I rampolli di Togliatti
Quando abbiamo visto "scoppiare" il dibattito sul Manifesto intorno alle critiche sollevate da
Revelli abbiamo pensato che in fondo non si trattava di un dibattito "nostro": ma quale mai
significato può esserci in uno scazzo tra una sinistra che si vuole di "governo" ed una che si
sogna di "opposizione"?
La nostra idea è che la Sinistra, in tutte le sue componenti, è ormai morta da un pezzo, e
soprattutto, che in fondo questa morte non è un male ma un bene. È una tesi che abbiamo svolto
in un articolo su Alternative (Foucault dopo la morte della sinistra), e che, come era prevedibile, ha suscitato qualche...diciamo
malessere, ed anche un parziale avvio di dibattito, sia su Alternative stesso (che ci ha risposto
e a cui abbiamo controrisposto sperando di essere nuovamente ospitati) sia su Liberazione
(giornale del 5 giugno 1996). Il problema serio che abbiamo posto, e che purtroppo non è stato
colto, è quello di affrontare i postumi della occlusione storica nella quale si dibatte la sinistra
da vent'anni a questa parte, occlusione che la dirompente vittoria elettorale della destra aveva
reso per un attimo plateale, ma che è stata velocemente eclissata dal successo della sinistra.
Non è veramente straordinario che un semplice rimescolamento del bussolo elettorale, si badi
bene, fermi restando i dati fondamentali, abbia torto di 180 gradi il collo del dibattito? Il vero
macigno da affrontare, al di là delle alchimie tattiche del PDS, è che il corpo sociale del paese,
riflesso del resto abbastanza fedelmente in entrambi i risultati elettorali degli ultimi due anni, è
sostanzialmente, nella sua maggioranza, di "destra". Ancora più analiticamente, (e per quel che
più conta, non essendo estimatori dell'attuale feticismo democratico) è il profilo culturale e la
capacità di reazione di quelle che una volta si sarebbero dette le classi subalterne ad essere
segnate in profondità (si perdoni la semplificazione e la terminologia) dal dominio materiale ed
ideologico del Capitale.
Il problema reale dunque, se s'intende una buona volta uscire dalla sempiterna logica
dell'emergenza (questione che meriterebbe un intero ciclo di studi), non è quello di partire con
"realismo" da questo dato per vedere cosa si può fare, ma di vedere cosa si può fare per
modificare questo dato.
La nostra convinzione assoluta (una tra le poche che ci sono rimaste) è che se non si riesce a
leggere a fondo - si potrebbe dire storiograficamente - l'intera vicenda della sinistra italiana
del secolo che si chiude, i voli pindarici su possibili nuove strategie rivoluzionarie (tipo
alcune elucubrazioni sul terzo settore), o i prosaici tormenti della sinistra "realista" che non
vuole rinunciare a collocarsi nell'agone politico istituzionale, sono destinati a seguire l'onda
magmatica di un evoluzione generale sulla quale non si ha né saperi né poteri, un’onda che
oltretutto è, a nostro avviso, ben lungi dall'essersi acquietata.
L'operazione politica condotta in grande stile e con grandi mezzi da Ingrao e Rossanda con il
loro opuscolo della Manifesto libri, a cui Revelli ha prestato il fianco, s'inserisce in qualche
modo all'interno di questo livello della contesa politica, tentando una rilettura generale degli
ultimi decenni. Si tratta da questo punto di vista di un merito indiscutibile considerando la
sottovalutazione generale dell'importanza di questo genere di riflessioni e l'insufficienza
clamorosa che denunciava M. Grispigni sul Manifesto dell'8 giugno, del lavoro storiografico
sulla "stagione dei movimenti italiani". Il tempismo della Rossanda e di Ingrao nel raccogliere
quando la pera stava per cadere i fili del dibattito sul post-fordismo è stato veramente
notevole, e notevole è stata la capacità di imporre la centralità della loro ricostruzione
all'intero "popolo di sinistra". Si è trattato a nostro avviso di un'operazione di egemonia
culturale e politica da maestri, un'operazione con la quale la cultura togliattiana non soltanto ha
espresso la sua ricostruzione "di parte" degli ultimi vent'anni, ma è riuscita a presidiare un
ambito problematico che è nato e si è sviluppato al suo esterno, o almeno ai suoi confini e che
rischiava di diventare una significativa rimessa in questione dell'egemonia di questa stessa
cultura e delle sue mutanti propaggini politiche, il PDS, Rifondazione e ovviamente il
Manifesto.
Non è questa ovviamente la sede per affrontare criticamente il lavoro di Ingrao e Rossanda, ma
crediamo utile indicare in pillole ciò che ci riguarda in rapporto al problema che abbiamo
sollevato, quello di cimentarsi con una ricostruzione d'insieme per mostrare "l'esaurimento
storico della spinta propulsiva" della sinistra.
Sottesa all'analisi di Ingrao e Rossanda sulla scomposizione del blocco sociale tradizionale
della sinistra operato dal mutamento produttivo che schematicamente può essere indicato con il
concetto della globalizzazione, vi è la clamorosa rimozione delle responsabilità soggettive e
politiche. Il rovesciamento del segno politico della fase che si aprì con il '68, è avvenuto, DAL
LATO ECONOMICO, con la crisi economica e finanziaria della metà degli anni 70 e con la
ristrutturazione industriale che ne è seguita. Ma la replica capitalistica al più imponente ciclo
di lotte del dopoguerra non può e non deve essere letta nei termini di un semplice processo
"economico". In realtà ogni processo economico implica "agenti" culturali e politici. Quali
furono gli agenti dell'inversione che in meno di dieci/quindici anni ha trasformato l'Italia da
quell'entusiasmante luogo della proliferazione delle lotte allo squallido panorama degli anni
ottanta? La sinistra, il PCI, possono essere chiamati fuori da questo drammatico processo? La
rilettura di Ingrao e della Rossanda si limita ad indicare i ritardi culturali e politici del PCI e
del sindacato che provocarono il loro spiazzamento di fronte alla famigerata globalizzazione.
Ma le cose stanno ben diversamente. Schematizzando come è qui inevitabile, si può indicare i
passaggi cruciali di quella stagione:
1) l'insorgenza del '68 spiazzò completamente il PCI. Il ciclo di lotte che si mise in movimento
aggirava completamente la strategia togliattiana, non soltanto per la radicalità dei
comportamenti, ma anche per lo spettro problematico che le lotte assunsero, segnalando la
dislocazione che si avviava nei processi di soggettivazione, in rapporto a quelli tradizionali
legati alla fabbrica. D'altra parte all'interno del movimento apertosi i riferimenti teorici e
politici tradizionali, per quanto ritematizzati ecc. continuavano come è inevitabile, ad operare.
In questo senso gli elementi per una saldatura di quest'insorgenza con le lotte tradizionali della
fabbrica erano assolutamente presenti, oltretutto tenendo conto che gli stessi comportamenti
operai, a partire dall'autunno caldo scavalcarono ampiamente sia in termini di radicalità che di
contenuto la pratica sindacale allora predominante.
2) Il PCI e il sindacato, di fronte a questi nuovi processi, lungi da rimettere in discussione
l'impianto strategico generale si adoperarono con estrema flessibilità e indubbia capacità a
riconciliare questi nuovi comportamenti con la vecchia strategia, cavalcando le lotte di
fabbrica, ridisegnando le strutture del sindacato mediante il nuovo ruolo dei delegati,
assorbendo gradualmente la spinta unitaria e sistematizzando le nuove rivendicazioni all'interno
della battaglia istituzionale e parlamentare mediante la proposizione di grandi riforme di
carattere generale, (sanità, casa, pensioni, statuto dei lavoratori, scala mobile). L'idea di fondo
era quella di proseguire, con la nuova forza che derivava dall'ampiezza delle lotte, la strategia
della lenta marcia: all'interno della società "civile" con il rafforzamento delle istituzioni
operaie tradizionali, e sul piano politico con il rafforzamento dei partiti operai all'interno del
quadro parlamentare. Il retroterra culturale e teorico di questa strategia si può schematicamente
indicare nella incondizionata fede che il famigerato "sviluppo delle forze produttive" avrebbe
alla fine fatto cadere come una pera marcia il capitalismo.
Indichiamo di passata che questo è uno dei punti fondamentali della rottura tentata dai Quaderni
Rossi, in particolare con l'articolo di Panzieri "Sull'uso capitalistico delle macchine".
3) La conseguenza di queste scelte, sul terreno del movimento fu l'aprirsi di una frattura
crescente tra i processi distinti che si erano aperti con il '68 e con il'69, e cioè da una parte un
ciclo assolutamente nuovo di lotte e un nuovo modo di dispiegarsi delle soggettività, dall'altra
un balzo in avanti delle lotte tradizionali del movimento operaio. Sul terreno politico, con una
certa confusione, perché in realtà i gruppi extraparlamentari stessi non avevano ben chiara la
natura dei nuovi processi, questa divaricazione si espresse con l'irrigidirsi dei rapporti tra le
nuove formazioni politiche e la sinistra storica. Il problema di adeguare ai nuovi processi la
strategia delle organizzazioni, anziché svilupparsi criticamente, assunse la forma alla fine
perdente della contrapposizione frontale tra il PCI e le nuove formazioni politiche, della
contrapposizione tra rivoluzionari" e "riformisti". Da una parte dunque il PCI che anziché
raccogliere la nuova spinta di classe tendeva a forzarla all'interno della sua prospettiva
gradualistica, dall'altra le nuove formazioni che intuivano l'inadeguatezza di questa strategia,
ma restarono, come dire, surdeterminati da questa medesima strategia, credendo di risolvere i
problemi strategici semplicemente con la radicalizzazione dello scontro di classe e poi, mano a
mano che il lavoro del PCI cominciava a dare i suoi frutti, e i legami tra le avanguardie di
fabbrica e le istituzioni del movimento operaio tendevano a ricostituirsi, percorrendo la via
della divaricazione tra le lotte operaie e le lotte delle nuove soggettività, quest'ultime
concettualizzate con la famigerata figura dell'operaio sociale. La vera tomba del nuovo ciclo di
lotte aperto con il '68 è tutta in questa divaricazione, e nell'illusione di poter recidere i legami
interni tra le lotte della classe operaia e le nuove lotte, illusione che è bene sottolineare, fu del
PCI come delle nuove formazioni politiche: mentre il PCI tagliava con i nuovi comportamenti, i
gruppi e in particolare l'Autonomia, di fronte al blocco rappresentato dal PCI finirono per
teorizzare la fine della centralità operaia in forme che sebbene tentavano di sistematizzare i
nuovi elementi delle lotte, finivano per mettere capo a pratiche politiche che risultavano
inadeguate a contendere l'egemonia al PCI.
Ma l'aspetto cruciale per pesare adeguatamente le responsabilità del naufragio clamoroso delle
lotte degli anni settanta è il fatto che le nuove formazioni politiche furono semplicemente lo
specchio rovesciato del PCI. Dal punto di vista storico cioè furono la forza e l'abilità del PCI,
la sua capacità di recupero che costrinsero queste formazioni in un vicolo cieco.
Impossibilitate a far saltare il blocco costituito dal PCI, incapaci di ridisegnare una strategia di
consolidamento di fronte all'ineluttabile deflusso delle lotte che questo quadro determinava,
finirono per essere preda di derive deliranti, dall'eroina al terrorismo, fino alle forme più
prosaiche ma comunque squallide di ripiegamento. Il PCI dal canto suo, si era convinto che
l'ostacolo al dispiegarsi paziente della sua strategia di lento rafforzamento nella società e nelle
istituzioni non fosse altro che questo testardo ed estremista movimento, che si accaniva contro
di lui. Una volta debellato questo movimento, tutto sarebbe proseguito per il meglio. Ma lo
schema all'interno del quale la strategia del PCI, giusta o sbagliata che fosse, risultava
POSSIBILE, saltava clamorosamente, causa ed effetto del '68, che anticipava e al tempo stesso
segnalava l'esaurimento di un determinato assetto dell'accumulazione del capitale, e insieme
delle forme politiche di quest'assetto. Il calcolo impossibile del PCI era quello di rintuzzare gli
estremisti, di arroccarsi a difesa della democrazia, di fare perno sull'egemonia all'interno della
classe operaia, e, una volta superata la crisi, di riprendere la lunga marcia con la corrente dello
sviluppo storico a favore. In realtà a partire dalla metà degli anni settanta tutti i dati
fondamentali dello sviluppo capitalistico tendono a mutare nel senso della famosa
globalizzazione, del post-fordismo e via dicendo. E così, debellato il movimento degli
estremisti, garantita la "tenuta democratica della società" il PCI si trovò di fronte al Craxismo,
al panorama di ripiegamento colossale degli anni ottanta che il PCI stesso, nella sua
"responsabile" iniziativa contro la crisi economica contribuiva ad alimentare (alcune
considerazioni a parte andrebbero fatte sul movimento pacifista che comunque fu propedeutico
agli anni 80, alimentando in modo paradossale la cultura del rifiuto del conflitto e del
buonismo a scapito della critica generale al rapporto del Capitale).
Al posto del superamento della crisi, il PCI si trovò di fronte alla crisi permanente,
all'espulsione senza fine della forza lavoro dalle grandi fabbriche, all'erosione inarrestabile
della sua stessa base sociale. La presa d'atto, peraltro inevitabile, del vicolo cieco di questa
strategia si ha, con ben 21 anni di ritardo dal '68, con il crollo del muro e la svolta della
bolognina. Il PCI non poteva che eclissarsi, l'apparato compiva la sua metamorfosi per
garantirsi la propria autoconservazione, saltando in un orizzonte strategico assolutamente altro
da quello togliattiano, dal punto di vista ideologico (sebbene lungamente preparato ad arte) ma
al tempo stesso assolutamente contiguo per quanto riguardava le pratiche politiche e le matrici
culturali.
L'esaurimento delle lotte degli anni settanta nelle logiche del gruppismo, nelle elucubrazioni
sulla separazione totale dell'operaio sociale dal capitale e sull'autovalorizzazione delle
soggettività, la stessa spaccatura lungo la strada delirante del terrorismo furono semplicemente
la replica impotente all’occlusione storica posta dalla strategia del PCI. Il nocciolo razionale
della contrapposizione frontale al PCI da parte dei gruppi e poi in particolare dell'Autonomia
stava nella percezione di quest'occlusione e della necessità di operare una rottura radicale con
l'impianto strategico della sinistra storica. Si tratta di un compito lasciato in sospeso dalla
sconfitta dei movimenti, ma più necessario e attuale che mai.
Tornando al dibattito in corso sul Manifesto, ci sembra che l'unico modo per dargli un
significato non contingente, sarebbe quello di provare a ricollocare la disputa tra i sostenitori
delle pratiche sociali legate al lavoro autonomo e alla crisi del Welfare, e gli immarcescibili
sostenitori della centralità della politica e della politica istituzionale, a ricollocare dicevamo
questa disputa nel più vasto dibattito strategico della sinistra, dalle origini alla stagione dei
movimenti. Si vedrebbe allora insieme agli elementi di continuità di questo dibattito, assai
scadente in rapporto al rigore critico toccato in altre occasioni, gli elementi che inducono
finalmente a riformulare i riferimenti obsoleti e le categorie approssimative che abbondano in
entrambi i contendenti.
Le considerazioni che abbiamo svolto sugli anni settanta sono solo un aspetto tra i tanti che
sarebbe utile passare in rassegna. Abbiamo indicato come a nostro avviso a partire dalla metà
degli anni settanta la strategia togliattiana diventa IMPOSSIBILE, e tende a rovesciarsi in
quello squallido servizio di normalizzazione capitalistica che è tuttora all'opera. Ma sarebbe
ugualmente necessario mostrare le radici massimaliste e riformiste della sinistra italiana,
verificare la natura della rottura del '21, le grandi prove del PCI durante gli anni trenta, la
sciagurata politica dell'Internazionale stalinista in Spagna, le scelte decisive del dopoguerra da
Salerno in avanti ecc. In questo modo emergerebbero in nodi che scandiscono l'approdo del
PCI negli anni settanta, e diventerebbe possibile recidere alle radici i legami che uniscono la
strategia impossibile degli anni settanta alla strategia apparentemente vincente del PCI dal
dopoguerra in avanti, legami che poi furono alla base del credito che negli settanta il PCI riuscì
a raccogliere tra la classe operaia tradizionale e che gli fu indispensabile per battere le nuove
formazioni del dopo sessantotto. La nostra idea è che andando a grattare su questa vicenda si
potrebbe mettere in trasparenza l'assoluta estraneità della sinistra, del PCI come partito di
sinistra e stalinista, della cultura togliattiana con la tradizione radicale del movimento operaio,
dell'Ottobre, del comunismo, e per quello che è oggi fondamentale, con quella tappa di
riorientamento che può diventare il sessantotto e gli anni settanta. Si potrebbe allora finalmente
mettere un pietrone sopra quella necrosi storica del togliattismo costituita dal feticcio dell'unità
delle sinistre che tiene paradossalmente ancora il campo. La sinistra, unita o divisa, è morta,
viva il comunismo!
Giannozzo The Kid
Luglio ‘96
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