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La cosa che più mi ha colpito è la velocità con cui il movimento è passato dalle rivendicazioni categoriali
alle "rivendicazioni" generali. Questa generalizzazione non si è prodotta in modo astrattamente politico, passando
dall'economico al politico (come vuole la tradizione del movimento operaio), ma secondo una generalizzazione ed
una globalizzazione che tendono alla costituzione di un corpo sociale, di un "corpo superiore". Si è vista, sotto i
nostri occhi, una collettività e una molteplicità porre, mentre si stava costituendo, la "vita" e il "tempo" di questo
corpo sociale, contro la "vita" e il "tempo" del capitale.
Una prima definizione, molto generale, di questi movimenti, potrebbe essere quella di capovolgimento della
definizione foucaultiana del bio-potere. (1) Contrariamente a quanto Foucault enuncia, il problema del "bios" qui
viene posto dal basso, in modo radicalmente democratico, e non semplicemente come gestione statuale.
Al centro di questo processo molto avanzato di costituzione del corpo sociale bisogna forse leggere le
differenti rivendicazioni (salario, pensione, formazione, sicurezza) come articolazioni del problema della vita, della
morte, della salute, della sofferenza, del sapere e della soggettività entro questa congiuntura specifica dell'iniziativa
capitalistica.
Il rifiuto di vedere la "vita" sottomessa alle forme di assoggettamento del liberalismo si è espresso nelle
parole degli scioperanti, piuttosto che attraverso le rappresentanze sindacali, con una chiarezza sorprendente
rispetto alla posta e alle sfide con cui bisogna fare i conti.
La questione della pensione è stato posta insieme a quello dell"avvenire dei bambini", poiché "per essi non
c'è né lavoro né pensione". Il problema del lavoro è stato posto insieme a quello del "sociale" e delle generazioni
più giovani. Gli studenti sono stati obbligati a porre il sapere in rapporto al mercato del lavoro, alle relazioni di
potere e alla vita della società. L'opposizione al piano Juppé non mira solo a bloccare l'aumento dei prelievi, ma
sollecita e apre lo spazio a forme alternative di organizzazione della gestione del corpo, della malattia, della
sofferenza (a proposito della quale le infermiere avrebbero molto da dire) e della soggettività in generale.
La lotta "economica" tende ad assumere questa dimensione globale e non prende più di mira soltanto la
totalità del rapporto politico, ma della dimensione sociale e collettiva di ciò che è definito, per difetto, proletariato.
L'imbricazione delle tematiche economiche, sociali e della produzione di soggettività è la caratteristica che sembra
liberarsi da questi scioperi. Si misura così la distanza che separa questi scioperi dalle lotte "operaie" classiche dove
ciascuno di questi passaggi richiedeva l'intervento dell'organizzazione, questa avendo come nemico lo Stato che
rappresentava l'interesse generale e non, come oggi, lo Stato organizzatore del bio-potere.
Da questo punto di vista, questi movimenti integrano specificamente l'esperienza e le tematiche del
movimento delle donne poiché il problema del "salario" non è considerato nel suo rapporto con il "tempo di
lavoro" (come nelle lotte tradizionali del movimento operaio), ma dal punto di vista della totalità della "vita" (dal
punto di vista della "riproduzione", secondo un linguaggio più marxista). È il movimento delle donne che ha per
primo rovesciato la logica del bio-potere, e da qui l'importanza delle lotte delle infermiere e delle mobilitazioni delle
donne nel post-fordismo.
La solidarietà che si libera da questi movimenti trova la sua forza materiale nell'affermazione di questo
punti di vista globale. Persino chi non è stato impegnato direttamente nell'organizzazione dello sciopero si è sentito
solidale poiché la posta in gioco delle "forme di vita" lo coinvolgeva in quanto individuo. La "solidarietà" che si è
espressa in queste settimane è profondamente diversa dalla solidarietà che circondava gli scioperi operai classici.
Questo punto di vista "globale" deve oramai essere assunto preliminarmente ad ogni analisi e ad ogni
proposta: il dibattito molto vivo sulla riduzione dell'orario di lavoro e sul salario garantito viene ridefinito dal modo
in cui il problema del tempo di lavoro è stato posto: come tempo della vita. Vale a dire da un punto di vista che
sfugge alle figure operaie classiche. Ciò che ci ha sempre disturbato non era la riduzione del tempo di lavoro, ma la
sua realizzazione attraverso il modello del tempo di lavoro della classe operaia: una organizzazione del tempo e
della produzione che non rappresenta più la "tendenza" dello sviluppo del capitalismo e delle soggettività.
Contrariamente a ciò che pensava tutto il bel mondo intellettuale, politico e mediatico, il conflitto non è
scomparso nel capitalismo post-moderno, ma, come noi abbiamo sempre sostenuto - spesso con la più grande
sorpresa da parte dei nostri interlocutori - assume una intensità che copre immediatamente la società intera e mette
faccia a faccia il corpo pieno di socius e il corpo vuoto (ma potente nel suo potere arbitrario) della moneta.
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Bio-politiche, queste lotte lo sono poi da un altro punto di vista: esse si oppongono alla psichiatrizzazione
del sociale, all'interiorizzazione psichica della crisi come sofferenza, angoscia, colpevolezza.
Nietzsche costruisce la sua genealogia della morale, contro le teorie fondate sullo "scambio" (e, ante
litteram, contro le teorie del "dono"), sul debito materiale che che si contratta con un creditore. In tedesco debito e
colpa sono designati con la stessa parola: Schuld. Per Nietzsche la cattiva coscienza, la colpevolezza e l'uomo del
risentimento trovano qui la loro origine. Oggi, politici e media ce lo ricordano, noi siamo indebitati individualmente
e collettivamente con il sistema bancario mondiale per le prossime sette generazioni. Colpevolezza, cattiva
coscienza e risentimento saranno la nostra sventura se il debito non verrà riassorbito. Oggi il debito non si inscrive
più nella carne, ma direttamente nella nostra soggettività (e nei nostri conti in banca come in quelli della nazione).
Un ferroviere di 35 anni ricordava che da quando ha raggiunto l'età della ragione non ha conosciuto che la
crisi e i sacrifici necessari per uscirvi. Ma crisi e debito non fanno che crescere, e questa crescita non è che un
inganno. Ora basta, esclamava.
Le lotte hanno collettivamente rifiutato la reinvenzione del peccato originale (senza credenze né fede) da
parte del capitalismo post-moderno. Entro questo movimento la coscienza che la crisi non è che uno stato
transitorio è profondamente radicata e che, con il debito, la crisi è un modo di governo dell'economia e di
psichiatrizzazione della soggettività.
Ben lontane da essere questa "cupa disperazione" che descrivono tutti i preti laici - giornalisti, intellettuali,
uomini politici - veri organizzatori delle passioni tristi e catodiche, è invece dal desiderio e dalla gioia che si
sprigionano queste lotte.
La securité sociale dovrebbe rimborsare gli scioperanti per tutto quello che risparmierà in anti-depressivi,
psicologi, psichiatri, assistenti sociali e gestione della "sofferenza".
A fronte della decomposizione della soggettività e alla sua ricomposizione attorno a dei processi di
assoggettamento che potremmo genericamente definire "integristi" (bisogna ricordare che la politica statuale di
"integrazione" gioca anche con la tentazione comunitaria), queste giornate di lotta hanno aperto una molteplicità di
focolai di soggettività. Al di là della eterogeneità, della pluralità e dell'ambiguità delle soggettività che si sono
espresse, si tratta soprattutto di un esperimento di massa di rifiuto delle forme di assoggettamento e di asservimento
del post-fordismo e il primo frammento di processi di soggettivazione autonomi e indipendenti.
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È del tutto ignobile opporre la "sicurezza" ed i "privilegi" dei funzionari alla precarietà dei lavoratori del
privato e dei disoccupati. Poiché i "servizi" non sono, come dicono gli intellettuali del potere (vedi Touraine) ciò
che non è ancora entrato nell'economia mondiale, ma la forma moderna del rapporto di produzione e di
sfruttamento a cui anche quello che si chiama "industria" deve conformarsi.
I "servizi pubblici" sono dei luoghi strategici della nuova organizzazione della produzione post-fordista. I
trasporti assicurano la flessibilità e la mobilità delle merci e della forza-lavoro. Le Telecom sono già l'epicentro
dell'economia dell'informazione che, integrando l'informatica e la produzione culturale, giocherà il ruolo che è stato
dell'automobile durante i "trenta gloriosi". La formazione produce la materia prima dell'economia del XXI secolo. il
sapere. La securité sociale regola la "salute" del corpo sociale da cui dipende la produttività del sistema.
È al cuore della nuova produzione capitalistica che mira questa nuova lotta e non ad un vecchio settore
antieconomico. È per questa ragione che il blocco dei servizi è così efficace, perché rappresenta la tendenza dello
sviluppo del rapporto di capitale e non una organizzazione del lavoro a "bassa produttività".
Contrariamente a quello che pensano i repubblicani e tutta quella sinistra che continua a mantenere
l'identificazione giacobina tra statuale e pubblico, lo Stato non è più ciò che ancora garantisce un "rapporto salariale
fordista" a un proletariato assicurato, né una istituzione che si oppone alla logica del mercato, ma proprio l'attore
principale del processo di ristrutturazione.
È lo Stato che modula e declina la varietà infinita di statuti tra "produzione" e disoccupazione, tra
produzione e formazione, tra sociale ed economia. È lo Stato che amministra gli apparati di produzione di
soggettività. La deregolamentazione richiede, come si può vedere dappertutto nell'economia mondo, una nuova
regolamentazione organizzata dallo Stato. L'opposizione tra Stato e mercato fa parte delle numerose illusioni della
sinistra e del movimento operaio.
La lotta dei funzionari è efficace perché rappresenta la critica delle nuove forme di assoggettamento e di
regolazione della vita e dell'economia.
La vecchia tematica marxiana dell'estinzione dello Stato torna all'ordine del giorno e questo,
paradossalmente, come necessità economica. Lo Stato sarebbe diventato un apparato di anti-produzione e
antieconomico. La riproduzione delle sue funzioni di potere costa troppo cara alla società. La tassazione dei profitti
del capitale e delle entrate finanziarie non tocca per niente i meccanismi di controllo e di organizzazione del
Welfare State.
Bisogna, forse, ridurre i deficits, ma la razionalità economica porterebbe a togliere al processo
amministrativo la sua forma statuale e ridefinirlo come processo democratico dal basso. Non sono le spese sociali
ad essere costose, ma la loro centralizzazione, gerarchizzazione per il controllo e l'assoggettamento.
L'estinzione dello stato diviene una possibilità ragionevole.
Le lotte di queste settimane ci permettono di rifiutare nella pratica l'alternativa tra statuale e privato. Esse
impongono di ridefinire il concetto di "pubblico". Permettono anche di pensare una alternativa tra nazionalismo e
privatizzazione, tra capitalista individuale e capitalista collettivo.
Appropriazione dell'amministrazione: togliere il servizio pubblico alla tutela dello Stato e all'appropriazione privata e ricostruirlo democraticamente dal basso.
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Gli scioperi del 95 sono certamente la prima grande rottura e la più forte opposizione alla costruzione del
modello produttivo e sociale post-fordista in Europa. Per leggerli correttamente propongo di vederli
simultaneamente come una capitalizzazione ed un salto di qualità del ciclo di lotta contro il capitalismo post-
moderno aperto dal movimento degli studenti e dei ferrovieri dell'86.
Perché le lotte delle infermiere, gli scioperi degli operai della Peugeot dell'89, i blocchi dei camionisti, le
mobilizzazioni degli studenti contro il CIP del marzo '94, le lotte sulla casa, la lotte delle intermittenti dello
spettacolo, le mobilizzazioni contro il IVg e le rivolte delle banlieues sono qui socializzate, ricomposte e
radicalizzate tanto per i contenuti che per le forme di lotta e di organizzazione.
Le mobilizzazioni contro il CIP hanno tolto ogni illusione sullo statuto dello "studente" e sull'integrazione
non conflittuale della "formazione" alla società del sapere e dell'informazione.
Le lotte delle infermiere hanno posto il problema dell'appropriazione del corpo e del controllo delle sue
patologie contro il potere medicale e statuale come dell'importanza crescente del lavoro sessuato.
I blocchi della circolazione da parte dei ferrovieri hanno messo in luce le debolezze di un sistema
organizzato attorno alla rotazione accellerata del capitale, delle merci e dell'informazione.
Le lotte delle intermittenti dello spettacolo hanno sollevato insieme il problema dell'integrazione della
cultura nell'economia dell'informazione e quello di uno statuto del salario slegato all'impiego.
Ciascuna di queste lotte, dall'86, è stata un laboratorio di sperimentazione, di democrazia, di gestione
orizzontale dell'organizzazione e dei tempi delle mobilitazioni, con, ogni volta, degli scontri più o meno forti con le
logiche degli apparati.
Contrariamente a quello che vogliono farci credere i politici e i media che, di fronte alle lotte, cercano
disperatamente una forza di mediazione e di integrazione, le coordinazioni sono sparite perché hanno trionfato.
Davanti al rischio di indebolirsi ulteriormente, i sindacati hanno dovuto piegarsi alle forme di
organizzazione orizzontali e democratiche. Essi si sono parzialmente allineati con le forme di organizzazione dei
lavoratori e sono l'oggetto per questo di una "strumentalizzazione" dal basso.
Non è dunque una rilegittimazione dei sindacati ciò a cui si assiste, ma alla costituzione delle nuove
condizioni di organizzazione radicalmente democratiche, antiautoritarie e antistatuali.
Un'ultima nota riguarda il razzismo che ha accompagnato le ristrutturazioni come forma rinnovata di
risentimento. In tre settimane le lotte hanno gettato per uno spostamento del dibattito sull'immigrazione. È ciò che
S.O.S. Racisme, con la sua ideologia dei "diritti dell'uomo", l'appoggio dello Stato socialista e dei media, non era
riuscito a fare.
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Il nuovo soggetto sociale che si è visto costituirsi in un tempo brevissimo è il prodotto di un lungo processo
di ristrutturazione nonché delle forme di resistenza e di auto-organizzazione degli ultimi venti anni.
Questo movimento illustra ciò che si è sempre sostenuto in questo seminario, cioè che la trasformazione
della fabbrica, della classe operaia e del lavoro fordista non ha ridotto la "giornata sociale di lavoro" ma, al
contrario, l'ha allungata, subordinando ogni forma di attività alla logica capitalistica. Gli appelli nostalgici ad una
classe operaia che non gioca più lo stesso ruolo dal punto di vista produttivo e politico non fa che dissimulare le
poste reali dell'attuale movimento.
Un nuovo soggetto produttivo si esprime nelle lotte. Chiamarlo "classe operaia" introdurrebbe confusioni e
malintesi senza fine e non corrisponderebbe assolutamente ai processi di soggettivazione in corso.
L'organizzazione della valorizzazione e dello sfruttamento resta al cuore della società, ma sotto altre
forme e con altre modalità. Essa ingloba i servizi, il sapere, la comunicazione, l'organizzazione della vita nella sua
totalità. Se il lavoro è cambiato al di fuori della fabbrica, è cambiato anche per dei settori "storici" della vecchia
classe operaia (i ferrovieri e i salariati della RATP, per esempio) e per le soggettività che si esprimono.
Se, fino al fordismo, era la fabbrica che captava l'insieme delle relazioni sociali e la loro produttività, oggi la
macchina di cattura capitalista è più astratta e non contiene la fabbrica (radicalmente cambiata) se non come una
articolazione, un congegno di queste forme di "produzione".
Il ruolo giocato nello sciopero da settori quali i trasporti, i servizi pubblici o la scuola non è dovuto
solamente al fatto che i salariati del privato subiscono il ricatto della disoccupazione, ma più in profondità al fatto
che questi settori:
-sono centrali nella socializzazione della valorizzazione del capitale post-fordista;
-bloccano dei segmenti strategici nell'organizzazione del capitalismo post-moderno;
-implicano immediatamente la società e si oppongono di colpo alla bio-politica dello Stato.
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Le nuove dimensioni spazio-temporali delle lotte.
Lo sciopero assume immediatamente la città e il territorio come spazi di organizzazione. Il posto di lavoro è
bloccato per le occupazioni e i picchetti, ma solo come "relais" della diffusione della lotta nella città e sul territorio.
Lo spazio della mobilitazione non è più legato esclusivamente al luogo di lavoro, come nella tradizione dominante
della classe operaia. Generalmente quest'ultima prendeva tutta la sua estensione sociale solo dopo dei passaggi
"politici" di cui lo sciopero generale rappresentava l'esito. In un certo senso i comportamenti e l'intelligenza operaia
dello spazio di organizzazione della valorizzazione sono recuperati da questi movimenti, ma in una dimensione
sociale e territoriale. Se prima le lotte operaie bloccavano un reparto o una parte della catena per far avviare lo
sciopero in fabbrica, oggi i blocchi dei trasporti hanno un effetto che si rovescia sulla città e sui territori. Questa
"conoscenza" pratica del nuovo "ciclo" di "produzione e di sfruttamento" autorizza il suo rovesciamento in una
ricomposizione sociale delle figure proletarie nella città e nel territorio. Le forme delle lotte più significative
(soprattutto nelle regioni), una volta organizzato lo sciopero nei punti strategici della circolazione, sono state ancora
i blocchi delle autostrade e l'affollamento dei centri città.
Ma se c'è una continuità con la storia della classe operaia, ci sono anche delle rotture. La lotta ha ripreso le
forme di mobilitazione degli studenti contro il CIP. La manifestazione dentro la città diventa giustamente il centro
della socializzazione e il motore della ricomposizione. Le lotte contro il CIP hanno prefigurato la forte
mobilizzazione territoriale (nelle grandi, piccole e piccolissime città di provincia) degli scioperi di oggi. La
centralizzazione giacobina dello Stato che obbligava i movimenti di classe a percorrerla specularmente è stata
fortemente scossa da questi scioperi.
Questi scioperi non possono non ricordare, persino per ciò che riguarda il tempo, le mobilitazioni che
hanno caratterizzato la nascita e la costituzione del proletariato. Benjamin cita come gli insorti della Rivoluzione del
1830 tirassero sugli orologi della capitale per fermare il tempo.
La sensazione gradevole e sensuale di "arresto del tempo" e di apertura di altre temporalità ha fluttuato sulla
città per tutto il periodo dello sciopero. La rottura del tempo del capitale, la biforcazione del tempo e la sua
apertura hanno fornito la trama sulla quale nuove produzioni di soggettività sono state ricamate.
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La forma di generalizzazione e di ricomposizione che tende a costituire un tale corpo collettivo ha reso
manifesta l'esteriorità delle organizzazioni politiche tradizionali (sia di sinistra che di destra) alle dinamiche delle
lotte, poiché il problema dell'organizzazione persiste, ma è completamente subordinato ai processi costitutivi del
corpo sociale.
Entro queste lotte, ed esse non fanno che capitalizzare l'esperienza dei movimenti sociali dopo il '68, lo
scontro con lo Stato non è ciò che deve essere raggiunto ma ciò che si dà di primo acchito. Perché lo Stato è al
tempo stesso Stato padrone ed organizzatore del potere sulla vita. La generalizzazione del movimento si pone
dunque in modo diverso e concerne innanzitutto la sua propria costituzione. Come creare dei "congegni" collettivi
di organizzazione e di enunciazione che ricompongano l'etereogeneità e la molteplicità degli attori, dei soggetti e dei
desideri senza appiattirli in una mediazione che non sia che una astrazione?
Come costituire delle forme di organizzazione e di espressione che possano rompere le gerarchizzazioni, le
divisioni e le separazioni che il capitalismo e lo Stato creano continuamente per impedire la costituzione di un tale
corpo collettivo?
Questi movimenti pongono il problema del potere e della politica in modo radicalmente diverso rispetto alla
tradizione dei movimenti operai (almeno alla sua tradizione leninista e a tutte le sue varianti che sopravvivono
ancora come tanti arcaismi del XIX secolo).
Si può finalmente riprendere la concezione marxiana della politica per la quale il ruolo dell'organizzazione
non consiste nel colmare la distanza che separa le lotte dallo Stato, ma nel porre la necessità di un altro principio
costitutivo.
La frattura tra lo Stato, forme di organizzazione politica e società non dipende da un deficit di
comunicazione o di rappresentatività, ma dall'esistenza di due principi costitutivi differenti. E questi due principi
hanno due modi di legittimazione e di esistenza radicalmente opposti. L'uno, ricca molteplicità di elementi
produttivi e di produzioni di soggettività, materia di questo nuovo corpo costituito nella resistenza e
nell'affermazione, si scontra con il principio vuoto della moneta e delle sue forme di assoggettamento. Tra questi
due principi non esiste più ormai alcuna mediazione e soprattutto il "lavoro" che assicurava durante i "trenta
gloriosi" il "patto" tra sindacati, padroni e Stato.
Voi direte che deliro e che mi invento delle cose che non esistono. Io dico: non abbiamo ancora visto niente. Il cambio di secolo non fa che rendere più urgente una critica radicale ed impietosa del capitalismo, dei suoi padroni e del suo Stato. La caduta del Muro non ha fatto che accellerare l'espressione di nuove forme di lotta di classe. Ci ha liberato di questa immagine grottesca, ridicola e repressiva del "comunismo sovietico". Se uno spettro ha lungamente ossessionato l'Europa, dobbiamo oggi fare nostra l'ipotesi di un "corpo pieno" e potente in grado portare a compimento la preistoria dell'umanità e di aprire l'intempestivo della sua costituzione, al di là dell'uomo, dell'operaio e del cittadino.
Parigi, 18 dicembre 1995