From: apellilli@peacelink.it (Antonio Pellilli)
Date: 20 Apr 97 09:33:00 GMT
Subject: pensioni 97
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Ciao All !!!
[il manifesto] 07-Marzo-1997
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Le economie dei pensionati
Sergio Cesaratto, Franklin Leon Serrano, Antonello Stirati***
GLI ESPERTI e gli opinionisti più autorevoli vanno sostenendo in maniera
martellante che nei paesi industrializzati la quota degli anziani rispetto
alla popolazione occupata non potrà che crescere, con la conseguenza che
risulterà insopportabilmente oneroso agli occupati sostenere i redditi dei
sempre più onerosi pensionati. In conseguenza di ciò si propone un disimpegno
del settore pubblico e una progressiva privatizzazione della previdenza.
Attraverso i "fondi pensionistici" ciascuno dovrebbe diventare parte di un
"capitalismo diffuso", mettendo a frutto i propri risparmi senza così dover
pesare nel futuro sugli occupati o sulle "future generazioni".
Questo ragionamento si basa su una prima importante assunzione, cioè che il
numero degli occupati nel futuro non aumenti. In un paese come l'Italia,
politiche che consentano la riduzione della disoccupazione e
l'accrescimento del tasso di attività (cioè del numero di lavoratori attivi
sulla popolazione in età lavoratrice), di cui quello femminile è
particolarmente basso nel nostro paese, oltre che l'apporto di lavoratori
stranieri, sono tutti fattori che possono consentire di accrescere in
maniera considerevole il numero di occupati. Ma supponiamo pure che il
numero degli occupati nel futuro resti costante o addirittura diminuisca a
fronte di una popolazione anziana che aumenta, il ragionamento su esposto
rimane valido?
I sostenitori della privatizzazione della previdenza muovono dalla
considerazione che in un futuro non lontano i (pochi) occupati non potranno
sostenere i (tanti) pensionati per cui ciascuno dovrà provvedere oggi ad
assicurarsi la sussistenza futura. Questa affermazione è però in palese
contrasto con la verità incontestabile che, indipendentemente dal sistema
previdenziale adottato, le merci consumate dai pensionati sono quelle
prodotte dai lavoratori occupati. Non c'è alcun modo per cui ciascuno di
noi possa accantonare oggi le merci che produce in modo da consumarle in
vecchiaia senza gravare sui futuri "giovani" occupati. Qualunque sia il
sistema previdenziale sono i lavoratori occupati a produrre le merci
consumate dai non occupati.
L'unica maniera per evitare che i consumi di una quota sempre crescente di
anziani gravi in maniera insostenibile sui "giovani" lavoratori occupati è
di accrescere progressivamente la produttività di questi ultimi (cioè la
quantità di merci prodotta da ciascuno di essi) in maniera tale che, pur
meno numerosi, essi siano in grado di produrre quanto basta per assicurare
a loro e alla popolazione non occupata livelli di benessere non inferiori
al passato.
Il risparmio
Si tratta allora di verificare se il modello previdenziale privato assicura
questa produttività crescente degli occupati. I moderni riformatori del
sistema pensionistico ritengono proprio di sì. Sulla scorta della teoria
economica prevalente essi ritengono che un atto di risparmio oggi, devoluto
ai fondi pensione, consentirà agli imprenditori di finanziare l'acquisto di
nuovi macchinari o innovazioni prodotti in luogo dei beni di consumo cui si
è rinunciato. Questi macchinari e innovazioni consentiranno un progressivo
accrescimento della produttività degli occupati. È in questo modo, si
argomenta, che i risparmi accumulati durante la vita lavorativa si
traducono in aumenti di produttività. Una volta giunti all'età della
pensione i lavoratori risparmiatori non faranno altro che richiedere
indietro sotto forma di pensioni parte della maggiore produzione che la loro
frugalità ha consentito. I "giovani" d'altronde, saranno ben lieti di
dividere parte della loro produzione con gli anziani, poiché sanno che la
loro elevata produttività è frutto dei sacrifici delle precedenti
generazioni.
Non v'è dubbio che questo ragionamento trovi ampio conforto nella teoria
economica dominante. Tuttavia le teorie che oggi vanno per la maggiore
altro non sono che una riformulazione della teoria "marginalista" che
autori come Keynes, Sraffa ed altri si trovarono a criticare alcuni decenni
fa. Oggi, come all'epoca di Keynes, l'elevata disoccupazione smentisce la
fondatezza di quelle teorie e rafforza la validità delle critiche che le
sono state mosse, sebbene esse siano ignorate dal diffuso conformismo.
Proprio le argomentazioni di Keynes e Sraffa ci consentono di sostenere che
non v'è nessuna ragione per cui maggiori risparmi investiti in attività
finanziarie come i "fondi pensione" si traducano in incentivi per gli
imprenditori a comprare macchine aggiuntive o a innovare. Anzi, come ci
insegna Keynes, l'effetto di maggiori risparmi privati o di una riduzione
della spesa pubblica previdenziale, può proprio essere l'opposto, di
scoraggiare la domanda aggregata, determinando disoccupazione e calo degli
investimenti.
Rileva qui osservare che mentre dal punto di vista individuale fa poca
differenza devolvere parte del proprio reddito allo stato sotto forma di
contributi previdenziali oppure ai fondi pensione sotto forma di risparmi
previdenziali, le implicazioni per l'economia non sono le medesime. Col
primo metodo i contributi si traducono in spesa pubblica, sostegno alla
domanda e alla crescita sì da costituire una premessa alla futura
sostenibilità del sistema previdenziale. Col secondo metodo, i risparmi
previdenziali si possono tradurre in minore domanda, mancata crescita e
futuro fallimento del sistema privatizzato.
Queste considerazioni, che si aggiungono ai validi argomenti già sollevati
da Pizzuti su questo giornale, ci inducono a ritenere che il sistema
previdenziale pubblico sia comunque il migliore. Proprio canalizzando i
contributi pensionistici pagati dai lavoratori occupati al finanziamento
della spesa pubblica ci si può assicurare che tali contributi si traducano
in domanda di beni e servizi e in produzione. Il sostegno della domanda
induce aspettative ottimistiche da parte delle imprese nei riguardi della
domanda per i loro prodotti e si traduce in accrescimento dell'occupazione
e in investimenti, assicurando che nel futuro gli occupati saranno per
numero e produttività in grado di sostenere la popolazione inattiva. Sono
proprio i progressivi tagli alla spesa pubblica che stanno determinando in
Europa un restringimento o mancato allargamento della base occupazione
determinando, loro sì, un peso insostenibile dei non occupati sugli
occupati. Ed è proprio desolante constatare che quei tagli vengano
presentati all'opinione pubblica come soluzione dei problemi futuri che
proprio essi stanno precostituendo.
* "La Sapienza", Roma
** Università Federale di Rio de Janeiro
*** Università di Siena
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Un Saluto, Antonio
apellilli@peacelink.it or thestone@tightrope.it