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![]() BALCANI AL BIVIO di Andrea Ferrario A due anni dagli accordi di Dayton la penisola balcanica continua ancora a offrire un panorama di instabilità politica ed economica diffusa, nella quale i fattori più diversi, da quelli militari a quelli finanziari, diplomatici o sociali, faticano a trovare un'espressione coerente. In questo quadro confuso si delineano comunque con chiarezza alcune tendenze. LA POLITICA L'ultimo anno è stato contraddistinto da un vasto ricambio delle forze politiche al potere, che ha dato luogo a degli esiti in parte contrastanti: hanno perso posizioni alcuni forti partiti ex-comunisti, come quello socialdemocratico di Iliescu in Romania e quello socialista bulgaro, mentre in Albania sono stati invece gli ex-comunisti a tornare al potere, scalzando il "democratico" Berisha sull'onda della rivolta popolare. In Serbia e in Macedonia gli ex-comunisti di Milosevic e di Gligorov, rispettivamente, rimangono ancora al potere, ma la loro posizione e sempre più messa in discussione da manifestazioni e tornate elettorali, o da scontri etnici. In Montenegro si è avuto un ricambio, a livello presidenziale, tutto interno al partito ex-comunista e tuttavia di portata radicale, vista la totale inversione di politica, verso posizioni liberali, del neoeletto Djukanovic. Anche in Kosovo il potere del "presidente-ombra" Rugova vacilla, dopo le recenti manifestazioni degli studenti di Pristina. La Croazia, invece, costituisce un'eccezione, visto che Tudjman è stato confermato presidente con un'ampia maggioranza di voti. Rimane infine la Bosnia, nella quale si sono svolte finalmente le elezioni regionali (nel momento in cui scriviamo i risultati definitivi non sono ancora noti, anche se è già passato più di un mese dalla chiusura dei seggi), che hanno testimoniato la ancora viva volontà, da parte di molti bosniaci, di invertire il controllo politico ottenuto mediante le "pulizie etniche". Vi è stato poi l'aprirsi di uno scontro aperto all'interno della dirigenza serbo-bosniaca, che ha visto un rafforzamento dell'autorità internazionale del presidente Plavsic, a svantaggio dei duri di Karadzic. In complesso, con la netta eccezione di Tudjman e fatta salva la particolare situazione bosniaca, sembra generale una tendenza al rafforzamento delle forze di tendenza liberale e più favorevoli a riforme di mercato, indipendentemente dal fatto che si tratti di partiti e uomini che si ispirano alla destra tradizionale (Romania, Bulgaria), o di soggetti di area socialista e/o nazionalista (Albania, Montenegro). In Serbia, tuttavia, vi è stato in controtendenza il succeso dell'ultranazionalista Seselj nel primo tentativo, fallito, di tenere elezioni presidenziali valide. E a questo proposito va rivelato il fatto che un'altra tendenza in atto è ovunque quella della netta diminuzione delle persone che si recano a votare in occasione delle elezioni. E' difficile dire se questa tendenza proseguirà in futuro. Molto dipenderà dai risultati che otterranno le drastiche riforme economiche da poco avviate in Romania e in Bulgaria, dalla misura in cui le forze appena giunte al potere riusciranno a stabilizzare la loro incerta posizione (Albania, Montenegro e forse anche Serbia, se vincerà Seselj), dall'esito dello scontro all'interno della leadership kosovara e dall'evolversi della situazione politica complessiva in Bosnia dopo le elezioni (nonché dal successo e dal fallimento dell'intervento della NATO). Il dato fondamentale sembra comunque il totale insuccesso dei tentativi delle élite al potere di "normalizzare" le rispettive società, indipendentemente dal fatto che ciò sia stato tentato nel nome della democrazia e del libero mercato o degli interessi nazionali. L'ECONOMIA Gli indici economici indicano l'aprirsi di un divario tra l'area settentrionale dei Balcani e quella meridionale. Un dato economico essenziale come quello relativo al Prodotto Interno Lordo (PIL), risulta in crescita in Croazia, Bosnia e Romania, mentre è praticamente stagnante in Macedonia e in Jugoslavia e in forte calo in Bulgaria, addirittura in caduta libera in Albania, dove non è neppure stato possibile rilevarlo in maniera affidabile. La realtà, tuttavia, non è così semplice. Nel caso della Bosnia, la crescita del PIL rappresenta solo un debole segnale di ripresa di attività dopo il blocco e il tracollo dell'economia in seguito alla guerra, e all'interno dello stesso paese vi sono grandi disparità, con regioni in cui continua un forte calo del PIL (Repubblica Serba). L'economia bosniaca è inoltre "drogata" dagli ingenti aiuti che stanno pervenendo dopo gli accordi di Dayton. Nel caso della Romania, il dato del tasso di crescita non ha ancora fatto a tempo a registrare le conseguenze della drastica inversione di politica economica operata dal nuovo governo liberista di Ciorbea, dopo la caduta del governo protezionista di Iliescu. A Sud, l'Albania è passata nel giro di pochi mesi dal più alto tasso di crescita dell'Europa Orientale (e uno dei più alti del mondo) al crollo di tutti gli indici economici in seguito alla rivolta contro il presidente Berisha. La Bulgaria è stata messa in ginocchio da una crisi economica accompagnata da un'inflazione a livelli astronomici, ora contrastata dalle politiche monetaristiche del nuovo governo, mentre sta peggiorando la situazione anche in Macedonia, dove solo ora verrà avviato un piano di aggiustamento strutturale. In Jugoslavia manca ogni cenno di ripresa dell'economia, dopo la forte crisi successiva al disgregamento della ex-federazione socialista, aggravata dall'embargo internazionale. L'economista Stephen Wheatcroft ha rilevato un altro dato che può essere utile per ottenere un quadro più preciso e cioè il livello del PIL nel 1996 rispetto al 1989, che mostra come tutti i paesi balcanici siano ancora ben lontani anche solo dal tornare ai livelli di prima del crollo del sistema socialista: prima risulta essere la Romania (che tuttavia sotto Ceausescu aveva uno dei PIL più bassi della regione) con l'82%, seguita dalla Bulgaria e dalla Croazia con il 70%, dalla Macedonia con il 65% e dalla Jugoslavia con appena il 54%, mentre per Bosnia e Albania la crisi è tale che non esistono dati affidabili. Molti di questi paesi hanno avviato solo di recente piani di privatizzazione dell'economia, che stanno ora attirando ingenti capitali esteri. Particolarmente ambite sono le aziende di stato che godono di un monopolio nel loro settore, soprattutto quelle che si occupano di telecomunicazioni: in Serbia la privatizzazione della Telecom locale è già avvenuta e le quote in vendita sono state acquistate dall'italiana STET e da un gruppo greco. Privatizzazioni delle aziende statali per la gestione delle telecomunicazioni sono imminenti anche in Bulgaria e Macedonia, mentre grande interesse suscitano altri settori, come quelli delle materie prime e dei prodotti alimentari. E' da rilevare a questo proposito anche l'importante privatizzazione, a opera del governo serbo, del complesso minerario-metallurgico di Trepca, dal quale dipende la maggior parte dell'economia del Kosovo. Il complesso è stato venduto a un gruppo greco e il governo-ombra degli albanesi della provincia ha dichiarato questa operazione "illegale". Oltre che alle privatizzazioni, il capitale straniero è particolarmente interessato anche alla mandopera qualificata a basso costo, come dimostra il caso della tedesca Audi, che sta portando a termine un importante accordo con il governo macedone per l'apertura di una linea produttiva. E' significativo, allo stesso tempo, che i tedeschi abbiano chiesto misure protezionistiche per la produzione dei loro stabilimenti, esigendo dal governo di Skopje che quest'ultima venisse categorizzata come "nazionale macedone". Un altro settore in cui risulta particolarmente attiva, tra gli altri, l'Italia, è quello delle infrastrutture, in particolare strade e gasdotti. L'Italia è finalmente riuscita a firmare accordi (il primo con la Bulgaria) per la costruzione del tanto agognato "corridoio n. 8", per il quale gli Stati Uniti hanno già stanziato decine di milioni di dollari di finanziamenti e che dovrebbe collegare con un'autostrada Istanbul a Tirana e di qui a Brindisi, attraverso Sofia e Skopje, procurando, tra le altre cose, importanti appalti alle ditte italiane. La Grecia mira invece alla costruzione di un altro corridoio, che dovrebbe andare da Atene, a Belgrado e a Zagabria, e di qui verso l'Europa Centrale. I Balcani potrebbero essere attraversati anche dall'oleodotto destinato a trasportare gli enormi giacimenti di petrolio del Mar Caspio verso l'Europa e il Mediterraneo. Se non prevarrà l'opzione turca, che eliminerebbe il transito attraverso la penisola balcanica, rimarranno tre possibilità: una rotta che andrà dal porto bulgaro di Burgas, sul Mar Nero, a quello greco di Alexandropoulis, un'altra sempre da Burgas, attraverso Sofia, Skopje e Tirana fino all'Italia e, in ultimo, una dal porto romeno di Costanza all'Europa Centrale. Tutti questi progetti comporteranno ben pochi vantaggi per i paesi balcanici: innanzitutto si tratta di canali di transito, che non contribuiranno allo sviluppo economico locale, anche perché le infrastrutture potranno essere realizzate solo da aziende occidentali. Vi saranno poi gli aspetti negativi del probabile aumento del peso delle oligarchie locali, in seguito alla maggiore rilevanza geopolitica dei rispettivi paesi e alla possibilità di lucrare sugli ingenti appalti, e di una maggiore esposizione agli interessi stranieri LE LOTTE SOCIALI L'evento più rilevante nei Balcani, tra quelli recenti, è stato senz'altro quello della rivolta albanese, che non ha precedenti nella recente storia europea. Ma anche in quasi tutti gli altri paesi balcanici ci sono state grandi manifestazioni e lotte sociali. Quello che più sembra colpire, tuttavia, è lo scarso ruolo svolto dagli operai e dai lavoratori in genere nell'ambito di queste lotte, soprattutto alla luce dei rivolgimenti economici e sociali in corso. A parte il caso dell'Albania, che ha visto coinvolta la popolazione albanese nel suo complesso, in prima fila sembrano essere gli studenti (in Serbia, in Bulgaria e anche in Albania, l'inverno scorso, in Kosovo questo autunno), i risparmiatori truffati (Albania e Macedonia) oltre a disoccupati e pensionati (sempre Macedonia) o contadini (in Bulgaria), con l'importante eccezione della Romania, dove esistono sindacati bene organizzati (seppure generalmente favorevoli alle politiche liberiste) e dove nell'agosto scorso si sono avute anche reazioni spontanee ai limiti della rivolta, di fronte alla chiusura di numerose grandi industrie. In Bulgaria, nonostante la catastrofica situazione economica, i lavoratori non si sono lasciati coinvolgere nella lotta per l'avvicendamento politico dell'inverno scorso, e due scioperi generali, già indetti, sono stati revocati all'ultimo secondo per le scarse adesioni raccolte. In Serbia solamente gli operai del centro industriale di Kragujevac sono scesi in piazza, e solo per breve tempo, in coincidenza con le imponenti manifestazioni degli studenti dell'inverno scorso. In Macedonia sono stati gli studenti a fare le più importanti manifestazioni, dal carattere fortemente sciovinista e contro la popolazione albanese, seguiti da disoccupati e pensionati, le cui prolungate manifestazioni dello scorso inverno sono state ampiamente ignorate dai media internazionali. Non vanno poi dimenticate le manifestazioni della popolazione albanese della Macedonia, sfociate in disordini e repressioni. Anche in Kosovo a muoversi sono stati gli studenti, mentre gli operai, che avevano avviato le importanti manifestazioni del 1989, sono questa volta rimasti fermi. In Bosnia, vista anche la situazione economica, politica, demografica e, di fatto, di occupazione militare, il dissenso si è manifestato attraverso le ultime elezioni amministrative, che hanno mobilitato molti profughi, tornati ai loro luoghi di residenza per delegittimare, con il loro voto, gli autori della pulizia etnica. In complesso, quindi, i Balcani hanno visto negli ultimi tempi un fortissimo intensificarsi delle mobilitazioni popolari, anche se spesso contraddistinte da posizioni filoimperialiste e filocapitaliste (in Serbia, in Bulgaria e, in parte, anche in Albania) o addirittura razziste (in Macedonia). Tuttavia queste posizioni sono anche frutto della giustificata reazione spontanea della popolazione alla politica di potere di arroganti e oppressive oligarchie (sempre in Serbia, in Bulgaria, in Albania e in parte anche in Macedonia) e degli scarsissimi margini di manovra esistenti a causa della catastrofica condizione economica e della soverchiante influenza politica, militare ed economica estera, nonché dei lunghi decenni in cui ogni dibattito politico è stato soffocato sul nascere. Si tratta quindi di mobilitazioni che, al di là del loro segno politico immediato, sono l'indice di una necessità di agire in prima persona per cambiare una situazione insoddisfacente e sentita come estranea. Se con il tempo riusciranno a tradursi in movimenti maggiormente organizzati e se allo stesso tempo verranno a crearsi condizioni materiali tali da consentirne un'azione efficace, potranno acquisire un peso politico decisivo. Altrimenti vi sarà il rischio che aprano la strada a nuove forze reazionarie o a ulteriori interventi stranieri. GLI INTERESSI IMPERIALISTI I Balcani continuano a essere al centro di intense attività diplomatiche e militari. Le forze NATO dovrebbero prolungare la propria presenza oltre la scadenza prevista del giugno 1998, dato che sembra probabile un voto positivo del Congresso americano. E' significativo che quest'ultimo abbia discusso lo stanziamento dei relativi fondi insieme a quello dei costi dell'allargamento della NATO: in America si continua a considerare l'operazione SFOR in Bosnia come un importante banco di prova per un eventuale, ulteriore allargamento dell'alleanza atlantica. Un suo fallimento avrebbe pertanto ripercussioni che andrebbero ben oltre l'area balcanica. Più a sud è da segnalare invece l'imminente drastica diminuzione in Macedonia del contingente UNPREDEP, che contava 1500 uomini, dislocati sopratutto lungo il confine con la Serbia. In Albania il governo Nano ha affidato "in appalto" alle potenze più influenti nella regione la ristrutturazione delle principali strutture militari e di sicurezza: delle forze di polizia si occuperà l'Italia, che continua a mantenere comunque un contingente militare nel paese e che ha acquisito grande influenza in seguito alla direzione dell'operazione "Alba", mentre l'esercito è in corso di ristrutturazione a opera della Grecia (anche se della ristrutturazione del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore dell'Esercito si occuperà direttamente la NATO) e, recentemente, è stato annunciato che un contingente di uomini della CIA provvederà alla ristrutturazione dei servizi segreti albanesi. Particolarmente attivi per cercare di ottenere un ulteriore allargamento della NATO sono i governi di Bulgaria, Romania e Macedonia, mentre la Jugoslavia rimane praticamente l'unico paese dell'Europa Orientale che non ha chiesto di aderire all'organizzazione e che non partecipa a sue iniziative. In Macedonia, il presidente Gligorov ha offerto al Patto Atlantico l'ambita base di Krivolak, che occupa una posizione strategica nel centro del paese, mentre la Romania (dopo avere svolto un ruolo di primo piano nell'intervento militare in Albania, al quale ha partecipato con uno dei maggiori contingenti) ha addirittura proposto ufficialmente agli americani di sollevarli dall'impegno dell'operazione SFOR, dislocando proprie truppe in sostituzione di quelle USA. La Bulgaria ha ospitato a ottobre un importante incontro dei ministri della difesa dei Balcani meridionali, al quale emblematicamente hanno partecipato, oltre a Bulgaria, Albania e Macedonia, le tre potenze interessate all'area: Stati Uniti, Italia e Turchia - la Grecia ha deciso solo all'ultimo di partecipare (in passato si era rifiutata), mentre la Russia, come la Jugoslavia, non è nemmeno stata invitata, a differenza di quanto era accaduto negli anni scorsi. Il fatto ha causato una grave crisi diplomatica tra Russia e Bulgaria. In generale i russi sembrano essere sempre meno influenti nell'area, anche se conservano l'importante arma delle forniture di gas: trattative difficili in merito alle modalità di fornitura e ai costi sono in corso con Jugoslavia e Bulgaria. Mentre gli Stati Uniti mantengono un controllo militare e politico complessivo della regione, la novità più evidente è quella del protagonismo economico e militare dell'Italia e della Grecia, parallelo a un ridimensionamento delle ambizioni russe, che tuttavia dispongono ancora di importanti leve. Non va dimenticato il peso economico di cui godono nella regione la Germania, che si riflette anche a livello politico (come per esempio in Bulgaria, Macedonia, Croazia) e nel complesso l'Unione Europea, che partecipa massicciamente al finanziamento della ricostruzione in Bosnia e della imprenditorialità privata in tutta l'area attraverso il programma PHARE. (anticipo da Guerre&Pace n. 45, dicembre 1997) |