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Date: Mon, 17 Nov 1997 01:10:09 +0100
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Partito Comunista Internazionalista- Battaglia comunista
Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario
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La crisi finanziaria che lo scorso luglio ha investito la Thailandia
(leggere in proposito l’articolo apparsa sul numero 9 di B.C.), dove si
è registrata la pesante caduta del mercato azionario e la svalutazione
del Bath rispetto al dollaro statunitense, si è inevitabilmente propagata
sull’intero mercato mondiale. Dopo la breve tregua del mese di settembre,
durante la quale i corifei del capitale si sono prodigati nel cantare
le lodi alle virtù della mondializzazione e alla completa apertura di un
mercato importante come quello cinese, il sistema finanziario
internazionale ha vissuto una delle giornate più critiche di questo fine
millennio.
L’ondata speculativa originatasi sui mercati finanziari del sud-est
asiatico ha sommerso le borse dell’intero pianeta. La borsa di Hong Kong,
la più importante del sud-est asiatico dopo quella di Tokyo, in soli tre
giorni ha visto l’indice crollare del 40%, mentre tutte le altre piazze
borsistiche dell’area per contenere le perdite hanno deciso di sospendere
le contrattazioni. Per dare un’idea della gravità della crisi finanziaria
in corso, bisogna ricordare che nella sola giornata del 28 ottobre, quando
l’indice della borsa di New York ha subito un ribasso del 7,2%, nelle
varie piazze borsistiche mondiali si sono “bruciati” capitali per una
cifra che sfiora i due milioni di miliardi di lire.
A soli tre anni dalla crisi messicana, durante la quale le borse
dell’America latina hanno fatto registrare pesantissime flessioni negli
indici azionari, il capitalismo mondiale è ancora una volta scosso da
un violento terremoto finanziario. Come sempre l’ideologia borghese, pur
di nascondere i veri motivi di queste periodiche crisi è pronta a
mistificare spudoratamente la realtà dei fatti. Economisti, esperti,
guru della finanza e politicanti dell’ultima ora, quando commentano
la crisi, strumentalmente usano due pesi e due misure. Infatti quando
si riferiscono ai paesi del sud-est asiatico, o ad altre aree
periferiche, individuano i motivi della crisi in politiche economiche
poco liberiste, mentre i crolli delle borse europee e nordamericane
sono ritenuti ingiustificati in quanto i parametri dell’economia reale
sono tutti positivi. Da un lato giudicano le crisi come un effetto
salutare per l’economia in quanto impongono ai vari governi politiche
più liberiste, dall’altro le ritengono dannose e ingiustificate perché l’economia reale va a gonfie vele ed invitano gli
investitori a non lasciarsi prendere dal panico.
Nella realtà, la globalizzazione del capitale, avendo prodotto la
completa unificazione del mercato, determina che la crisi finanziaria
di un paese si ripercuota immediatamente sull’intero sistema non
risparmiando neanche quei paesi in cui il trend economico è positivo.
La logica di tali fenomeni è da ricercare nel fatto che il capitale
finanziario negli ultimi dieci anni, grazie alla completa
liberalizzazione del mercato e alla creazione di nuovi strumenti
finanziari (opzioni, futures, warrant ecc.), si è sempre di più
distaccato dall’andamento dell’economia reale. Il capitale finanziario,
nello scegliere i mercati e settori nei quali investire, valuta
esclusivamente i tassi d’interesse, in quanto sono questi in
definitiva a determinare l’alta o bassa remuneratività del capitale
investito. Ma se la crescita dei corsi azionari è avvenuta senza un
adeguato sviluppo del sistema produttivo, ma solo grazie a manovre
speculative, le cadute verticali delle borse interessando anche le
azioni delle società inserite nel mondo della produzione determinano delle conseguenze disastrose
sull’intero apparato produttivo e nelle condizioni di vita del
proletariato.
Dopo le giornate dei crolli verticali, gli indici azionari di tutte le
borse mondiali sono tornati a salire, recuperando parzialmente le perdite
subite nei giorni precedenti. Ma una crisi di tale portata, durante la
quale ingenti masse di capitali si sono spostati da un mercato all’altro
nella ricerca spasmodica di briciole di plusvalore, non può essere tanto
facilmente assorbita dal sistema finanziario in quanto lascia in eredità
una schiera di paesi economicamente allo sbando. La borghesia del sud-est
asiatico per rilanciare l’apparato produttivo non potrà che imporre alla
propria classe operaia sacrifici enormi.
La crisi finanziaria che ha colpito i paesi del sud-est asiatico non è
un fulmine a ciel sereno, come spesso è stato detto in questi giorni
dall’economia borghese, ma è la conseguenza dell’azione combinata di
alcuni fattori economici che hanno turbato il fragile equilibrio
macroeconomico nell’intera area del Pacifico. Decantati dalla borghesia
internazionale come il prodotto più genuino della globalizzazione
dell’economia, le tigri asiatiche sono sprofondati in una gravissima
crisi economico-finanziaria. Dopo decenni di crescita del Pil a due
cifre negli ultimi tre anni le economie dei paesi del sud-est asiatico
segnano il passo.
E’ entrato in crisi un modello di sviluppo che aveva garantito
all’intera regione di industrializzarsi e diventare competitiva sui
mercati mondiali. Per tutti gli anni ottanta il capitalismo giapponese,
avendo accumulato una quantità enorme di capitale finanziario
inutilizzabile sul mercato interno, attratto dall’alta remuneratività
ha iniziato ad investire nei paesi del sud-est asiatico, finanziando
un’economia altamente dinamica. Il circolo virtuoso dei paesi del
sud-est asiatico si è completato anche grazie ad un costo della
forza-lavoro bassissimo. In virtù dei bassissimi salari le tigri
asiatiche riuscivano ad esportare sui mercati mondiali e nello stesso
tempo mantenevano in pareggio i conti con l’estero. Il meccanismo dello
sviluppo economico si è basato su alcuni fattori chiave. Da un lato
i capitali stranieri davano le necessarie garanzie di finanziamento
delle economie, dall’altro lato le esportazioni delle merci sul mercato
mondiale garantiva un equilibrio nei conti con l’estero. Per evitare
che l’afflusso di capitali si traducesse in importazione d’inflazione,
tutte le monete dell’area del sud-est asiatiche si sono ancorate
al dollaro statunitense. La parità fissa delle monete nazionali con
il biglietto verde ha dato nel corso degli anni ottanta e primi
anni novanta degli indubbi vantaggi alle economie delle tigri
asiatiche. Infatti l’ancoraggio al dollaro non solo ha permesso loro
di vedere affluire capitali a tassi d’interesse più bassi rispetto a
quelli che si avrebbero avuti senza la parità fissa, ma grazie al
costante deprezzamento del dollaro rispetto alla moneta giapponese
le tigri asiatiche hanno potuto incrementare le esportazioni verso
il Giappone e il resto del mondo.
Le difficoltà per i paesi del sud-est asiatico sono iniziate quando
nel corso dei primi anni novanta il Giappone sprofonda in una gravissima
crisi economica e non può più investire capitali nei paesi dell’area
circostante. Lo scoppio della bolla speculativa dei primi anni novanta
non solo ha messo in crisi l’intero sistema bancario e finanziario
nipponico ma ha praticamente privato le tigri asiatiche della principale
fonte di finanziamento delle loro economie. Il primo provvedimento preso
dalla borghesia giapponese è stato quello di ritirare i capitali
investiti sui mercati internazionali per impiegarli sul mercato interno
nel tentativo di dare ossigeno all’asfittica economia reale. Le
difficoltà giapponesi non si ripercuotano solo sul piano finanziario
ma anche sul piano commerciale; la contrazione del mercato giapponese
provoca un vero e proprio tracollo delle esportazioni dei paesi del
sud-est asiatico. La situazione economica per molti paesi asiatici
precipita quando nel 1995 gli Stati Uniti, per risollevare le sorti dell’economia giapponese, impongono una brusca
inversione di tendenza nelle quotazioni del dollaro rispetto allo
yen. Dopo gli anni della svalutazione, il dollaro ha iniziato ad
apprezzarsi rispetto alla moneta nipponica accentuando ancor di più
gli squilibri economici dei paesi asiatici. Con la svalutazione dello
yen il Giappone è riuscito a rilanciare le proprie esportazioni ma
nello stesso tempo ha messo ancor di più in difficoltà le economie
delle tigri asiatiche.
La rivalutazione del dollaro ha delle conseguenze disastrose anche
sul fronte del debito pubblico delle tigri asiatiche; infatti per
mantenere la parità fissa della propria moneta rispetto al dollaro,
le banche centrali sono costrette ad aumentare i tassi d’interesse
con la conseguenza di aumentare gli oneri del debito pubblico.
L’aumento dei tassi d’interesse produce la naturale conseguenza di
spostare i capitali dal mercato azionario a quello dei titoli sul
debito pubblico con la conseguenza di determinare un’inversione di
tendenza nella crescita degli indici azionari. Finisce il boom
delle borse e il grande capitale finanziario scappa verso lidi
più remunerativi.
Crollo delle esportazioni, conti con l’estero sempre più in rosso e
un debito pubblico fuori controllo, sono all’origine della crisi
finanziaria che ha colpito le tigri asiatiche. In questo contesto
contrassegnato da una profonda crisi economica si è inserita la
speculazione finanziaria che ha colpito in primo luogo quei paesi
come la Thailandia che più di altri si trovavano in difficoltà.
Nell’attacco speculativo sono saltate le parità di tutte le monete
locali con il dollaro, con la sola eccezione della moneta di
Hong Kong che, grazie alle riserve valutarie della Cina, è riuscita
finora a mantenere l’ancoraggio con la moneta americana.
Nel momento in cui scriviamo, tra riprese degli indici azionari
e nuovi scivoloni borsistici, la tempesta finanziaria sembra placarsi
ma l’eredità che ci lascia è pesantissima. Il capitalismo in questa
fase storica in cui dominano le forme di accumulazione più
parassitarie, in cui il capitale finanziario pur essendo impiegato
fuori dalla produzione pretende di partecipare alla spartizione del
plusvalore estorto al proletariato, potrebbe anche superare l’attuale
crisi finanziaria ma ciò può solo avvenire attaccando ulteriormente
le condizioni di vita del proletariato mondiale imponendogli nuovi e
pesanti sacrifici in termini di riduzione del costo del lavoro.
PL