GLIAPRIGIONIERI POLITICI Ancora una volta la possibilita' di far approvare una legge di indulto e' fallita. Ormai sono 8 anni che vanno avanti questi tentativi senza che si riesca a giungere ad un provvedimento. In questa occasione la necessita' di una soluzione politica che chiudesse un periodo storico e' stato posta dalle alte cariche istituzionale: il Presidente della repubblica e della camera Violante. Ed anche se Scalfaro ha parlato di una soluzione " non generalizzata ", il suo intervento e' stato interpretato dal mondo politico come un'apertura ad una legge d'indulto. Le alte cariche dello Stato hanno usato il problema della soluzione per i prigionieri politici del conflitto armato degli anni 70, in occasione dei 50 anni della Repubblica, per porre la necessita' di una pacificazione dei conflitti seguiti alla lotta di liberazione nazionale. Quindi si riconosce che un conflitto c'e' stato. Ed e' stato un conflitto cruento che ha lasciato lutti da tutte e due le parti. Se ai "ragazzi di Salo'" si riconosce che avevano le loro ragioni, anche le generazioni della lotta armata ( 5.000 arrestati ) furono spinte da ragioni ideali, in un contesto storico nazionale e internazionale fortemente segnato da uno scontro sociale e politico violento. Il fatto che le alte cariche istituzionali sentano la necessita' di porre il problema di una soluzione politica e' la dimostrazione di quanto i detenuti politici facciano ormai parte del vissuto storico del paese. Questo indipendentemente dalla volonta' e dai giudizi dei singoli e dalla incapacita' del ceto politico, nel suo insieme, a dare soluzione al problema per interessate ricostruzioni politiche e miserabili calcoli elettorali. Questo e' l'unico aspetto concreto, da cui occorre partire per investire in ogni modo la societa' reale. Le prese di posizione ai livelli alti delle istituzioni ha fatto credere, agli addetti ai lavori, che questa volta ci fosse qualche possibilita' di giungere ad un provvedimento. Tant'e' che la lobby dei tangentisti, Casini, segretario del Ccd in testa, ha subito alzato il prezzo, per legare la soluzione politica per i prigionieri politici a quella per tangentopoli. In una lettera al Corriere della sera Casini affermava che non si poteva avere "una doppia morale": tenendo in carcere chi ha usato il voto di scambio e del finanziamento illegale dei partiti, con cui la classe politica della prima repubblica ha governato; e scarcerando chi ha usato la violenza politica per sovvertire quella dirigenza politica. Occorre avere, a questo punto, la determinazione e la forza di dire che le responsabilita' maggiori dell'esplosione del conflitto armato sono dello Stato e della classe dirigente al potere allora, (servizi segreti e interessi internazionali compresi) con le bombe del 69 e la strage di Piazza Fontana. Un atto di vero e proprio terrorismo, che impediva a tutti di dirsi innocenti da quel momento in poi, e che metteva fine all'alibi di una democrazia pacifica. 10 anni di stragi impunite lo stanno a dimostrare, cosi come le decine di militanti di sinistra uccisi dalle forze di polizia durante le manifestazioni di massa. Non era un democrazia pacifica, se neanche con il 51% si potevano vincere le elezioni e fare i cambiamenti richiesti dalle lotte sociali. E questa non era una convinzione solo della sinistra rivoluzionaria di quegli anni, ma la constatazione del segretario del piu' grande partito comunista dell'Europa occidentale all'opposizione, con il 36% di voti. Il PCI cercava un compromesso "storico" con la DC: - il partito di mafiosi, stragisti e corrotti, dove chi non era colpevole era comunque complice, sapeva e taceva - , per evitare che anche in Italia si ripetesse l'esperienza Cilena, dove un governo di sinistra democraticamente eletto, fu rovesciato dai militari con la complicita' della DC cilena, e l'appoggio Americano. Ora che anche questa tornata di chiacchiere e proposte sull'indulto si e' chiusa, ancora una volta senza concludere nulla, come negli ultimi 8 anni, dobbiamo decidere cosa fare. Con raffinati ragionamenti politici, che farebbero quadrare il cerchio, potremmo arrivare a concludere che ci sara' l'occasione, tra qualche anno, magari con la Bicamerale e le riforme istituzionali conseguenti. Ovviamente sappiamo che tutto questo non e' vero, perche' ragionamenti raffinati non si addicono in una situazione di scontro per bande di potere, armate o meno, che si sta svolgendo all'interno dello Stato tra parlamento e Magistrati; partiti politici, forze economiche e boiardi di Stato. Uno scontro diverso da quello degli anni 70 certo. In quel decennio, infatti erano gli operai e le classi subalterne, a contendere alla borghesia, a una classe politica corrotta e mafiosa il potere politico, per difendere il quale questi ultimi non esitarono a scatenare una reazione terroristica fatta di stragi. Questo e' stato lo snodo politico che ha caratterizzato il conflitto degli anni 70 e che ha animato le passioni di migliaia di giovani, di settori operai, di pezzi importanti di societa' che non intravedevano nelle risposte delle classi dominanti la soluzione ad alcuna richiesta di dignita' e giustizia accettabile, ma unicamente il perpetuare di un sistema sociale economico e politico profondamente ingiusto. Incapace di rappresentare l'interesse collettivo, geneticamente predisposto e strutturato a difesa di interessi diametralmente opposti a quelli dello studente proletario, dell'universitario deprofessionalizzato, del disoccupato, dell'operaio sfruttato, della donna discriminata, delle diversita' rimosse e represse. Riconoscere la legittimita' politica a chi ha combattuto per una societa' diversa significa per forza di cose ammettere che questa societa' deve essere diversa e che le operazioni di facciata finiscono per eludere e spesso per acutizzare piuttosto che risolvere le ragioni profonde di un frattura sociale, di una ingiustizia di fondo che attraversa e frantuma la societa'. Per i partiti di centro sinistra, a parte lodevoli eccezioni, questo e' impossibile. Oltre l'interesse di classe, c'e' un concetto di democrazia e di giustizia che fa da spartiacque, divide e caratterizza il dibattito politico sulla prigionia, cosi come su ogni questione sociale o istituzionale. Nel terzo settore come sull'immigrazione, sul lavoro come sui diritti, fino al sistema di rappresentanza politica si sente il peso di una concezione sociale profondamente elitaria, discriminante, autoritaria, sicuramente non alternativa ai processi di globalizzazione che condizionano il dibattito e la cultura politica. La stessa questione delle vittime e della violenza politica decontestualizzata diventa lo specchio deformante con il quale si cancellano i costi tremendi di un conflitto lacerante, profondo, vero che ha visto tante vittime, tante stragi e che nessuno può permettersi di dimenticare. Come area di prigionieri politici abbiamo sempre sostenuto che mai si sarebbe arrivati alla liberazione dei prigionieri politici, se non ci fosse stato un dibattito a più voci, che ricostruisse il contesto storico, le ragioni e le scelte politiche di tutti i soggetti che hanno vissuto quel conflitto cruento; che facesse chiarezza nell'opinione pubblica, e riequilibrasse i giudizi e le verita' sul perche' di quello scontro. Questo renderebbe un paese piu' cosciente e maturo, in grado di riappropriarsi della propria storia e non vivere nell'oblio, senza memoria. Occorre che una parte dlla societa', quella piu' sensibile - non compromessa con il potere, ne' con il pensiero dominante - le realta' sociali della sinistra di base si facciano carico del problema della soluzione politica dei prigionieri. Che lo tolgano dalle mani di un ceto politico incapace e compromesso, per portarlo a vivere nella societa' reale attraverso i molteplici e diversi linguaggi con cui oggi comunica. Per far si' che un paese maturo si riappropri della propria storia e memoria senza la censura dei poteri "occulti", ai quali interessa di piu' un paese senza memoria! L'unica memoria che resta oggi e' solo quella dell'emergenza, come politica concreta dello Stato per affrontare le questioni sociali, i diritti, i conflitti: l'armamentario emergenziale, dunque, e' divenuto l'unico modo con cui si rapporta. Un paese senza memoria, incapace di elaborare le ragioni, ormai divenute storia, dello scontro sociale degli anni 70, e' un paese che si incarognisce nell'affrontare i problemi dell'oggi, problemi vecchi e nuovi, riuscendo unicamente a cancellare tutte le conquiste precedenti, senza la capacita' di elaborare soluzioni che aiutino ad arricchire la coscienza sociale del paese. Non a caso l'area che oggi in particolare subisce ancora questa cappa emergenziale sono i centri sociali e tutte le forme autorganizzate di base dei lavoratori che difendono i diritti delle classi piu' deboli. Un paese senza memoria e' un paese senza storia; senza storia e' un paese senza coscienza dell'oggi. Ormai ci chiediamo e chiediamo a voi, se non ci sia una volonta' politica di impedire ai prigionieri, che non si sono ne' pentiti ne' dissociati, di parlare, prendere parola sulla storia degli anni 70 senza dover raccontare versioni di comodo, ravvedute e corrette ad uso delle ricostruzioni di partito, ed essere testimoni scomodi di quel periodo storico - di cui tutti parlano solo per scaricare su altri le responsabilita' delle loro scelte e della sconfitta politica. Forse questo silenzio si romperà solo, e una volta che sia consumata una vendetta di Stato, quando i prigionieri politici finiranno la loro esistenza in carcere, o in una "liberta'" senza diritto di parola. Crediamo che i Centri Sociali in prima persona possano farsi promotori della lotta per la liberazione dei prigionieri politici, perche' pensiamo da sempre che siano il soggetto sociale e politico più legittimato storicamente a rivendicarli. Crediamo che sia anche un percorso da seguire come riappropriazione di memoria e identita' per l'antagonismo sociale, culturale che oggi essi esprimono e rappresentano. Ci piacerebbe che tutta l'area dell'antagonismo "allo stato presente delle cose", fosse in grado di rappresentare ed essere depositaria della memoria dell'"altra storia"; quella scritta dalle lotte sociali e dai movimenti rivoluzionari comunisti di questo pese. Di sottrarla alla penna dei "vincitori". Che un patrimonio umano di esperienze e coscienza, non si disperda, che non accada cio' che e' accaduto con la generazione di comunisti precedente la nostra, con cui e' stato reso impossibile ricostruire un percorso comune di riflessione sull' "utopia" possibile nel presente. Pasquale Abatangelo, Renato Arreni, Paolo Cassetta, Geraldina Colotti, Prospero Gallinari, Maurizio Locusta, Remo Pancelli, Teresa Scinica, Bruno Seghetti.
A MILANO LA POVERTA' C'E'. E SI VEDE Illuminante è stata l'iniziativa di un gruppo di economisti, giuristi, operatori culturali e sociali di pubblicare un libro bianco sulla situazione della povertà a Milano. La Milano descritta dal libro bianco mette in evidenza una città in cui si nasconde disagio e povertà, e dietro i numeri e le statistiche si intravedono i volti umani con tutta la loro rabbia e disperazione. I numeri riportati dal libro bianco sono davvero agghiaccianti: · 5.000 persone in condizioni di totale assenza di minimi mezzi di sussistenza · 30.000 persone che pur avendo un ricovero e accesso ad un minimo di cibo, sono da considerare in condizioni di povertà estrema · 50.000 persone con redditi al di sotto della linea di povertà "ufficiale"(reddito medio pro-capite inferiore alle 600.000 £ al mese) · 300.000 persone con entrate insufficienti rispetto al costo della vita a Milano (reddito medio pro-capite inferiore alle 800.000 £ al mese) Ma se circa il 4% della popolazione di Milano è sotto la linea della povertà, per un ulteriore 25% della popolazione la povertà è comunque un rischio cconcreto, può bastare una malattia seria, la perdita del lavoro, lo sfratto.... Milano è divisa in due mondi, i vincenti e i perdenti, e il divario tra questi due mondi si va sempre più allargando. Un 15% delle famiglie milanesi dichiara di vivere con un reddito inferiore ai 20 milioni annui (dati 1994), si tratta di single, anziani/e, disoccupati/e-cassintegrati-lavoratori/ici in mobilità circa 210.000 persone. Esiste poi un'altra fascia di persone a rischio: sono i lavoratori/ici a reddito con bassa qualifica, sono quelli con maggiori preoccupazioni sul proprio futuro lavorativo, sono altre 350.000 persone. Milano città perde circa 6000 posti di lavoro all'anno, la preoccupazione di perdere il posto di lavoro raggiunge il 19.1% degli intervistati residenti a Milano. Una città, quindi, dove vi è lavoro, ma tendenzialmente sempre meno, perchè resta concentrato in alcune professioni e perchè cala la popolazione in età lavorativa, e distribuito in maniera sempre più diseguale. A Milano la disuguaglianza sta crescendo, le fasce basse della popolazione sono in difficoltà nel mantenere alcuni standard di vita che sembravano acquisiti. Ma il senso di insicurezza e di precarietà viene percepito anche dalle classi medie. E nulla sembra contrapporsi a questa dinamica spontanea, che rafforza in città la situazione dei ceti vincenti, ed espelle o ghettizza le situazioni socialmente difficili. Abitazioni A Milano vi è il 3.4% delle abitazioni senza bagno, il 6.9% senza acqua calda, il 2.7% senza riscaldamento. I dati del censimento indicano che le situazioni di affollamento riguardano l'11% delle famiglie. Nel 93-94 si sono registrati 33.336 richieste di sfratto, 14.251 provvedimenti di esecuzione e 4.078 sfratti esecutivi. Il fabbisogno di case è stimato intorno alle 35.000 unità. L'emergenza sfratti è destinata ad aumentare: a settembre la prefettura emanava questi dati: 17.000 sfratti da eseguire in città di cui 3.700 richiesti dallo IACP. E si autorizzava l'innalzamento del ritmo quotidiano di esecuzione da 20 a 25 sfratti giornalieri con l'uso della forza pubblica. Accanto a questi dati bisogna leggere che il 10% delle abitazioni risulta essere sfitto Intervento pubblico Nel 1994 il Comune di Milano ha speso per il settore servizi sociali circa 229 miliardi dei quali 138 per il ricovero di anziani. Malgrado i dati dimostrino che la povertà attraversa in modo trasversale le diverse fasce d'età il 70 % della spesa è assorbito dal mantenimento in istituti di ricovero e/o comunità alloggio degli assistiti. Se il principio ispiratore della spesa socio assistenziale fosse quello di favorire il reinserimento sociale delle persone, questo vale come smentita di questo principio: è infatti noto che l'inserimento in istituti totali, spesso localizzati al di fuori del territorio di provenienza, con scarse interazioni con l'ambiente esterno, comporta la perdita di contatto con il mondo esterno. I costi della sicurezza pubblica Nel corso degli anni 80 e soprattutto in questi ultimi anni, i costi della sicurezza pubblica sono aumentati in modo esasperato: fra polizia di stato, carabinieri, guardie carcerarie e polizia urbana vi sono oltre 15.000 addetti (quindi più di uno ogni 100 abitanti) Gli autori del libro hanno provato a ricostruire quanto costa proteggersi a Milano, e sommando i costi degli addetti pubblici alla sicurezza (900 miliardi), delle 3.000 guardie giurate (168 miliardi), il giro di affari delle imprese che producono antifurti (300 miliardi), delle ditte che producono porte e serrature di sicurezza (50 miliardi) si ottiene una spesa di 1.418 miliardi all'anno, di cui il 90% pagate attraverso le imposte. E' oltre un milione pro-capite all'anno che si spende a Milano per la difesa da ladri, aggressori e qualunque altra cosa sentiamo ci minacci. L'unica soluzione che gli amministratori di questa città trovano è il ricondurre i problemi sociali a problemi di ordine pubblico, è l'allontanamento degli esclusi e dei diversi, è il razzismo, lo sgombero dei campi nomadi, lo sfratto degli inquilini, lo sgombero dei centri sociali.....
INSIEME CONTRO IL NEOLIBERISMO E PER L'UMANITA' "Dietro i nostri passamontagna c'è il volto di tutte le donne escluse, di tutti gli indigeni dimenticati, di tutti i gli omosessuali perseguitati, di tutti i giovani disprezzati, di tutti gli emigranti picchiati, di tutti gli incarcerati per la loro parola e pensiero, di tutti i lavoratori umiliati, di tutti i morti di oblio, di tutti gli uomini e donne semplici e ordinari che non contano, che non vengono visti, che non sono nominati, che non hanno un domani." Quest' estate nel Chiapas migliaia di donne e uomini di tutto il mondo si sono parlati e ascoltati nel Primo Incontro Intercontinentale per l'Umanità e contro il Neoliberismo. Qui, nessuno dei partecipanti ha presentato false ricette, al contrario di come inevitabilmente accade nei vari vertici internazionali dei potenti, si è invece incominciato a ritessere il filo sottile che unisce le mille lotte di tanti mondi in un unica grande lotta, convinti che il grido d' insurrezione degli zapatisti diventi l'urlo di rivolta degli oppressi di tutto il mondo. In questo contesto nasce la proposta di una rete mondiale di resistenza e di lotta contro il neoliberismo per una società umana. Questa rete, lungi dall'essere una struttura organizzativa non vuole avere un centro direttivo o decisionale, un comando centrale ne gerarchie; sarà "solamente" un mezzo che farà si che le diverse resistenze si possano appoggiare l'una all'altra, un mezzo attraverso cui queste si parlino tra loro. Una rete che riunisca tutti coloro che si oppongono alla rapina delle terre, al saccheggio delle risorse, alla precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro, alla negazione dei diritti elementari, alla dittatura, alla repressione, al patriarcato, alla xenofobia, alla schiavitù all'emarginazione e all' oblio. Insomma una rete che riunisca chi combatte quest'ultima guerra mondiale dichiarata dall'impero neoliberista a tutti gli uomini e le donne del mondo varcando le frontiere degli stati per sottometterli alle leggi del profitto. I passaggi per la costruzione di questa rete vedono un nuovo incontro europeo che si terrà a Zurigo nei giorni 20\21\22 dicembre, in cui oltre che dell' introduzione in una rete si discuterà di come la dominazione degli uomini impedisca un dialogo equitativo, e delle varie azioni europee e continentali che si possono intraprendere contro il sistema neoliberista; e un Secondo Incontro Intercontinentale che si terrà in Europa nel 1997. La ribellione Zapatista ci dimostra come ancora oggi sia possibile essere scomodi, la falsità di chi dice che tutto è sotto controllo, incluso ciò che sotto controllo non è, ci dimostra come la lotta sia ancora temuta dal potere che per questo la distrugge e reprime che siamo una realtà che può distruggerlo e farlo scomparire. la lotta Zapatista ci invita a non arrenderci e a continuare la nostra rivolta unendola alla loro, sta a noi far si che l' esigenza insopprimibile di tante persone di confrontare il proprio sogno di libertà con altri sogni divenga finalmente realtà.
LE PRODUTTRICI INESISTENTI. Il lavoro di riproduzione:un lavoro sommerso e non riconosciuto. Il lavoro svolto dalle donne nella famiglia, al di là della sua funzione strettamente privata e del suo valore sul piano dei rapporti personali, risulta necessario alla sopravvivenza stessa dell'organizzazione produttiva capitalistica, infatti si colloca all'interno dell'organizzazione socioeconomica complessiva e vi agisce fornendo una serie di garanzie fondamentali: 1. supplenza, quasi sempre vantaggiosa dal punto di vista qualitativo, di servizi sociali mancanti o carenti, destinati alla cura di bambini, malati, anziani, handicappati, ecc.; 2. oculato uso del reddito complessivo di ogni famiglia e di tutte le risorse di varia provenienza in essa convergenti, per la massimizzazione del benessere; 3. produzione di beni destinati all'uso immediato, tale da integrare il reddito della famiglia e innalzare notevolmente la soglia di soddisfacimento dei bisogni di ogni suo membro; 4. mantenimento di un livello di conforto materiale e psicologico tale da assicurare al lavoratore la salute e la serenità necessarie alla prestazione più efficiente, indispensabile premessa di buona funzionalità del sistema produttivo; 5. possibilità per la famiglia nel suo complesso e per ogni suo singolo membro di avvicinarsi al massimo agli standard di consumo pubblicitari e proposti come ottimali, e in tal modo alimentare e sostenere quel momento finale e decisivo della produzione che è il mercato. (Ravera - Tempo da vendere tempo da usare) Il lavoro familiare e domestico ha dunque una funzione che oltrepassa largamente i confini della sfera riproduttiva per occupare uno spazio determinante nella sfera produttiva. Questo indispensabile e ignorato lavoro occupa un monte ore enorme (da una indagine dell'ISTAT e della Commissione pari opportunità risulta che nelle coppie senza figli le donne svolgono più di 5 ore di lavoro domestico giornaliero. Quando ci sono figli per le donne si aggiungono 2 ore di lavoro domestico.) e se lo si quantifica rappresenta un valore che si aggira tra il 25 e il 40% del prodotto nazionale lordo. Inoltre la tendenza del capitale è quella di ridurre al minimo le spese di riproduzione della forza lavoro per cui assistiamo da diversi anni allo smantellamento e alla ridefinizione del vecchio welfare. In omaggio al primato dell'economia ci si avvia verso una formulazione di stato sociale come stato sociale residuale, non più basato sull'universalità dei diritti di cittadinanza ma sulla tutela dei ceti più deboli (sempre meno tutelati). Tutto è affidato al mercato, alla responsabilità privata, a una rete di solidarietà e doveri che ha nella famiglia il suo luogo privilegiato. La contraddizione della condizione della donna tra sfere di riproduzione e sfera di produzione è esplosa: le donne fanno sempre meno figli. Il rifiuto della donna a procreare è da interpretarsi come "pretesa e definizione di un nuovo tipo di sviluppo in cui la riproduzione umana non sia costruita sull'insostenibile sacrificio femminile all'interno di una concezione e struttura della vita come tutta tempo di lavoro (sfruttamento) all'interno di una insopportabile gerarchizzazione dei sessi" (Dalla Costa 1995). In questi anni si è sempre più affermata, anche se in maniera contraddittoria, una donna che rifiuta di essere relegata al semplice ruolo di moglie e madre, che rifiuta una identità fatta di sottomissione all'uomo, che vuole decidere dei suoi studi, della sua vita, del suo lavoro, della sua sessualità. E' enormemente aumentata la scolarità femminile, la presenza delle donne sul mercato del lavoro è andata aumentando senza ritmi precedenti (nonostante la crisi occupazionale l'occupazione femminile è aumentata ovunque ma soprattutto dovunque è aumentata la disoccupazione femminile). Dobbiamo scatenare una forte battaglia e imporre la centralità dei tempi di vita e della qualità della vita rispetto alla produzione e al mercato. Dobbiamo inserirci nella battaglia sulla riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario pretendendo che il lavoro si adegui ai nostri cicli di vita. La riduzione dell'orario di lavoro per tutti permetterebbe una più equa ripartizione del lavoro di cura tra gli uomini e le donne. "La questione della riproduzione umana che il rifiuto delle donne di procreare rovescia come pretesa di un altro tipo di sviluppo cerca ormai orizzonti totalmente diversi sfonda i muri del concetto di benessere. Pretende felicità. Pretende con ciò una formazione di sviluppo che apra possibilità di soddisfazione per i bisogni fondamentali sulla cui soppressione il capitalismo è nato e cresciuto: bisogno di tempo contro una vita tutta di lavoro; bisogno di fisicità/sessualità (anzitutto con il corpo proprio e altrui, con il corpo nella sua totalità e non solo con quelle funzioni che lo rendono più produttivo) di contro ad un corpo mero involucro di forza-lavoro o macchina di riproduzione di forza-lavoro; bisogno di socialità-collettività di contro alla separazione/isolamento degli individui nel corpo sociale e nel corpo vivente complessivo; bisogno di spazio pubblico di contro alle recinzioni, privatizzazione, restrizione continua dello spazio agibile" (Dalla Costa 1995). Collettivo Femminista Baba Jaga.
UNO SPETTRO SI AGGIRA NELLA VALLE DEL PO !!! E' lo spettro del lavoro precario, flessibile, a termine, malpagato, con molti ricatti e nessun diritto. E' lo spettro del lavoro interinale o in affitto. Pagamento a ritenuta d'acconto al 19 %, subappalti a pseudo-cooperative di servizi, contratti di (poca) formazione e (molto) lavoro, liste di mobilità, lavoro nero nudo e crudo. Ecco cos'è la modernizzazione del mercato del lavoro all'insegna della flessibilità, tanto decantata da tutti. Il cosiddetto "patto per il lavoro" siglato a Settembre da Governo, Confindustria e sindacati, rappresenta l'ultima palese dimostrazione dell' intenzione di legalizzare tutto ciò che fino a ieri era illegale, con il vero scopo di permettere ai padroni di fare letteralmente ciò che vogliono. Vengono quindi incentivate tutte le forme di lavoro "atipico", precario e flessibile: contratti a termine e di formazione-lavoro, lavoro interinale, gabbie salariali e deroghe ai minimi contrattuali, pseudo-apprendistato prolungato con salari ridotti etc. Tutto ciò avviene con l'avallo del governo Prodi e del sindacato confederale, completamente tesi alla concertazione con la Confindustria e il padronato con lo scopo di legittimare il proprio potere e la propria esistenza, e non di difendere la dignità e le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici. Tutto ciò viene giustificato con la necessità di competere sui mercati internazionali con i paesi dove non esistono garanzie o diritti sindacali, e quindi il costo del lavoro è molto più basso. Il dirigente di Confindustria Innocenzio Cipolletta ha dichiarato che i modelli a cui guardare sono l' India o la Cina. Questa logica condanna al massacro sociale i lavoratori e le lavoratrici, sia nei paesi del terzo mondo che in quelli cosiddetti "avanzati". Invece che dare più diritti nei primi, se ne tolgono anche nei secondi. Il lavoro interinale o in affitto è una delle misure più importanti contenute nel "patto per il lavoro", che darebbe alle imprese la piena possibilità di disporre di forza lavoro senza obbligo di assumerla, e senza che il lavoratore abbia sostanzialmente alcun diritto ed alcuna certezza su condizioni e durata del lavoro. Infatti le imprese che hanno bisogno di dipendenti si potrebbero rivolgere ad altre imprese private specializzate, che li "affitterebbero" per il periodo richiesto. Non è un caso che a Milano abbiano già aperto i battenti una dozzina di società italiane e multinazionali, che si apprestano a mettere le mani sul ricco mercato che si apre. Una di queste società, Obiettivo Lavoro, è addirittura legata alla CGIL ed alla Lega delle Cooperative. La Manpower è uno dei più grossi colossi del settore. Si tratta di una multinazionale USA che copre 34 paesi con 2000 agenzie. Essa movimenta circa 200.000 lavoratori in affitto al giorno, per un fatturato annuo di 4 miliardi e 125 milioni di dollari. Collettivo Precari (si riunisce ogni martedi alle 21,30 in Via Dei Transiti 28)
DIRITTI. LA CASA 12 dicembre 1969 - 12 dicembre 1996, 27 anni di stragi impunite, di violenza e abuso continuo contro la classe operaia. Oggi come allora gli attacchi nei confronti di questa fascia della popolazione, sono continui, sempre più pesanti, e subdoli, e con maggior fatica ci ritroviamo a dover lottare per riaffermare e garantire tutti quei diritti e quelle condizioni di vita che permettono ad ogni essere umano di vivere una vita dignitosa, di vivere e non sopravvivere. Quotidianamente, nelle più svariate situazioni viviamo all'ombra delle stragi impunite, dalla lotta per il diritto al lavoro, all'istruzione, alla sanità, alla libera circolazione di ogni individuo, alla lotta per il diritto alla casa. Soffermandoci volutamente nell'ambito delle lotte per il diritto alla casa, ultimamente,in questa nostra città, vi sono state delle vicende che hanno riportato nuovamente alla luce l'utilizzo di mezzi repressivi come dimostrano, sia la vicenda degli immigrati di via Pitteri, la cui lotta è stata sfiancata su tutti i fronti dalle istituzioni e dai moralisti benpensanti, sia i modi mafiosi che hanno subito e subiscono gli occupanti di via Pontida 2 & 4, o gli ex occupanti di via De Castiglia. Oggi più che mai è necessario rilanciare la nostra voglia di lotta e insubordinazione, la nostra alterità da questo sistema basato sullo sfruttamento; consapevoli che questa lotta deve essere comune a tutte quelle categorie oppresse che troppo spesso preferiscono combattere tra loro invece di unirsi contro il comune oppressore. Il Comitato di lotta di Via Pontida 2 e 4.
LA REPRESSIONE ALL'ORDINE DEL GIORNO. Frequentare le università senza opporsi alla logica di conservazione della realtà che le dirige significa accettare di essere un corpo senza nessuna autonomia intellettuale. E sarà sempre più alienante usare il riconoscimento di un diploma in una società che non ha più niente da offrire, se non la violenza del disprezzo e dello sfruttamento. Dalle università usciranno i servi più zelanti e gli schiavi più fedeli, gli allievi migliori, diventati dipendenti modello vinceranno il diritto a subire la tirannia degli orari e la tristezza degli obblighi parcellizzati. Mentre gli altri, i precari, i disoccupati, i senza tetto, cadranno in una miseria ancora più grande, piena di ingiuria. Con o senza diplomi questo mondo non è degno di essere vissuto. E aspettando tempi migliori non cambierà niente. Non per i milioni di disoccupati costretti a mendicare la loro sopravvivenza, e nemmeno per quelli che lavorano e di conseguenza non hanno più il tempo per vivere. Noi in ogni minuto dobbiamo fare i conti con l'appiattimento della coscienza critica, sapientemente alimentata dai media e dalle stesse istituzioni scolastiche. Loro vogliono farci credere che la felicità è l'esclusiva di una famiglia normale e del tran-tran quotidiano: metrò, lavoro, dormire. Vogliono farci credere che con il lavoro ci realizziamo nell'alienazione dell'esistenza, che malgrado tutto siamo fortunati perché altrove si sta peggio. E che ognuno potrà godere delle ferie pagate, durante le quali avrà il diritto di consumare una parte della merda prodotta dal sua stesso lavoro. Vogliono convincerci rimanere tranquilli, e a disapprovare gli atti di ribellione, e ci minacciano, se non restiamo nei ranghi, di vietarci la piazza, di manganellarci, di far scorrere il nostro sangue. Non sognano altro che di vederci morire, nella miseria e nella sottomissione. Hanno costruito carceri speciali per distruggere la vita dei detenuti politici. Hanno progettato ghetti e pilotato fiumi di eroina fin dentro ai nostri quartieri. E' cosa loro la violenza dei controlli di identità, delle città presidiate dalla polizia, la violenza delle strade vuote. Sono gli stessi gerarchi che, oggi come allora, costruiscono i teoremi più assurdi e processano nelle aule bunker chi si oppone in modo radicale a questo stato di cose. E' la repressione che criminalizza e condanna la lotta antagonista nata e cresciuta in questi anni dall'esperienza dei centri sociali. Se dovessimo decidere ora se bisogna o no ribellarsi, la semplice prudenza ci imporrebbe di riflettere due volte, tanti sono i mezzi che le alte caste consacrano al mantenimento dell'ordine pubblico, tanti i legami collettivi che facevano prima la nostra forza si sono distesi e rotti. Ma visto che il combattimento è già stato iniziato, ed è stato innescato da un avversario che sogna di chiuderci la bocca per varie generazioni, non abbiamo altra scelta che rassegnarci alla più dolorosa delle sconfitte, o di prepararci a raddoppiare in audacia ed esigenza. C.A.O.S. (Collettivo Antagonista per l'Opposizione Sociale)