![]() |
|
![]() |
Ci sembra opportuno esprimere alcune considerazioni su ciò che
è accaduto nelle ultime settimane a Torino, e su ciò che
ha portato, secondo noi, ad un inedito livello di scontro.
Ormai da mesi Torino rappresenta per la “sinistra” un banco di prova
per nuove alleanze politiche e gestionali delle questioni sociali. Questo
ha creato una situazione estremamente precaria che, da un lato, permette
alla destra tradizionale di cavalcare tutte le contraddizioni che violentemente
emergono all’interno di quartieri come S.Salvario o S.Rita; e dall’altro
permette alla “nuova destra” (PDS, PPI e soci) di avere posizioni ambigue
rispetto a punti fondamentali quali il diritto alla casa, la situazione
occupazionale, l’immigrazione , l’antiproibizionismo.
La nostra metropoli, grazie al processo di deindustrializzazione, sa
produrre solo più disoccupazione, lavoro precario e sottopagato.
Paradossalmente l’area del crescente disagio diventa una delle poche ragioni
di nuova occupazione artificiale: assistenti, sottoassistenti, operatori,
mediatori culturali, accompagnatori all’inserimento, sono fra le varie
figure bastarde preposte al presidio di questo malessere quotidiano.
L’incapacità di far fronte a questo vero problema della città,
da parte di qualsiasi governo comunale, porta la nostra classe politica
locale a scelte di facciata, di immagine, tendenti a spacciare Torino come
nuovo polo cultural-religioso “europeo”. Torino punta a vendersi come città
d’arte (sic!), cultura (sic! sic!), centro di scambi molteplici, slegata
dal tradizionale vincolo monocolturale automobilistico. La famiglia Agnelli,
lungi dall’abdicare dal posto di comando reale, si ricicla nella nuova
veste di corte illuminata, che con falso mecenatismo (finanziato dalle
casse pubbliche) trasforma gli obsoleti impianti in centri “polivalenti”,
trasferendo le vecchie produzioni verso Polonia, Argentina, Brasile.
Con l’abbandono progressivo delle tradizioni industriali, la vecchia
famiglia Agnelli non scompare dal governo della città, ma anzi detta
e determina le nuove alleanze di potere e governo della metropoli. La città
declina, ma la famiglia reale no. Stabilisce chi governa, usa la città
come propria proprietà, costruisce feste pagane (Bravo, Brava, Sindone)
per il popolino sempre pronto ad applaudire il re che passa.
Di questa riconfigurazione della città, a immagine e somiglianza
dei nuovi Savoia, ne raccolgono i frutti a piene mani commercianti, albergatori,
operatori del terziario. Gli stessi che sono referente preferenziale delle
politiche di “consenso” della giunta. Grandi quantità di denaro
pubblico sono state dirottate - a discapito delle periferie degradate -
verso la riqualificazione del centro come salotto-vetrina della città,
arrivando persino alla promozione di ripetute pulizie etniche e sociali
di qualsiasi forma di anomalia (immigrati, tossicodipendenti, venditori
ambulanti, microdelinquenza, barboni).
Alla vigililia dell’ostensione del falso straccio tutto deve essere
in ordine: dai muri, alle vetrine, alla tipologia dei frequentatori del
centro metropolitano. La nuova kermesse pagana non tollera devianze dal
programma,che siano proteste collettive o individuali. Una città
pacificata si deve stendere ai piedi del sacro lino in questo mese di marzo.
STORIA INFELICE DI UNA GIUNTA
La nuova giunta di Castellani è nata sotto una cattiva stella.
Osteggiata dal fenomeno dei comitati spontanei dei cittadini, contestata
più volte dai commercianti “tartassati”, incalzata dall’offensiva
del qualunquismo di Costa, la formazione del sindaco-professore è
stata rieletta con la grazia ricevuta di tremila voti in più. Castellani
ha quasi perso le elezioni basando la sua campagna elettorale sugli stessi
argomenti cari alla destra: ordine/legalità, immigrazione/clandestinità,
droghe/proibizionismo. Visti i precari equilibri, la giunta risulta sempre
più stretta dal ricatto del PDS, che per tradizione e cultura sa
essere il partito dell’ordine per eccellenza (il partito coi baffi, baffoni
e buffoni).
Da un lato, per accontentare la lobby cooperativa-cattolica, apre dormitori
in inverno che chiude in estate, per accontentare la lobby commercial-fascista.
Da una parte perseguita lavavetri e posteggiatori abusivi, dall’altra organizza
feste multietniche. Avanza timide proposte di tolleranza sul consumo delle
droghe per poi chiudere il camper che distribuisce gratuitamente siringhe
e preservativi, dopo le polemiche di Borghezio e le raccolte firme di AN.
Con la stessa modalità intrisa di carota e manganello, questa
giunta è arrivata a riaffrontare la questione degli “spazi occupati”
e “autogestiti”. Nel vano tentativo di “legalizzare” per addomesticare,
ha cercato di operare una divisione fra centri sociali “buoni” e centri
occupati “cattivi”. La realtà risulta ben più incasinata
e trasversale di quanto credano i politici e i funzionari comunali.
E’ noto che in merito il comune di Torino si è fatto promotore
del “mancato” convegno di Arezzo, con cui si cercò di lanciare una
linea di integrazione e scrematura dei centri sociali disposti a “collaborare”.
Questo progetto abortito a livello nazionale venne rilanciato sul piano
locale. A dir il vero con scarsi risultati (le occupazioni da allora hanno
continuato allegramente a proliferare).
Di qui le critiche sempre più incalzanti delle opposizioni (Ghiglia
che chiede le ispezioni sanitarie dei posti occupati, Costa che vuole una
verifica sugli illeciti commerci dei centri sociali coperti dalla giunta,
Borghezio che chiede sgomberi per eliminare consumi di droghe ed elettricità
“abusivi”), rispetto alle quali l’alleanza di centro-sinistra ha risposto
con un richiamo alla necessità di ridefinire i rapporti con i centri
sociali e occupati. Ovvero di riaprire il pacchetto sugli spazi occupati
(tollerati, legittimati, semi-riconosciuti, mai propriamente “legalizzati”),
cercando di imporre delle regole e dei controlli sulle attività
svolte dentro ciascun centro che, per principio, confliggono con l’idea
dell’autogestione e dell’autonomia dei centri occupati. Il PDS, nella persona
di Carpanini, si è fatto maggior interprete di questa concezione
ristretta del controllo sulle attività autogestionarie. Tanto da
aprire una mezza crisi di giunta dove, dietro la minaccia dello sgombero
del csoa Askatasuna qualche mese fa, ha puntato ad imporre il consenso
al proprio progetto anche presso le componenti più scettiche dell’alleanza.
Regolamentare e controllare (alias sorvegliare e punire) i centri sociali,
rappresenta l’obiettivo prossimo della diarchia Castellani-Carpanini. Stante
il fatto che nessuno dei nove centri occupati è disposto ad accettare
una cosa simile, emerge la necessità da parte della giunta di cambiare
a proprio vantaggio i “rapporti di forza” con l’area degli squatter-autonomi
torinesi. Ma come?
LA NOSTRA CRONACA DEI FATTI
“Bisogna stare attenti a non fare di tutti i centri sociali un fascio.
Esistono delle differenze. Certo, se potessi li avrei già svuotati”
- V.Castellani
Per noi la vicenda si apre con un’interrogazione della Lega Nord in
circoscrizione n.ro 3 in cui si chiede lo sgombero dei locali in via Revello
5. A questa fa seguito una richiesta del presidente della 2^ commissione
della circoscrizione al Comune perchè si operi un’ispezione nei
locali di via Revello, attualmente occupati. Dopo qualche settimana qualcuno
murerà la sede della Lega in via Revello e subito dopo due giorni
la Lega rinnoverà le proprie richieste in circoscrizione. In tutta
risposta il Gabrio si mobilita ed occupa l’aula del consiglio di circoscrizione,
ma senza ottenere risposte. Queste le riceverà in Comune con la
rinnovata interpellenza per lo sgombero da parte di Borghezio.
E’ chiaro che la destra muove l’offensiva dalla periferia, dai governi
delle circoscrizioni per ottenere sfogo alle proprie frustazioni di mancanza
di potere. Ma i loro ragli trovano accoglienza in cielo. Il problema degli
squatter-autonomi diventa tale non solo perchè agitato dall’opposizione
di destra. Si approssima la scadenza dell’ostensione della sindone e con
essa quella del controllo e del mantenimento dell’ordine pubblico e della
pubblica decenza (via gli squatter e i barboni dalle ripulite vie del centro).
Il caso scoppia con il corteo notturno “per la liberazione dei prigionieri
politici” del 27 febbraio. Le scritte sui muri della ridipinta via Po fanno
saltare i nervi al sindaco che se la prende con i questurini (possibile
non far nulla contro i “vandali”?), mentre La Stampa e La Repubblica aprono
una campagna “monstre” contro gli schiamazzatori e graffitisti notturni.
Nella campagna di disinformazione si dimenticano di ricordare quali sono
le ragioni di quelle scritte, che cos’è che denunciano, perchè
quella manifestazione è stata indetta.
D’altra parte per il cittadino benpensante è più scandaloso
pensare ad un muro imbrattato (a fronte di tante pubblicità ed insegne
oscene esposte nell’arredo metropolitano) che alla tragica realtà
di quelli che sono ancora imprigionati per dei “reati politici” commessi
venti anni fa.
Per capire l’evoluzione dei fatti bisogna ricordare che in questa occasione
il sindaco Castellani a gran voce dai quotidiani cittadini polemizzò
direttamente col questore sulla presunta “mollezza” delle forze dell’ordine
nei confronti dei mille graffito-terroristi di quella sera.
Francesco Faranda, incassando il colpo, si giustificò dichiarando
che la repressione diretta avrebbe causato danni ben più gravi e
che, dopotutto, in ogni capitale europea si scrive sui muri. Quasi a dire
che per la Questura un “emergenza” degli squatter e dei centri autogestiti
non esisteva. Per Castellani e il Pds evidentemente si, soprattutto quando
i “giovani dei centri sociali” vanno a provocare “situazioni di conflitto”.
Giovedì 6 marzo di sera, una settimana dopo, si apre una
nuova scena. Un magistrato caduto nel dimenticatoio, dopo i gloriosi exploit
degli anni settanta al fianco dei più fortunati Caselli e Violante,
forniva al Pds la scusa di sgomberare tre case occupate su un piatto d’argento,
approfittando delle incombenze di una fantomatica inchiesta.
Ros, polizia e finanza, una volta dentro a tre squat, arrestano tre
compagni anarchici, e non parendogli vero di poter godere di tanta grazia
devastano, pisciano e cacano sui libri, materassi, mobili, e una volta
espletati i loro unici bisogni (cioè quelli animali), telefonano
al Comune per condividere con loro la gioia e sgomberare due su tre posti.
Il terzo, l’alcova, grazie alla massiccia presenza di compagni e squatter
richiamati dal tam-tam di radio Black-Out, veniva perquisito e rilasciato.
Il giorno dopo, sotto al Comune, dove si voleva discutere su una richiesta
di sgombero del csoa Gabrio presentata da Borghezio, si doveva tenere un
presidio informativo indetto da una settimana che, alla luce dei fatti
della sera precedente, assunse una rilevanza diversa, in cui si coglieva
l’occasione per comunicare alla città lo scandaloso comportamento
della polizia, dei Ros e della municipalità del giovedì sera.
La polizia, dieci minuti prima del presidio, senza alcun motivo apparente,
cerca di chiudere il presidio e lo carica. Il dirigente della Questura
Sarlo dice minacciosamente ai compagni “adesso sono tutti cazzi vostri”.
Subito vengono immobilizzati e picchiati sei manifestanti, immediatamente
prelevati e trasferiti in via dei Grattoni. La Celere parte all’inseguimento
del presidio, ormai trasformatosi in una corsa liberatoria ed incazzata
all’interno del salotto chic di Torino. La genuina incazzatura dei compagni
colpisce a gatto selvaggio i simboli della Torino bene: in via Roma cadono,
una dopo l’altra, le vetrine di bar scintillanti, di antiquari irraggiungibili
a qualsiasi tasca modesta, di alto abbigliamento, per poi subito aggredire
la libreria del noto sionista Pezzana e il ristorante della vecchia Torino
liberale, il Cambio. Mai tanta spontaneità si è legata a
tanta intelligenza selettiva, tanto da far gridare ai giornali di potere
ad una presunta “pianificazione” del “disastro”.
Ma la repressione incombe, la Celere si scatena nella classica e spietata
“caccia all’uomo”, con tanto di pistole spianate; non mancano episodi di
solidarietà di fronte alla brutalità e violenza sulle persone
praticata dalle forze del dis-ordine. La polizia ferma alla fine della
giornata 20 persone: 6 tradotte e pestate in nottata in carcere, 14 identificate
in Questura e poi rilasciate dopo qualche ora.
Con questa carica gratuita la Questura ha tentato di dare una risposta
pratica alle polemiche della settimana precedente, ma il bilancio non è
positivo. Questa volta, per la prima volta, i manifestanti hanno saputo
rispondere a tono, senza fuggire disordinatamente, colpendo laddove l’avversario
era più debole. Durante i disordini, mentre la polizia eraimpegnata
ad acchiappare gli “spaccavetrine”, altri squatter rioccupavano l’Asilo
sgomberato. La sera, di fronte all’asilo, schieramenti ingenti di sbirri
tentavano di non far avvicinare la gente; ma dopo qualche ora di tensione,
constatata la testardaggine dei compagni, si ritiravano nei propri covi.
Il giorno dopo regna la confusione nei corridoi del Municipio
e della Questura. Con la fallita operazione sgomberi, la Giunta perde clamorosamente
consensi a destra. Commercianti imbufaliti reclamano spiegazioni al sindaco
e più ordine alla Questura. Castellani per recuperare disperatamente
promette rimborsi immediati, mentre il questore garantisce telecamere intelligenti
piazzate nei punti nevralgici del centro per la fine di marzo (in piena
ostensione).
Politicamente la giornata di venerdì 6 si è tradotta
in una Waterloo. Il tentativo di criminalizzare e sgomberare una parte
delle occupazioni torinesi, cambiando a proprio favore i rapporti di forza
fra Comune e spazi occupati, è fallito. Il gioco alla divisione
tra buoni e cattivi dei centri occupati è stato rovesciato dalla
pratica di piazza.
I giornali aprono una campagna di linciaggio clamorosa, diretta dalle
veline della Questura, dove i compagni arrestati vengono dipinti come pericolosi
“ecoterroristi”, e i manifestanti come “vandali” e “imbecilli” che non
hanno capito assolutamente che fosse in corso una “tranquilla” perquisizione.
Intanto, sabato 8, gli eco-vandali riemergono dalle nebbie artificiali
di Amelio e gli fanno rivivere i brividi degli anni settanta a Torino:
vengono pacificamente bloccate, con la solidarietà di una parte
dei lavoratori della troupe, le riprese del film “Così ridevamo”,
giusto per attirare nuovamente l’attenzione sulla vergogna delle violente
perquisizioni dei Ros e sugli arresti.
La giornata si conclude, dopo un ampio speakeraggio, con un corteo
pacifico per le vie del centro fino alle porte dell’Asilo ri-Occupato.
Unica violenza: quella di un automobilista che investe un manifestante.
Domenica, dopo i maltrattamenti subiti in carcere dai secondini, vengono
rilasciati tutti e sei i compagni fermati per gli scontri di venerdì.
I tre anarchici inquisiti da Laudi, però, continuano a rimanere
dentro.
Nel frattempo alcuni esponenti dell’Ulivo/Pds si appellano pubblicamente
a Napolitano perchè riporti l’ordine a Torino. E i giornali pompano.
La nuova linea del Pds pare essere quella di garantire ordine e legalità
tramite la formula del controllo preventivo del territorio. Per paradosso
la “Sinistra democratica” per recuperari consensi al famoso “centro” elettorale
si fa attuatrice delle proposte che la destra di Ghiglia e Costa ha lanciato
un anno prima: dal controllo e l’espulsione degli immigrati alle non-politiche
sulle tossicodipendenze, dal controllo sull’emarginazione al problema degli
spazi sociali.
Ciò malgrado, la Giunta cerca di mantenere uno spazio per la
mediazione, puntando ad ottenere con il consenso/assenso un maggiore controllo
selettivo delle situazioni e dei punti caldi della metropoli, attraverso
un cambiamento a proprio favore dei rapporti di forza.
Ma dove trova questa forza? Nei 325 cittadini interpellati dalla Stampa
che desiderano il dialogo con i centri sociali? Nei commercianti dell’Ascom
che chiedono polizia per le vie del centro contro barboni e squatter? Nei
comitati “spontanei” promossi dal Polo che vogliono lisergici “sgomberi
pacifici” dei posti occupati? Nelle forze dell’ordine in assetto di guerra,
gestite da una Questura che mai come in questo periodo ha smesso di “far
politica”?
UNO SPETTRO SI AGGIRA PER I CANTONI: L’ECOTERRORISMO
Ormai da qualche anno pezzi di Magistratura, delle forze dell’ordine,
dei servizi segreti temporaneamente “disoccupati”, hanno aperto un contenzioso
con alcune aree anarchiche.
Il giudice Marini a Roma, con l’appoggio dei Ros, ha costruito la classica
montatura affastellata di prove e testimonianze artificiali contro l’area
anarchica insurrezionalista; chi ha solidarizzato con gli imputati e denunciato
prontamente la “fantasia inquisitoria” è stato a sua volta oggetto
di indagini, pedinamenti, denuncie e perquisizioni.
Un altro capitolo di questa volontà persecutoria si è
aperto in questi giorni: il magistrato Laudi, partendo dalle giuste e spontanee
pratiche di opposizione alla TAV in Val Susa, ha subito indirizzato l’occhio
inquisitore su una presunta componente “anarchica” di questo poliedrico
e multiforme movimento di resistenza al treno veloce.
Ci chiediamo perchè si sia andati a colpire a colpo sicuro sulla
parte più “politica” di questa opposizione ad un progetto di “Alta
Velocità” per ricchi, altamente inquinante e distruttiva per la
Valle, emarginante per le sue genti, nonchè fortemente inquinata
per le tangenti.
Sia il grado di montatura inquisitoria (l’ipotesi di trovarsi di fronte
ad un “gruppo” di “terroristi”, un’associazione o una banda che dir si
voglia), sia il tipo di prove documentarie fornite ai giornali (foto di
repertorio del magazzino di biciclette di Ivrea di Massari spacciato per
il magazzino della casa Occupata, presunto materiale per fabbricare sofisticate
bombe, pipe-bomb già belle che pronte) sembrano ad una lettura critica
inverosimili, comunque deboli, degne di una nuova “caccia alle streghe”
di cui sentivamo tanto la mancanza.
D’altra parte i fatti di cui sono imputati i tre anarchici sono alquanto
risibili. Si parla di violenza alle cose, a tralicci, edifici, centraline.
Semplici azioni di sabotaggio alle cose senza violenza alle persone. Non
esiste neppure l’accusa di tentata strage. Ci chiediamo dove stia il “terrore”
tanto agitato sulle colonne dei giornali per il popolino. Forse non è
altrettanto terrorista cementificare una valle per far passare un rumoroso
siluro di ferro? Forse non è violenza quella fatta sulle popolazioni
della valle che si vedono progressivamente depotenziare ed eliminare le
normali linee di comunicazione locale (treni, autobus). L’alta velocità
forse spinge a nuove forme avanzate di consumi collettivi o, violentemente,
spinge la gente del posto ad emigrare per non rimanere emarginata? Cosè
allora un azione di sabotaggio rispetto a tutto questo obbrobrio?
I benpensanti chiamano quelle forme di resistenza alla TAV “terrorismo”,
“violenza”. Cose che in Germania i verdi hanno praticato normalmente quando
si trattava di impedire la costruzione di una centrale nucleare o di una
pista di atterraggio, mentre qui in Italia solo il padre della non-violenza
nostrana, A.Capitini, considerava la violenza sulle cose semplice sabotaggio
del tutto legittimo.
Evidentemente le nostre teste vivono fuori del tempo...
I mass media e gli opinionisti di turno hanno “montato la panna” sulle
vicende di queste settimane. Lo hanno fatto dimenticando puntualmente le
ragioni della protesta, fermandosi sempre sulle “forme” via via scelte
da questa. Dalle scritte alle vetrine, dagli schiamazzi notturni ai petardi,
tutto fa brodo per condannare, esecrare. Logicamente perdendo per strada
i contenuti della protesta è facile poi classificare i contestatori
come “imbecilli”.
Si è parlato a sproposito di “violenza” dei manifestanti. Fino
a prova contraria un petardo, una scritta, un vetro rotto non hanno mai
ucciso nessuno. L’unica violenza, vera, è stata quella subita nei
pestaggi dei manifestanti durante le cariche e l’attuazione dei fermi.
E’ consequenziale, poi, che se si cataloga degli episodi come frutto
di imbecilli e vandali, venga fuori dal cappello magico l’analisi del sociologo
di grido di turno che intrattiene l’”opinione pubblica” con ameni discorsi
sulle periferie europee, sulla società dei due terzi, sulla esclusione,
sulla emarginazione crescente. La ribellione improvvisa, senza apparenti
ragioni, può essere frutto solo di personaggi “sradicati”, privi
di linguaggi, idee, sostanzialmente rabbiosi per la propria condizione
che è tutta da interpretare.
Nei loro schemi non può rientrare che gli atti di queste settimane
possano essere fatti da gente normale, che proviene da famiglie normali,
che subiscono (e si ribellano) la condizione di sfruttamento di una vita
normale. Così come negli anni settanta le biografie dei “terroristi”
stupivano la stampa per la loro normalità, così capita oggi
quando gli articolisti vanno a vedere le provenienze sociali dei fermati
di venerdì sera.
Malgrado ciò, il sociologo Gallino parla di un’area potenziale
rappresentatrice di una rabbia più diffusa, non organizzata. Quest’area
dei centri sociali però non è in grado di interloquire con
le istituzioni perchè non esprime una rappresentanza. Si tratterebbe,
semplicemente, di trovare dei “mediatori culturali” disposti a giocare
un ruolo di mediazione con le istituzioni. Chi possa ricoprire questo ruolo
può essere solo chi proviene da queste aree, magari qualche transfugo.
Quello che forse non si è capito è che non esistono casseur
a Torino bisognosi di tutori accreditati presso le istituzioni. Se di casseur
si parla, questi è più facile trovarli negli hooligans o
nelle bande di periferia. La popolazione che frequenta i centri sociali
e occupati è fatta di lavoratori stabili, instabili, precari , studenti,
disoccupati. Vi può essere una maggiore o minore frequentazione
delle periferie a seconda della collocazione dei centri, ma ciò
non cambia di molto rispetto al fatto che una buona parte dei frequentatori
dei centri sociali è fatta di gente normale, di giovani con una
certa scolarità, con determinate esigenze (anche sofisticate) di
consumi musicali, culturali, aggregativi. D’altra parte i casseurs sono
individui normali che rivendicano diritti normali all’esistenza, al reddito,
al lavoro. Non esiste nessun disagio che si esprima in maniera nichilista,
non esiste una società di esclusi e di inclusi, ma di lavoratori
precari e non in crescente proliferazione con enormi problemi di vita ed
organizzazione del proprio tempo. I centri sociali rappresentano una risposta
parziale, ma che si riproduce nel tempo, al bisogno di organizzare e scandire
la propria vita diversamente. Un bisogno di consumare e di ragionare diverso,
perchè la vita stessa di salariato, disoccupato o studente, ai livelli
folli di organizzazione del tempo cui è arrivato il mondo occidentale,
diventa fisiologicamente inaccettabile per ampie fasce di popolazione,
specie per quelle più giovani.
Quello che forse non è stato compreso, dai sociologi e dagli
opinion-makers, è che queste realtà abbastanza “normali”,
frequentate da gente abbastanza “normale”, si mobilitano ed aggrediscono
quando sono toccate nella loro identità e nella loro possibilità
di esistere. E anche la promozione di inziative politiche e di conflitto
può rientrare nella produzione della propria identità, rispetto
ad un mondo avanzato che annulla le identità nel lavoro e nello
sfruttamento.
Non sono i mediatori culturali o le rappresentanze politiche che ci
servono, ma un diverso modo di vivere, una diversa qualità della
vita che nè nelle periferie nè nei quartieri semicentrali
si riesce a vivere. Non crediamo che nei centri sociali si realizzino isole
felici, ma che si ponga quotidianamente dentro di essi il problema del
diritto alla felicità.
TORINO COME LABORATORIO DELLA REPRESSIONE SOCIALE
Già S.Salvario era stato il banco di prova di un controllo del
territorio nei suoi punti caldi. Aumento di presidi di polizia, volanti,
apertura di una stazione di vigili, adozione del vigile di quartiere. Il
gioco a presidiare alternativamente i punti caldi dello spaccio e della
microdelinquenza (Murazzi, S.Salvario, Porta Palazzo) si è sempre
tradotto in una difficoltà crescente delle forze dell’ordine. Malgrado
il ricorso ai vigili come componente integrativa i risultati sono stati
abbastanza scarsi, malgrado l’effetto di immagine sulla popolazione benpensante.
L’idea di ripulire il centro dalle contraddizioni etniche, sociali,
è sempre stata un chiodo fisso dell’amministrazione ulivista. Il
centro dovrebbe divenire un luogo splendente come un super market, lavato
da qualsiasi problema, buono per i consumi di ogni genere e come chance
turistica per una grigia città che piaceva solo a Nietzsche.
Le richieste di un maggior controllo e prevenzione sono quasi paranoiche.
Del resto se i Comune non si muove la destra incalza, con l’organizzazione
di comitati spontanei, le ronde di “bravi” cittadini, le fiaccolate per
lo sgombero degli spazi occupati che preludono a vere e proprie aggressioni
fisiche (come la destra ha sempre fatto dopo le plateali minacce). Adesso,
grazie al finanziamento parziale del ministero degli interni, si introdurrà
un sistema di telecamere sensibili piazzato per le vie del centro, nei
maggiori punti a rischio. Il potere deterrente che ci si aspetta da questo
nuovo sistema “pilota” per il nostro paese è enorme.
D’altra parte lo sviluppo delle moderne tecnologie elettroniche, informatiche,
a fibre ottiche, ecc. permettono livelli di controllo selettivo sulla popolazione
inimmaginabili solo quindici anni fa. La stessa inchiesta del giudice Laudi
ha messo in luce sistemi tecnici di controllo molto avanzati e, soprattutto
perchè facilmente producibili, a costi non elevati. Cimici, satelliti,
intercettazioni ambientali, intercettazioni dei cellulari, controlli a
distanza, permettono una conoscenza dei movimenti e delle relazioni degli
individui “sospetti” , a costi molto più bassi di dieci, venti anni
fa. Il mito della società panoptica, cioè dello Stato che
spia tutti senza essere scovato, pare realizzarsi. In realtà siamo
di fronte a controlli mirati, e limitati, ma comunque in grado di penetrare
la realtà spiata ad alti livelli di profondità.
Tutto ciò risulta alquanto contraddittorio nel momento in cui
con la legge sulla privacy si vorrebbe approdare su ben altre sponde. Anche
questo è un paradosso di un regime governato dalla sinistra ma che
attua pezzi di programma della destra.
Una battaglia per la difesa delle libertà individuali e collettive,
del diritto a pensare ed agire, del diritto a contestare, contro ogni forma
di subdolo controllo, diventa urgente e non sottovalutabile. Inoltre impone
diversi modi di esprimere il dissenso e la protesta che saranno tutti da
valutare ed inventare per il prossimo futuro.