"Il pensiero contemporaneo quando coglie la crisi, non la coglie come elemento di costruzione ma come incentivo alla fuga. Trasforma la crisi in nichilismo..."
Anomino 2, 1987
"Dagli anni '30 a noi è cambiato solo questo -ed è enorme e cioè che l'approfondimento del concetto di crisi è pervenuto all'essere, ha strappato i veli letterali e filosofici che lo mostravano come risultato intellettuale dell'analitica, per diventare una cosa. Una cosa reale, che si tocca, un incubo che si vive, un terrore che si subisce..."
Anonimo 2, 1987
Se ci si interessa alla storia del concetto di autogestione, anche senza farsi troppe domande su come utilizzare la storia di un concetto, non si può certo tacere che un posto importante, in questa rassegna, lo occupa l'esperienza del socialismo autogestionario.
Si tratta però di un precedente che ha caratteri agghiaccianti: un paese che teorizzò, e cercò di praticare, il socialismo autogestionario fu la Jugoslavia di Tito. I caratteri agghiaccianti non stanno tanto nell'idea che lo sbocco finale di quell'esperienza socialista ha coinciso con una feroce guerra civile. Stanno piuttosto nel fatto che diverse strutture politiche dell'autogestione socialista -federalismo, decentramento dei poteri, milizie territoriali- si sono trasformare in strumenti adatti per la guerra di secessione oppure nella trasformazione del management delle fabbriche del socialismo autogestionario nel ceto neoliberista dell'aggancio all'area del marco, in Slovenia e Croazia, o in quello dell'economia di guerra della federazione serbo-montenegrina.
Intendiamoci, questo non significa seppellire ogni momento di quell'esperienza sotto il timbro di condanna degli eventi storici. Solo un polveroso e tardissimo, per quanto ancora vivo, storicismo ragiona in termini di condanne della storia da accettare, o di eventi esemplari in nome dei quali perpetuare la tradizione o gridare alla decadenza di un epoca (anche l'uso corrente di questo concetto, come l'abuso del termine "era", è demenziale. Ma qui soprassediamo.
Quello che ci interessa veramente è ricordare che il concetto di autogestione nasce in un contesto diversissimo da quello dell'intramontabile perché povero "mi gestisco con i miei bisogni assieme a chi decido io" con il suo corollario di precetti vaghi quanto adattabili al mitico "si decide volta per volta" che è la dimensione teorica in cui il concetto di autogestione oggi naviga.
Si potrebbe dire che, essendo l'autogestione socialista e quella dei bisogni due esperienze fatte in contesti diversi, non si possono far ricadere sui limiti dell'autogestione dei bisogni le tragedie del socialismo autogestionario. Quello che si qui si sostiene è invece il contrario: la scatola (vuota) degli attrezzi dell'autogestione dei bisogni risulta tale anche da una serie di processi di adattamento, del pensiero e delle pratiche di autodeterminazione, al disintegrarsi del socialismo autogestionario.
Ovviamente le esperienze autogestionarie, dall'800 a oggi, sono una miriade, riprodottesi in ogni continente, e di ogni tipo: anarchico, socialistico, comunistico, comunitaristico, utopistico, consiliarista. Ma il ricordare l'esperienza della Jugoslavia ci aiuta a considerare con divertito sarcasmo come il pur demolito socialismo autogestionario sia arrivato a operare con un gruppo di paesi, i non-allineati, che sembrava porsi negli anni '60 come alternativa alla diarchia Usa-Urss mentre l'autogestione dei bisogni non riesce a guardare oltre le mura di casa, la rigida cerchia di conoscenze, la piccola impresa fai-da-te e vaffanculo-tuttiglialtri-esclusodueotre.
Non si tratta di un paragone sballato che gioca sulle similitudini possibili attorno alla parola "autogestione"; l'autogestione dei bisogni è nata da un intreccio di risultati dovuti alla disintegrazione del sapere politico dei ceti subalterni che sono passati, in qualche lustro, dall'essere soggetto collettivo vivente, e vincente, a una situazione in cui coincidono autogestione, gestione dei propri interessi e povero adattamento a un ambiente sfavorevole in un'eterna vita privata e con scarse prospettive.
Proprio a causa di questa situazione va capita tutta una serie di limiti e paradossi che l'idea di autogestione incontra nei momenti in cui si esercita e il fatto che questi limiti sono dovuti proprio alla sua forma storica di autogestione dei bisogni, privati o 'politici" che essa ha assunto nel tempo.
Per limiti non intendiamo certo la nascita sfortunata del concetto, e il conseguente cumulo di disgrazie che la seguirebbero. Qualsiasi concetto ha una nascita irregolare, irregolare è la sua vita come la sua morte, irregolari sono i suoi miracoli. Intendiamo dire che, per come esso si dispiega socialmente, per come gli si è collegata attorno la vita sociale, i suoi limiti sono tali per cui le forme di vita sociali ad esso legate non solo non accrescono ma ne vengono puntualmente mortificate.
Giova inoltre dire come le espressioni "autogestione" e "autogoverno" stiano ormai negli intenti programmatici del PDS e dell'ARCI come in quelli della componente "libertaria" di Forza Italia. Annessione propagandistica o accoglimento di un'idea ormai complementare?
"I grandi ci sembrano grandi solo perché stiamo in ginocchio. Alziamoci!" Loustalot, redattore de Les Revolutions de Paris (1789).
1) L'eterna assemblea studentesca
L'assemblea di base è, a seconda di come la si veda, il luogo della democrazia diretta o il luogo della confusa paralisi decisionale, il luogo del conflitto come quello della rissa. Assieme a ogni idea di "decisione dal basso" è continuamente invocata dagli oppositori di sinistra come la soluzione, sia di principio sia materiale. A ogni contraddizione e, più raramente, evocata come terreno del caos dove niente è garantito da parte dei governativi di sinistra.
Ci preme qui sottolineare come la forma assembleare sia arrivata fino a noi sostanzialmente attraverso la trasmissione studentesca dei saperi. Scomparse le grandi assemblee operaie di base, causa la polverizzazione e la globalizzazione della grande fabbrica, seppellite culturalmente le assemblee femministe di base (con relativa autocoscienza), rimossi i gruppi extraparlamentari, chiuse le sezioni dei partiti di massa, anche a causa della ristrutturazione dei modi di erogazione del potere, latitante da decenni ogni forma di gestione politica di base del territorio per incarnare la democrazia diretta, assieme ai centri sociali, sono restate le assemblee studentesche. Un'esperienza ,quella studentesca, limitata al momento della formazione dei saperi -in un'istituzione di erogazione di sapere che è allo sfascio da tempo immemorabile- e per una fascia di età ben precisa.
Ora, l'assemblea studentesca di base ha costituito, storicamente parlando, un forte momento scompositivo, uno ricompositivo e delle crisi di complessità.
Se guardiamo all'epica esperienza dei gruppi extraparlamentari, c'è un momento in cui l'assemblea studentesca cerca di essere una soluzione alla loro crisi: in quanto struttura o voce di un settore della composizione di classe. Infatti, l'assemblea di base non è solo il luogo dove ci si contende l'egemonia tra gruppi in un settore di classe. È anche una struttura politica, che dà voce a un segmento della composizione di classe quando il gruppo extraparlamentare balbetta o si ripiega su se stesso. In questa maniera, in quanto struttura politica, l'assemblea di base studentesca, è sia scompositiva che ricompositiva rispetto al gruppo politico extraparlamentare. Scompone il gruppo extraparlamentare, perché si pone come luogo della politica rispetto a quella forma organizzativa che si presenta spesso rissosa e paralizzata; ricompone, inoltre, tutte quelle soggettività politiche che non trovano possibilità di espressione nel gruppo extraparlamentare.
Ora, l'incredibilmente ancora attuale appello al "sociale" nasce anche da questo tipo di esperienza: dall'assemblea di base, in questo caso studentesca, come terreno dove un segmento di composizione di classe possa far sentire immediatamente le proprie istanze nonostante le paralisi della 'politica'.
Sembrerebbe che questa immediatezza fosse la culla del sapere della liberazione, che questa istituzione avesse risolto la crisi del gruppo extraparlamentare se non fosse che il gruppo era stato creato ... dall'assemblea di base attorno al '68.
Perché il cerchio si chiude? Perché l'assemblea studentesca sente la necessità politica di creare il gruppo che nasce, entra in crisi e si scompone di nuovo nell'assemblea?
2) Noi e l'eterna assemblea studentesca: la crisi permanente di complessità
Ogni mitologia del "sociale" -e del suo omologo illuminato "la società civile"- vuole che tutto ciò che si muove, nel mondo dei subalterni, risponda alla logica di una mano invisibile, e pure intelligente per natura, della "spontaneità che si muove dal basso' che si manifesta sempre superando le proprie asfittiche forme politiche. Secondo questa logica, dagli anni '80 in poi, avremmo vissuto un eterno '68: tutte le volte che si manifestava un movimentino -per la pace, sulla scala mobile, cobas, pantere etc..- ecco la creativa spontaneità che ritornava, ecco intravisto un trampolino per il rilancio dei 'movimenti'. Il risultato di tutto questo si è invece diviso tra l'esaurirsi del movimentino di turno ed il marcare, alla lunga, il più poderoso smantellamento delle condizioni materiali di vita nella storia di questo paese (giova qui ricordare che nel '77 i disoccupati erano 640.000 e oggi sono più di tre milioni e che siamo solo all'inizio di un'altra poderosa ondata di ristrutturazione).
Non sarà che dietro le forme politiche costitutive di questi movimentini -che sono stati quelli di un prossimo ieri e si candidano ad essere quelle di un prossimo domani- si nascondono dei seri difetti di fondo? Non sarà che tutte le abitudini ossidate, che trasformano la 'spinta dal basso" nel défilé del cronicario della generazione di turno, debbano essere archiviate?
Se consideriamo i soggetti che ci interessano, il problema da mettere a fuoco è quello della ricorrente crisi di complessità che costantemente demolisce, e impoverisce, l'assemblea di base studentesca.
Ci sono due tipi di crisi di complessità da considerare: storico e permanente.
L'autogestione, che si perpetua tramite il meccanismo assembleare, tende a creare, tra i suoi membri, o un irriducibile differenzialismo -che ha la sua formula pacificatrice nel 'riconosciamo le reciproche differenze"- o un processo di irresistibile omogeneizzazione.
Ma differenzialismo e omogeneizzazione hanno la loro radice comune: l'aggregazione tra identici come collante dell'assemblearismo povero.
Se l'assemblea è senza storia e senza precise alleanze sociali, se non si complessifica nel tempo e nello spazio, l'aggregazione tra identici resta una tendenza praticabile.
Allora il gruppetto più giovane si aggrega con i più giovani, quello di tendenza con quelli della stessa tendenza insomma "gli amici legano solo con gli amici".
È il risultato dei problemi posti dalle crisi di complessità: per evitare le paralisi decisionali, per "riconoscere" membri da affiliare si tendono a aggregare persone simili o identiche, si tende a marcare il più possibile la retorica dell'amicizia e degli affetti. Il "riconoscimento delle differenze" è la federazione tra gruppi che si aggregano secondo gli stessi criteri dell'aggregazione del simile o dell'identico.
Il termine 'comunità" vale, per questi aggregati, come riferimento di valore. È una comunità tra Io di simile o identica formazione. In questa maniera l'autogestione si personalizza, l'identità si ogni membro è fatta della stessa pasta dell'Io e l'Io si collettivizza.
È un tipo di aggregato che subisce le stesse crisi di complessità di quelli prima descritti, non fosse altro perché gli Io si differenziano, nel tempo, tra loro e si complessificano.
Mentre gli aggregati di tradizione più squisitamente militante non riescono a far fronte alle crisi di complessità a causa dei propri esauriti saperi pubblici, questo tipo di aggregazione non supera le crisi di complessità perché usa, per risolverle, dei saperi privati -che qualcuno chiama buonsenso- completamente inutili alla bisogna.