[il manifesto] 2 Luglio 1996

Un decreto che inquina ambiente e democrazia

GIANFRANCO AMENDOLA -

LA TUTELA dell'ambiente è una carta di tornasole infallibile per verificare se veramente, al di là delle parole, cambiando i governi e i ministri, è cambiata anche la politica. E così, fra pochi giorni sapremo se il governo Prodi è come quelli di Ciampi, Berlusconi e Dini. Non appena, cioè, perderà di efficacia, per decorrenza dei termini, il decreto legge n.246 del 3 maggio 1996 sui residui. Quel decreto legge - per intendersi - inventato da Ciampi nel lontano novembre 1993, e poi reiterato ben quindici volte, di due mesi in due mesi, con peggioramenti, da Berlusconi e da Dini. Già questo dovrebbe essere più che sufficiente al governo Prodi per lasciarlo finalmente decadere, specie dopo gli ultimi, severi moniti del presidente della repubblica e della Corte costituzionale contro l'abuso di queste reiterazioni in palese disprezzo delle norme della Costituzione.

Ma occorre anche ricordare, andando alla sostanza, che si tratta di un decreto legge il quale ha "ripulito" l'Italia dai rifiuti con il geniale espediente di cambiar loro nome, chiamando "residui" gran parte dei rifiuti industriali, e quindi eliminando o attenuando obblighi e prescrizioni per la loro raccolta ed il loro smaltimento. Del resto, tutto il decreto sembra congegnato apposta per creare confusione e disapplicazione: già il testo è farraginoso ed oscuro, pieno di oscuri richiami ad altre leggi, pieno di regole con eccezioni e sub-eccezioni, divise tra diversi articoli ecc.; in più, esso si sovrappone alla "vecchia" normativa sui rifiuti del 1982, rispetto alla quale non solo usa gli stessi termini (ad esempio "stoccaggio") con una significato diverso, ma introduce addirittura la nuova definizione comunitaria di "rifiuto"; per poi chiarire subito, però, che questo vale solo "ai fini del presente decreto" e solo per introdurre una lunga serie di eccezioni proprio alla disciplina europea. E così, se un rifiuto è quotato in una borsa o può essere in qualche modo riutilizzato (come sempre, è il mercato che conta e il decreto lo sancisce espressamente), cambia nome, diventa un "materiale" o un "residuo" e viene sottratto agli obblighi ed ai controlli previsti per i rifiuti. In questo quadro, si sono quotati in borsa rifiuti pericolosi contro cui combattiamo da anni - quali le ceneri Enel e il caprolattame dell'Enichem - e si è stabilito che tutto, anche il riempimento di una cava, è recupero. Come se non bastasse, con un successivo decreto sui combustibili si è praticamente, consentito di bruciare tutti i rifiuti (e, quindi, di "riutilizzarli") nei cementifici e simili, cui conviene, a questo punto, trasformarsi a tempo pieno in inceneritori.

A questo punto si aggiunga che, se qualcuno volesse fare un controllo, per essere certo di non sbagliare o anche solo per capire quale normativa applicare, dovrebbe consultare una Gazzetta ufficiale di 78 pagine (a corpo piccolo), dove sono specificati i "residui" e i "materiali" (quasi tutti i rifiuti industriali prodotti), quasi sempre con parametri tecnici che richiedono analisi complesse e sofisticate. Il che è impensabile per la stragrande maggioranza delle strutture pubbliche preposte al settore.

Ovviamente, questa normativa è in totale contrasto con le direttive comunitarie. E se qualcuno avesse dubbi, farà bene a leggersi il fascicolo che giace sul tavolo della Corte europea di giustizia, per iniziativa del Pretore di Terni, proprio con riferimento a questi decreti legge sui residui. La Corte infatti, avviando la procedura contro l'Italia, ha chiesto il parere alla Commissione esecutiva e agli Stati membri della Unione europea. La Commissione ha affermato, eliminando ogni equivoco, che "la nozione di 'rifiuto' vigente in Europa non consente affatto che i residui industriali avviati a riutilizzo siano svincolati dai controlli e dagli obblighi previsti per i rifiuti" e che "la nozione di 'residuo' non può avere una rilevanza autonoma rispetto a quella di rifiuto, poiché in caso contrario, il sistema comunitario non potrebbe trovare integrale applicazione sul territorio italiano"; aggiungendo, con esplicito riferimento ai decreti applicativi italiani, che "inertizzazioni", "triturazioni", riempimento di depressioni del terreno e incenerimento con produzione di residui commerciali non sono qualificabili come operazioni destinate al recupero ma, in via di principio, sono operazioni di smaltimento.




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