Ma l'amor mio ritorna
Parte terza o dell'amicizia


Quale storiografia per gli anni '70?

Se ogni periodo storico attraversa le sue brave revisioni, e se ogni categoria storiografica deve fare i conti con repentini mutamenti interpretativi, allora i contributi prodotti in occasione del ventennale del '77 non sfuggono a questo costume consolidato.
Viene quindi spontaneo chiedersi quanto questi materiali appartengano alla storia, in altre parole quanto siano in possesso delle varie discipline storiografiche, quanto all'attualità del sapere politico, definendosi come materiale non esclusivo ma determinante nella costituzione delle discipline politiche in atto, quanto appartengano, infine, al terreno plurimo della memoria ovvero a quella galassia indefinibile di trasmissione indiretta di saperi, di trasmissione orale di comportamenti, di annotazioni di descrizioni private, di "pezzi di colore", di cronache più o meno generali dei fatti.
La nostra tesi è che quest'ultimo terreno sia quel canale che ha potuto, nella solita maniera carsica, trasportare materiali e impressioni dagli anni '7O a noi. Ed è un canale che deve soddisfare continuamente richieste e che sta appena aprendo il sentiero degli studi specializzati, delle ricerche storiografiche sulle dinamiche dei fatti, dei comportamenti, sulla contradditorietà degli eventi. Questo terreno della memoria preme quindi continuamente su quello della storia e probabilmente raggiungerà apprezzabili risultati nel campo dei saperi d'archivio, magari contribuendo a ridefinire il problema del valore di una fonte quando essa non è più solo il testo o il monumento ma anche una fotografia, un video, un sonoro (aprendo, si auspica, anche una vera e propria disciplina specializzata di interpretazione delle cronache giornalistiche, facendo sì che l'articolo di supino appoggio alla questura scritto da "Il Corriere della Sera" o da "L'Unità" da menzogna di venti anni fa non si trasformi in verità sui fatti tra vent'anni).
L'altra parte della nostra tesi è che, mentre il rapporto tra terreno della memoria e quello storico sembra avere una prospettiva, la relazione tra terreno storico e attualità delle discipline politiche è estremamente controversa.
Consegnare gli anni '7O in blocco al terreno del "passato che è passato" comporta un'analisi che localizza la politica extraparlamentare di massa come puro problema per gli innamorati dei fatti. Sarebbe una vittoria strategica di una tesi frutto di un preciso impasto storico e politico: la politica extraparlamentare di massa e la contestazione di massa sono esaurite e appartengono quindi solo alle discipline storiografiche (e, per quel qualcuno che le vive ancor oggi come vicende giudiziarie, un sano "in bocca al lupo" o l'appello alla clemenza). Se poi c'è qualche curioso genietto che ci tira fuori qualche stranezza, per dirla alla Mai dire gol, "è tutto molto bello" ma la vittoria resta in mano a chi l'ha conseguita. Ed è una vittoria che dice che l'attualità delle discipline politiche non ha niente di costitutivo che appartenga, direttamente o derivatamente, all'esperienza storica e teorica del movimento degli anni '70, che quest'esperienza è direttamente improduttiva sul piano teorico quanto ineffettuale su quello pratico e che, di conseguenza, gli storici-storici possono occupare la scena.
Viceversa, il rapporto tra terreno della storia e quello della attualità delle discipline politiche risulta altrettanto insoddisfacente se si fornisce una lettura degli anni '70 come fossero passati giusto un paio di giorni fa e, se si cerca di sondare il terreno storico come direttamente foriero di consigli politici.
E' il terreno che nasce dalla troppa precipitazione nel formulare il giudizio sul "'77 come anticipazione". Certo, il '77 apre forti argomenti contro il liberismo, per il quale la politica berlingueriana dell'austerità ha costituito il primo zoccolo materiale, crea quelle forme comunicative e espressive che tanto saranno saccheggiate e rielaborate negli anni successivi, promuove un'intelligenza produttiva che saprà essere vivace, anche in senso non-economico, fino ai nostri giorni.
Ma il '77 si muove su un terreno che non è il nostro: è quello della centralità delle politiche, delle culture e dei saperi della contestazione nella sfera pubblica. Se essa si era già rotta all'inizio degli anni '70 dove, come rilevò con stupore Fachinelli nel Bambino dalle uova d'oro, c'era la novità che gli scontri si svolgessero in una città che continuava a funzionare, il '77 si nutre ancora di questa centralità. Per questo non si accorse, si perdoni la schematizzazione, che assieme a lui stava crescendo John Travolta che, a quanto narrano le cronache, di egemonia sugli allora nuovi proletari ne seppe esercitare.
Noi viviamo in una società impolitica, che negli anni '80 molti hanno creduto impolitica perché satolla, che da molti anni è irriducibile ai saperi, alle culture e alle politiche della contestazione. Ed è a causa di questo tipo di know-how che la nuova composizione dei ceti subalterni manifesta da una vita un'interessante composizione tecnica quanto una poverissima composizione politica magari in balìa dei cartelli elettorali di turno.
Questo problema strutturale della società impolitica, e del deperimento dei saperi dei ceti subalterni nella fucina della sfera pubblica, il '77 non lo anticipa, lo subisce: la critica dei gruppi ridotta a assemblearismo, la sperimentazione dei linguaggi ridotta ad autismo sono anch'essi patrimonio del '77 e testimonianza di questo subire.
E, usando una punta di malignità, si può dire che sono proprio questi elementi di anticipazione a trovare cittadinanza negli anni '80 e '90: non c'è movimento di base, studentesco o altro, che non sia affogato grazie a crisi di complessità che il proprio assemblearismo povero non è riuscito a risolvere o che non si sia sperso in una società che non recepiva i suoi linguaggi particolari nella miriade di linguaggi altrettanto particolari.
Se, quindi, ci interessa un rapporto produttivo tra terreno storico e terreno dell'attualità delle discipline politiche a proposito dei saperi, e delle storie, emergenti dagli anni '70 non possiamo non tener conto delle aporie provenienti dalle argomentazioni prima descritte.
Ci troviamo di fronte a una netta archiviazione dei fatti ormai ridotti a puro passato come in faccia a uno speranzoso continuismo: la prima ipotesi costituisce il sapere delle proprie discipline politiche a prescindere da ogni riflessione produttiva su quel sapere storico; la seconda cerca di gettare in qualche pratica politica ad hoc ogni frammento possibile di passato. Si tratta, probabilmente, non tanto di mediare tra queste posizioni quanto di riflettere produttivamente su queste aporie.
La prima ipotesi la possiamo generalmente trovare attorno ai modelli, sia storiografici sia costitutivi di sapere politico, che hanno comune origine dal tronco togliattiano nel quale predominava l'idea del "governo democratico dell'economia" grazie alla quale ancora oggi si sente risuonare il precetto "che la politica governi l'economia".
All'interno di questa prima ipotesi si può leggere che la cifra dello scontro tra le attuali due sinistre passa proprio attraverso la differente interpretazione della gestione di questa eredità mentre, per entrambe, l'utilizzo del sapere proveniente dagli anni '70 deve essere ridotto alla compatibilità con schemi interpretativi comunque provenienti dal tronco togliattiano.
Il filone discontinuista -non riconducibile al solo Pds- ha riletto l'idea del governo democratico dell'economia come assunzione di una ristrutturata gabbia normativa, sorretta da una flessibile base amministrativa e da una dosata iniezione di consenso elettorale, a sostegno delle continue modificazioni dell'impresa e della capacità di concorrenzialità del sistema. Tutto questo è il risultato della ristrutturazione dei partiti di massa in cartelli elettorali: può assumere come modelli culturali e epistemologici da Popper a Rawls, passando addirittura da un ritorno dell'individualismo metodologico di Menger, ma su un rapporto tra sapere storico degli anni '70 e l'attualità della costituzione delle discipline politiche niente allucinazioni please...
Il filone continuista -ovviamente non riconducibile alla sola Rifondazione- rischia di subire la contrapposizione tra non garantiti e garantiti che il Pds sta giocando (a ruolo inverso rispetto a quello giocato dal Pci nel '77). Spiazzato dalla mobilità dei capitali ne invoca il controllo quando ciò non accadrà ancora per molti lustri; contro i rigori della globalizzazione scommette su un loro controllo politico da parte di enti costituiti proprio per evitarlo. Qui gli anni '70 sono razionalizzati come un problema di partecipazione politica e il rapporto tra terreno storico e costituzione di categorie politiche è in vista di quell'ulteriore razionalizzazione che potrebbe riassumersi come il desiderio di una rivincita sul 20 giugno 1976. Possibile?
Se quindi gli anni settanta non servono, nel rapporto storia-attualità delle discipline politiche, né al filone continuista del tronco togliattiano né tantomeno a quello discontinuista; se lo schema dell'attualità del '77 si trova spesso fuori contesto, che resta? Quale rapporto storia-attualità delle discipline? E, soprattutto, in vista di cosa?
Viene spontaneo dire Zurueck zu Marx! Viene spontaneo dire che un uso produttivo della storia degli anni '70 per la costituzione dell'attualità delle discipline politiche non può esimersi dal compito primario de Il Capitale: l'analisi del rapporto sociale di produzione. Se vediamo le cose con queste lenti allora la sinistra discontinuista rovescia Marx ponendo il capitalista come valore e il ridislocamento del plusvalore relativo in forme di plusvalore assoluto addirittura come orizzonte di emancipazione collettiva; la sinistra continuista è ancora convinta di possedere la formula politica in grado di reperire le risorse necessarie come nel welfare di 20 o 30 anni fa componendo, a livello di sistema, ciò che non si compone là dove si estrae profitto; gli eredi del movimento sembrano convinti di aver già acchiappato la nuova composizione del lavoro trasformato in valore che non coincide più né con una singola figura lavorativa né con un singolo luogo di lavoro né con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Ritengono, in sostanza, di aver afferrato, solo per il fatto di averlo evocato, ciò che continuamente gli sfugge.
Altrimenti procedendo ci si avvia invece a individuare un rapporto, tra terreno storico e costituzione dell'attualità delle discipline politiche, che sia in vista di una genealogia del rapporto sociale di produzione individuandone le rotture, le continuità, le discontinuità.
In questo modo la storiografia rende un servizio all'attualità delle discipline politiche saggiando la consistenza del terreno su cui esse si muovono e fa riemergere un rapporto sociale di produzione che, nei modelli prima osservati, non può che risultare sfuocato.
Infatti, la sinistra discontinuista semplicemente tenta di coartare nei vari comparti della gabbia normativa il rapporto sociale richiesto dall'impresa; la sinistra continuista cerca di agganciare il livello di mediazione politica che ritiene necessario all'interno dell'evoluzione di un rapporto sociale di produzione che, nella sua stessa istanza costitutiva, cresce nell'esclusione della mediazione politica; gli eredi del movimento, dopo aver realizzato un'idea del tipo "il rapporto sociale di produzione è come il linguaggio cioè dappertutto" ovviamente non riescono a tirar su un modello di crescita politica perché quel "dappertutto" si è rivelata la classica notte in cui tutte le vacche sono nere.
In questa maniera una riflessione sulle dinamiche e sulle discontinuità del rapporto sociale di produzione, a seguito e a fronte degli anni '7O, può rivelare produttivo il rapporto tra indagine storiografica e attualità delle discipline politiche.
Ed è dall'indagine sul rapporto sociale di produzione che può fuoriuscire un superamento degli attuali modelli politici che vedono, dal tronco togliattiano, comunque un sostanziale mantenimento degli imperativi sistemico-parlamentari oppure, dalle culture che si rifanno al movimento, l'instaurazione della scommessa sulla ripresa della contestazione di massa che, a sua volta, dovrebbe garantire la disintegrazione del sistema.
Come si vede l'indagine storiografica non è solo memoria o riproposizione di ciò che si pensa attuale nella memoria. Come la storiografia della filosofia politica sa, essa può essere direttamente politica perché sonda e cerca saperi richiesti per alimentare le tecnologie politiche del momento e le loro strategie. Di questo c'è bisogno non fosse altro perché il sapere politico, nei nostri ceti subalterni, è visto come una lontana bizzarria ed è proprio questo elemento che li rende direttamente produttivi nell'attuale rapporto sociale di produzione. Laddove l'impoliticità rende impossibile l'affermazione di rigidità da parte della forza-lavoro, il capitale sfrutta le potenzialità produttive di questa impoliticità e ne alimenta le forme stesse di valorizzazione.
La storiografia degli anni '70 dovrebbe fornirci sapere per affrontare questo? E' una scommessa rischiosa ma sempre più sensata di instaurare il solito impianto teorico e politico di "resistenza" che non è altro che un arrangiamento dell'ennesimo livello di arretramento delle condizioni materiali dei ceti subalterni (oggi quasi tutti legati al mondo degli outsiders e, volenti o nolenti, rappresentati da una sinistra istituzionale, discontinuista o non, che vive e si riproduce inside).


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