (fino al 2044) divengono il presupposto scientifico per giustificare un'azione immediata, che inizia con le prescrizioni della Commissione, prosegue con l'approvazione del Dpef, la trattativa sullo "stato sociale", la legge finanziaria e la verifica, il prossimo anno, della controriforma Dini. Tuttavia la presunta consequenzialita' oggettiva fra l'evoluzione demografica e la necessita' di tali "interventi strutturali" e' del tutto assente, poiche', anche ammettendo la correttezza delle molteplici stime sull'evoluzione della popolazione, per giungere ai dati sulla quota di spesa sociale in rapporto al Pil per la sanita', la previdenza e la scuola occorre postulare alcune ipotesi economiche, che nel dibattito corrente vengono non a caso sottaciute. Si ipotizza, cioe', la costanza del rapporto occupati/attivi, la quale significa che l'apparente popolazione lavorativa mancante e' associata, contraddittoriamente, a una sovrappopolazione lavorativa eccedente: rimane la stessa quota di disoccupati ufficiali, ovvero si suppone costante la forma fluttuante dell'esercito industriale di riserva. Questa contraddizione viene accuratamente nascosta, poiche' dal punto di vista razionale l'aumento della quota anziana della popolazione dovrebbe comportare quantomeno un proporzionale aumento delle risorse economiche ad essa destinate, ed in presenza di lavoratori inattivi il mezzo piu' diretto per farvi fronte sarebbe quello di metterli al lavoro: cioe' ridurre a zero il tasso di disoccupazione e aumentare la quota di popolazione attiva (in Italia nel `96 lavorano circa 20 milioni di persone su 56,7 milioni: se lavorassero tutte le per- sone comprese fra i 25 e i 60 anni, si avrebbe una forza-lavoro di almeno 28 milioni di persone). Inoltre si dovrebbe tenere conto dell'aumento della produttivita' fisica del lavoro, cioe' dell'applicazione della scienza alla produzione. Quindi non ci sarebbe una "popolazione lavorativa mancante" e ci sarebbero le risorse economiche da destinare alla quota anziana della popolazione. Ma cio' sarebbe in contraddizione con la strategia di compressione del salario sociale reale, percio' puo' essere solo il risultato di un alto livello di lotta dei lavoratori. Cio' che e' in discussione e' proprio l'effetto contraddittorio dell'evoluzione demografica sui rapporti fra profitto e salario. Infatti il problema economico reale nuovo nasce dal fatto che, se la vita media dei lavoratori si allunga, ma rimane costante la vita lavorativa (cioe' il numero delle giornate lavorative nell'arco della vita), quest'ultima subisce riduzione relativa in rapporto alla durata totale della vita: si riduce cioe' la durata dello sfruttamento nell'arco dell'esistenza dei lavoratori. Siccome i lavoratori debbono riprodursi anche quando non sono piu' attivi, questa evoluzione demografica comporta pure un aumento dei costi complessivi della loro riproduzione: cioe' potrebbe aumentare la quota del salario sulla ricchezza totale prodotta (il salario relativo) e si ridurrebbe quella per i profitti. La misura in cui cio' potrebbe accadere dipenderebbe anche dalla dinamica della produttivita' del lavoro, della sua intensita', e dall'appropriazione di tali quote di ricchezza: se la velocita' di crescita di questi fattori fosse sufficiente a com- pensare l'aumento dei costi di riproduzione e fosse del tutto appropriata dai capitalisti, il salario reale crescerebbe pur restando costante il salario relativo; nel caso in cui fosse superiore, e sempre appropriata dal capitale, si avrebbe un sa- lario reale crescente, pur diminuendo il salario relativo. Quest'ultimo caso e' quello piu' probabile per i paesi come il nostro. Infatti il rapporto fra pensione media e produttivita' del lavoro (Pil per occupato) - secondo le stesse proiezioni della Ragioneria - diminuirebbe, nel periodo 1994-2044, dal 16% a meno dell'11%. La spesa sanitaria pro-capite dovrebbe calare del 33,2% in rapporto alla produttivita' del lavoro, per mantenere costante la quota di spesa sanitaria sul Pil, oppure diminuire del 13,3% per mantenere costante il consumo pro- capite rispetto al reddito pro-capite. Mentre per la spesa scolastica il taglio avverrebbe con la diminuzione degli occupati: invece dei 508 mila, necessari a mantenere stabile la quota di spesa scolastica sul Pil, ne sono previsti 404 mila nel 2044, la differenza ingrosserebbe la quota fluttuante e stagnante dell'esercito industriale di riserva. Tuttavia tale diminuzione del salario relativo viene ritenuta insufficiente, visto che la "Commissione Onofri" e il governo Prodi propongono una serie di interventi strutturali, per frenare la crescita della spesa in questi comparti. SERVIZI DELL'IMPIEGO E AMMORTIZZATORI SOCIALI Un altro punto strategico discende dall'impostazione precedente, ed e' quello della motivazione della redistribuzione interna alla classe lavoratrice dei tagli alla spesa sociale. Il documento governativo sostiene che "Il lavoro e il dibattito di questi mesi seguiti alla pubblicazione del rapporto della Commissione Onofri hanno evidenziato in modo trasparente quanto l'attuale assetto dello stato sociale italiano non garantisca nella giusta misura i giovani disoccupati, le famiglie, gli anziani bisognosi di cure a domicilio, le nuove figure dell'emarginazione. E un sistema nel quale mancano canali chiari ed efficienti di promozione del lavoro. E un sistema squilibrato - per giunta in modo assai confuso e iniquo - verso la tutela della vecchiaia. E un sistema che non e' ancora predisposto per il radicale cambiamento dei trend demografici, della vita lavorativa sempre piu' divisa e frantumata, per i problemi inediti di assistenza sanitaria derivanti dall'allungamento della vita media." Mentre sullo stesso tema la proposta sindacale unitaria afferma: "E necessario garantire l'allargamento della cittadinanza sociale, tenendo conto dei nuovi rischi sociali che occorre fronteggiare: dal non lavoro dei giovani, all'inadeguatezza della formazione, dai problemi della famiglia sovraccaricata di compiti sempre piu' gravosi, a quelli della non autosufficienza. Le ragioni del cambiamento, quindi, non sono di natura finanziaria, ma implicano una trasformazione dell'intervento pubblico finalizzato a creare sul territorio le condizioni di una maggiore coesione sociale anche attraverso un protagonismo diretto delle autonomie locali". Abbiamo gia' visto che "le ragioni del cambiamento" sono di natura finanziaria, quindi resta da analizzare il rapporto della riforma con il mercato del lavoro. In che senso si vuole modificare l'organizzazione dello "stato sociale" per renderla funzionale alla nuova conformazione del mercato del lavoro? Il richiamo del documento governativo al "patto del lavoro" del settembre `96 , all'approvazione del "pacchetto Treu" e alle deleghe previste dalla legge Bassanini fornisce una chiara risposta. Si vuole accompagnare il processo di crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro, attribuendo un ruolo nuovo all'azione statale. Vengono individuate a tal fine tre nuove tipologie di ammortizzatori sociali, gia' proposte dalla Commissione Onofri: 1) i trattamenti in caso di sospensione temporanea con la conservazione del rapporto di lavoro; 2) i trattamenti di disoccupazione riservati ai lavoratori che perdono una precedente occupazione; 3) gli interventi di tipo assistenziale alla disoccupazione di lunga durata, collegati al nuovo trattamento assistenziale di base. Il primo livello prevede l'uso dei contratti di solidarieta' e del lavoro in affitto, unitamente ad un istituto simile alla attuale Cig con cui le aziende potrebbero gestire le ristrutturazioni aziendali. Nel documento della Commissione Onofri si dichiara espressamente che le erogazioni dovrebbero essere finanziate con un sistema di tipo assicurativo, con un prelievo sui salari, per una durata massima di 12-18 mesi nell'arco di un quinquennio, con un tasso di copertura inizialmente pari al 70% della retribuzione - adeguandosi ai valori medi adottati dagli altri paesi - che dovrebbe ridursi nel tempo. Il secondo livello dovrebbe ricomprendere le diverse forme di assistenza alla disoccupazione (indennita' ordinaria e speciale Cigs, indennita' di mobilita'). Per questo secondo livello si prevede di adottare un metodo di finanziamento assicurativo e contributivo sulle aziende che lo utilizzano. Il terzo livello prevede l'abolizione dei prepensionamenti da sostituire con il part-time per i lavoratori anziani e un sostegno ai disoccupati. Il riferimento per la misura dell'indennita' e' quello degli altri paesi europei, tuttavia nella definizione dell'ammontare dell'indennita' devono entrare una serie di fattori (carichi di famiglia, impegno nel lavoro di cura, eta') e soprattutto, chiarisce il testo della Relazione Onofri: "l'assoggettamento obbligatorio ai servizi d'impiego erogati in funzione della ricerca di un nuovo posto di lavoro, oltre la disponibilita', pena decadimento del beneficio, ad accettare forme di impiego anche a termine, compatibili con la difesa della professionalita' dei soggetti assistiti". Tale obbligo al lavoro sottopagato e precario viene accettato dalla proposta confederale unitaria: "Va sancito per tutti i casi di erogazione di questi trattamenti - ed in raccordo con piani previsti dal rapporto dalle parti a livello d'impresa e/o dai servizi per l'impiego - l'obbligo a partecipare, ove richiesto, a lavori socialmente utili, a corsi di formazione o ad altre occupazioni a termine". Cio' significa che si apre un altro fronte d'attacco alle condizioni di vita e salario dei lavoratori, complementare a quello sulla spesa sociale, ma rivolto nella stessa direzione. Infatti la generalizzazione di forme di lavoro precarie e sottosalariate consente: a) di diminuire la disoccupazione ufficiale, mantenendo invariata o diminuendo la massa salariale complessiva; b) di esercitare piu' tenaci forme di controllo sull'uso della forza lavoro, che passano attraverso il ricatto sulla parte variabile del salario e sulla facilitazione dei licenziamenti; c) di ottenere cosi una intensificazione dei ritmi di lavoro che consenta un maggiore sfruttamento ed un incremento dei profitti; d) di coinvolgere il sindacato in una gestione neocorporativa del mercato del lavoro e della formazione, che consenta di controllare meglio la conflittualita' dei lavoratori. La proposta confederale unitaria accetta sostanzialmente tale strategia, gia' delineata nel "patto per il lavoro" del settembre `96 e applicata con l'approvazione del "pacchetto Treu". Inoltre occorre chiarire che le modalita' di finanziamento assicurative o lo spostamento di risorse da altri settori della spesa sociale (previdenza) significa che tale peggioramento della regolazione del mercato del lavoro viene fatto pagare, direttamente o indirettamente, agli stessi lavoratori: oltre al danno pure la beffa. In questo quadro la politica di "sostegno alla famiglia" si qualifica come il tentativo di caricare sulle sue spalle l'effetto del taglio dei servizi pubblici, offrendole in cambio un sussidio caritatevole per le famiglie in "difficolta'", che sara' inevitabilmente di valore molto piu' ridotto dei servizi collettivi non piu' erogati: altrimenti non si capisce perche' ridurli. Possiamo immaginare come tali politiche amplificheranno le difficolta' della condizione lavorativa e sociale delle donne: diverra' piu' difficile per loro rimanere stabilmente sul mercato del lavoro ed aumentera' il carico del lavoro di cura, in una situazione in cui tende anche ad aumentare l'eta' pensionabile, in nome di una beffarda ed offensiva interpretazione della parita' fra i sessi. Anche la predisposizione di maggiori interventi nel campo dell'assistenza all'indigenza e all'emarginazione si rivela come un semplice tentativo di mitigare a posteriori, redistribuendone il carico sempre fra i lavoratori, l'effetto delle politiche di compressione del salario sociale globale e della deregolamentazione del mercato del lavoro. In tal modo si rinuncia consapevolmente ad intervenire sulle cause strutturali dell'aumento dell'indigenza e dell'emarginazione. LA FORMAZIONE Al di la' delle retoriche affermazioni sull'importanza della formazione, appare chiaro che non si vuole contrastare la scelta di comprimere la spesa scolastica, come e' apparso recentemente anche per il caso dei prepensionamenti degli insegnanti. Se tali affermazioni fossero vere basterebbe impegnarsi per sanare la piaga del precariato, sostituendo prontamente i lavoratori pensionandi e investendo su un ulteriore sviluppo del settore. Ma non sembra che le scelte siano tali, visto che le risorse si trovano solo per finanziare, incostituzionalmente, le scuole private ed ingrassare i profitti degli imprenditori del settore. Si preannuncia l'intenzione di concertare sull'autonomia scolastica e si ribadisce l'importanza della formazione finalizzata non alla crescita del livello culturale, ma all'inserimento nel mondo del lavoro (che non c'e') e della formazione professionale per gli adulti (magari attraverso gli enti bilaterali che attraverso contributi a carico di lavoratori e imprese finanziano soprattutto il sindacato trasformato in agenzia di servizi alle imprese). La possibilita' di cogestire con le associazioni padronali larga parte del settore della formazione professionale non e' sicuramente estranea a tale atteggiamento, ma indica l'estensione dell'egemonia neocorporativa sul sindacato confederale. LA SANITA Il documento del governo Prodi afferma: "Il sistema sanitario nazionale deve affrontare il problema cruciale della sua riqualificazione e riorganizzazione al fine di far fronte ad una domanda strutturalmente crescente a causa dell'invecchiamento della popolazione e dell'innovazione delle tecnologie sanitarie in atto, con un volume di risorse disponibili che non potranno crescere piu' del PIL. Il rapporto tra spesa sanitaria (pubblica e privata) e PIL e' sostanzialmente in linea con quello dei paesi europei ad analogo livello di sviluppo; nonostante cio' nel corso degli ultimi anni si e' assistito ad una riduzione consistente della quota di risorse nazionali destinate alla sanita' pubblica: dal 6,6 % del PIL nel 1991 al 5,4 % nel 1996. Ne consegue che l'incidenza della spesa sanitaria pubblica rispetto al PIL e' inferiore alla media europea. Pertanto l'azione dovra' concentrarsi soprattutto sul miglioramento della qualita' dei servizi e sul controllo dei costi". Qui appare una plateale contraddizione, perche' si registra il crescente peso della sanita' privata (circa il 60% dei 140.000 miliardi totalmente spesi), ma non si propone nulla per invertire tale tendenza che e' anche il frutto delle lodate controriforme dei decreti del `92 e `93. Va osservato che la spesa sanitaria pubblica scende dall'82,2% del totale nel '60 al 71,3% nel '94, mentre quella privata sale dal 17,8% al 28,7%. Cio' accade per un duplice motivo: da un lato i prezzi dei servizi sanitari privati subiscono un notevole incremento (ed e' spiegabile essendo imprese capitalistiche rivolte ai consumatori delle classi medio-alte), dall'altro e' l'effetto dell'introduzione della compartecipazioni degli assistiti (tickets) sui farmaci, poi estese nel corso degli anni '80 a tutte le prestazioni diagnostiche e di laboratorio. Ma va notato che all'interno del finanziamento pubblico l'onere principale ricade sui lavoratori dipendenti, infatti i contributi a loro carico nel '93 sono ancora pari a circa l'83% del totale: il previsto trasferimento del finanziamento della sanita' alla fiscalita' generale, con la relativa distribuzione progressiva sui redditi, non e' finora mai stato attuato. Quindi la parziale fiscalizzazione degli oneri sociali (una spesa per il bilancio pubblico di 76.657 miliardi, dal '77 al '92) ha avuto il solo significato di aumentare indirettamente la spesa a sostegno del capitale. Riguardo invece alla produzione dei beni e servizi, quelli di produzione pubblica passano dal 55,4% del totale nel '60 al 46,1% nel '94 (e dal 2% del Pil al 3,7%), mentre quelli di produzione privata salgono dal 44,6% al 53,9% (dall'1,6% del Pil al 4,3%). I primi crescono fino all'81, poi subiscono una vistosa contrazione fino all'86 e successivamente risalgono fino al '92, per iniziare una nuova contrazione che dura ancora. Mentre il peso dei beni e servizi pagati con la spesa pubblica, ma acquistati da imprese private o liberi professionisti (farmaci, assistenza medica generica e specialistica, cure in cliniche convenzionate, assistenza protesica e balneo-termale, servizi appaltati) crescono continuamente fino al '93. Cio' accade poiche' la gestione della riforma ha prodotto una contrazione dei servizi pubblici utilizzando vari strumenti. In primo luogo riducendo la spesa per i salari: infatti essa passa dal 43,8% del totale nell'80, al 37,7% nel 1989, per poi risalire al 39,2% nel '93. Cio' in conseguenza di un duplice intervento: da un lato tramite la sospensione dei rinnovi contrattuali del personale ospedaliero o la proroga della loro durata (nel '77-78, nell'80, nell'82, nell'86 e nel '90), dall'altro per mezzo del parziale blocco del rimpiazzo di coloro che si dimettevano per eta' o altri motivi (il primo risale al '75 per gli ospedali, all'81 per le Usl, ed e' stato successivamente reiterato nell'83, e dopo il '92). In questa situazione le due riduzioni contrattuali dell'orario di lavoro (da 40 a 38 ore settimanali nell'83, e a 36 nell'88) hanno causato un notevole incremento dell'orario straordinario (nell'87 era equivalente a 42.652 unita'): percio' si e' realizzato un aumento della quantita' e dell'intensita' di lavoro ed una compressione del salario (soprattutto per gli operatori sanitari non-medici), con il conseguente peggioramento qualitativo del servizio. Quindi la gestione privatistica del servizio pubblico ha comportato che una quota crescente della spesa, formalmente pubblica, sia andata a sostenere gli imprenditori sanitari privati e i professionisti del settore: infatti, pure ammettendo che le prestazioni da loro erogate in convenzione fossero qualitativamente equivalenti a quelle pubbliche (il che, mediamente, non e' vero), va considerato che nel loro costo si deve comprendere una quota di profitto per remunerare il capitale investito. Percio' non puo' stupire il fatto che la prevenzione primaria, uno degli elementi qualificanti della lotta per la riforma sanitaria, sia stata consapevolmente sabotata: la spesa per la prevenzione, igiene e profilassi varia dal 4,2 del totale nell'80 al 5% nel '94 (un livello quasi eguale al 4,9% del 1960). Se anche per la sanita', il volume delle risorse dovra' essere stabilizzato rispetto al Pil non ci sara' la possibilita' di migliorare il servizio pubblico. Infatti si punta ad individuare degli "standard essenziali di assistenza" ovvero a ridurre progressivamente l'impegno del servizio pubblico ad aree sempre piu' ristrette, grazie all'operativita' dei meccanismi di controllo dei fondi di bilancio nella sanita' pubblica. In tal senso l'uso del sistema di pagamento basato sui Raggruppamenti omogenei di diagnosi (DRG), importato dagli Stati Uniti, non garantisce un controllo dei costi poiche', dalla sua applicazione, si e' verificato un aumento delle degenze, generato dal tentativo di ogni Asl ed operatore privato di accaparrarsi la maggior quota possibile di risorse. Inoltre non tenendo conto degli aspetti qualitativi della cura, non valuta l'efficacia della stessa ai fini del recupero dello stato di salute ed e' penalizzante soprattutto nei confronti dei soggetti che hanno maggiori problemi di salute: gli anziani, i portatori di handicap, gli emarginati. Gia' nella Relazione Onofri veniva proposto l'ampliamento della regionalizzazione delle entrate tramite "compartecipazioni sul ricovero in regime ordinario e di day- hospital, all'interno di importi minimi e massimi fissati dal ministero della Sanita', ... compartecipazioni sulle prestazioni aggiuntive erogate dalla medicina generale (visite domiciliari e assistenza domiciliare programmata)". Veniva anche sostenuta la riduzione delle prestazioni pubbliche e l'ampliamento di quelle private, sostenute con risorse pubbliche, con "l'introduzione di forme di assicurazione sanitaria integrativa con contestuale ridefinizione dell'insieme delle prestazioni garantite dal Ssn... si ravvede l'opportunita' di consentire, in via sperimentale, la gestione di alcuni grandi ospedali ad organizzazioni non lucrative di utilita' sociale". In tal modo si mira a lasciare spazio all'imprenditoria privata ed al capitale finanziario-assicurativo (spesso camuffato attraverso le organizzazioni del terzo settore), che trova cosi un altro campo d'investimento con il sostegno pubblico, come nel caso dei fondi pensione. Per il sostegno ai profitti degli imprenditori del settore, il controllo della qualita' e dei costi non pare essere molto stringente, come emerge anche dai recenti fatti giudiziari milanesi. Il fatto che il documento sindacale rivendichi "di portare a compimento le misure di riordino previste dalle leggi 502-517, completando e controllando il processo di aziendalizzazione" e' del tutto contraddittorio con l'affermazione che "la natura pubblica e universalistica del SSN va riconfermata, insieme con l'unitarieta' del sistema articolato in prevenzione-cura-riabilitazione. Il rapporto tra servizi pubblici e privati deve avvenire all'interno di un rigoroso quadro programmatorio regionale che dia garanzie sul controllo della spesa ed eviti effetti distorsivi sulla qualita' delle prestazioni: alla sanita' non sono applicabili, infatti, le regole di mercato". Se quest'ultima asserzione fosse vera non si capisce perche' accettare l'aziendalizzazione della sanita' pubblica ed il crescente spazio lasciato all'imprenditoria privata (profit o no profit): "La mutualita' sanitaria integrativa, prevista dalla legge, dovrebbe coprire prestazioni non erogate dal SSN e stimolare una organizzazione della spesa sanitaria privata in sinergia con quella pubblica". Inoltre non si comprende come possa essere riaffermata la "natura pubblica ed universalistica del SSN" se nel capitolo sulle "politiche di sostegno agli individui e alle famiglie" si dice che "A fronte dello straordinario aumento degli anziani non autosufficienti portatori di domanda assistenziale difficilmente controllabile, si propone l'attivazione di un fondo specifico su base contributiva". La cura e riabilitazione dei pazienti cronici dovrebbe essere parte dei compiti del SSN e non essere derubricata a mera questione assistenziale, per farne pagare i costi ai lavoratori. Questa pericolosa tendenza e' stata introdotta nel 1983 con la creazione del settore denominato "socio-assistenziale di rilievo sanitario" e continuamente ampliata successivamente, fino a giungere alle attuali proposte. LA PREVIDENZA In questo settore l'attacco portato nel `95 dalla controriforma Dini non viene giudicato sufficiente, poiche' si dice che "Se fosse lasciata a se stessa, nell'arco dei prossimi 10/15 anni, questa dinamica porterebbe a disavanzi nelle gestioni dei Fondi pensionistici pubblici; tali disavanzi costringerebbero ad aumentare le aliquote contributive sia sul lavoro dipendente che autonomo, riducendo cosi le potenzialita' di lavoro per le generazioni piu' giovani e mettendo, allo stesso tempo, a repentaglio le promesse pensionistiche fatte alle generazioni anziane. Il nostro Paese, in particolare, ha manifestato, unitamente ad un forte sbilanciamento della spesa sociale a favore della spesa pensionistica, una crescita della medesima tra le piu' accentuate... Il peggioramento dei conti previdenziali prosegue man mano che generazioni sempre piu' numerose e con carriere lavorative piene si avvieranno alla pensione. In particolare, questo fenomeno trova gia' riscontro nel periodo 1997/2000 quando la spesa pensionistica, in assenza di interventi correttivi, crescera' di circa 1,5 punti annui percentuali in piu' rispetto al previsto aumento in termini reali del PIL. Da un altro punto di vista il DPEF attualmente in discussione in Parlamento, stima che nel corso del quadriennio menzionato il rapporto spesa pensionistica/PIL si scosti di circa 0,5 punti percentuali dal livello medio del biennio 1996/'97. In presenza di tale scostamento e' urgente quindi approntare strumenti di controllo della spesa pensionistica per i prossimi 10/15 anni. Cio' richiede di verificare la opportunita' di accelerazione della andata a regime del metodo di calcolo contributivo delle pensioni". A cio' si aggiunge la proposta di bloccare o penalizzare il pensionamento d'anzianita' e di cumularlo con il lavoro part-time. Il documento confederale parte dalla rivendicazione della giustezza della controriforma Dini e afferma che siamo in presenza di un equilibrio finanziario dei conti previdenziali. Propone una unificazione delle regole pensionistiche, richiede il varo del decreto sui lavori usuranti ed accetta l'introduzione del part-time per i pensionamenti di anzianita'. Questo modo di affrontare la questione e' particolarmente mistificante. Infatti l'equilibrio finanziario del sistema previdenziale (essendo salario differito) si regge sulla dinamica della massa salariale e contributiva. Ma allora l'accettazione delle misure di precarizzazione del lavoro (come il "pacchetto Treu") produrra' una inevitabile contrazione della massa contributiva, e cio' portera', in tempi piu' o meno brevi, alla revisione al ribasso dei rendimenti pensionistici pubblici, tramite l'apposita clausola di salvaguardia introdotta nella controriforma Dini, di cui si rivendicano i meriti. Lo scopo reale di tale operazione emerge piu' chiaramente quando il governo afferma: "la verifica dovra' prendere in considerazione la possibilita' che si metta in atto un processo di tendenziale unificazione dei regimi pensionistici. In ogni caso, la verifica dovra' coinvolgere anche le misure volte a favorire lo sviluppo della previdenza complementare nel settore privato e la ricerca di strumenti finanziari idonei ad agevolare la formazione dei fondi complementari anche per i dipendenti pubblici". Mentre nel documento confederale si dice: "E urgente una verifica sullo stato di attuazione della normativa riguardante la previdenza complementare per superare i limiti che si sono gia' verificati in questa prima fase di applicazione, destinando ai fondi pensione quote molto piu' consistenti di trattamento di fine rapporto. E indispensabile un suo pieno decollo e la realizzazione delle condizioni normative e contrattuali per la sua immediata realizzazione anche nel Pubblico Impiego. In questo quadro va rafforzata la struttura della Commissione di vigilanza sui fondi pensione che dovra' configurarsi a tutti gli effetti come un'autorita' indipendente". Appare chiaro che c'e' una oggettiva convergenza, fra governo e sindacati confederali, per cogestire i fondi pensione: un altro forte segnale di un mutamento in senso neocorporativo delle organizzazioni sindacali. In questo modo si tenta di realizzare una maggiore riduzione del salario previdenziale (il cosiddetto primo pilastro) lanciando i Fondi pensione (il secondo pilastro) su base occupazionale. Cosi si avrebbe un aumento del "risparmio nazionale" (auspicato dal Fmi): questa espressione ambigua significa in realta' che si punta a trasformare il reddito differito dei lavoratori in capitale monetario, da mettere a disposizione del capitale finanziario per i suoi investimenti. Siccome cio' non puo' accadere con il sistema pubblico a ripartizione (perche' non ci sono capitali accumulati) si punta a ridurlo per fare spazio ai Fondi pensione: questi essendo gestiti secondo i principi della capitalizzazione piena, raccolgono parte del salario differito dei lavoratori e lo affidano ai gestori finanziari che lo investono come capitale monetario. Vengono cosi raggiunti due risultati a favore dell'oligarchia finanziaria: da un lato si concentra il capitale monetario disperso e dall'altro si supera la diffidenza individuale dei lavoratori per gli investimenti finanziari, affidandoli ad un intermediario specializzato. Dovrebbe essere percio' chiaro che le esibite preoccupazioni per "l'equita' intergenerazionale" fra i lavoratori servono solo a mascherare tali intenzioni poco favorevoli ai loro interessi. CONCLUSIONI In conclusione, dall'analisi comparata dei documenti governativo e confederale emerge l'assoluta mancanza di una piattaforma rivendicativa in grado di difendere gli interessi dei lavoratori. Pertanto rinnoviamo la richiesta di sospendere la trattativa e di avviare la costruzione di una vera piattaforma rivendicativa che parta dai risultati dell'assemblea nazionale delle delegate e dei delegati eletti nelle Rsu, del 18 aprile scorso, per puntare a generalizzarli ed approfondirli. 1