L'auto-società

Una sinistra "del Nord" che voglia passare dall'immaginario costituito a un immaginario costituente deve chiedersi dov'è il conflitto. E dare risposte a una sinistra "del Sud"

BEPPE CACCIA - DANILO DEL BELLO

I L BUON SUCCESSO di partecipazione alle due giorni veneziana proposta da Agostinelli, Bonomi, Paolo Cacciari, Indovina, Revelli e Sullo conferma appieno la dignità del tentativo di riunire attorno ad un tavolo di discussione "senza rete" diverse anime della sinistra sociale, antagonista e diffusa. L'iniziativa non può essere assolutamente scambiata per una classica "operazione politica" (fuori tempo massimo, esigua e un po' disgustosa), né per un più nobile luogo di ricomposizione politica di queste anime, che può darsi - se mai si darà - solo sul terreno di un nuovo ciclo di lotte sociali. Forse proprio in virtù di questa duplice consapevolezza, il dibattito ha toccato, con toni alti in alcuni momenti, nodi cruciali.

Si potrebbe ironizzare sul "pensiero unico" Revelli-Bonomi, ma resta il fatto che il quadro analitico tracciato dalle due relazioni si è dimostrato finora come l'unica possibilità di aprire percorsi di riflessione, ad ampio raggio, intorno al "salto di paradigma" produttivo-sociale nella presente transizione. Un quadro che si presta, per così dire, ad una lettura sintomatica: sono cioè i suoi vuoti, il suo non-detto a costituire la bussola del lavoro da sviluppare da qui in avanti. I tre nodi gordiani soggetti, organizzazione, conflitto sono altrettanti rompicapo che non possono più essere tenuti ai margini del dibattito. Su quest'ultimo punto, l'intervento di Revelli (pubblicato il 20 scorso) esprime un punto di vista finalmente scevro di ambiguità. Ma che cos'è allora il conflitto, se non l'emersione dispiegata, il protagonismo di una nuova soggettività sociale massificata?

La sostanza del lavoro

Torna con prepotenza uno dei temi che ha echeggiato nel convegno. "Scomporre il diamante" dell'attuale composizione tecnica delle forze di lavoro, riconoscerne la pulviscolare frammentazione, rischia alla fin fine di essere puro esercizio sociologico: una fenomenologia che non riesce ancora a dirci nulla a proposito della composizione politica di classe. Del profilo cioè dei soggetti, possibili protagonisti di un conflitto che abbia carattere direttamente ricompositivo e che sia radicale - una radicalità che non si sostanzia nelle sole forme che le lotte assumono, ma nel porre, al di là di ogni vecchio e nuovo corporativismo o di ogni chiusura particolaristica, la questione di una nuova universalità. E' tempo per iniziare a riprendere, pur nella complessità frattale dello scenario che ci presenta davanti agli occhi, il filo della soggettività come riconoscimento di una sostanza comune a tutte le figure del lavoro vivo, oggi interamente socializzato seppur dal punto di vista della valorizzazione capitalistica. Nella dimensione al tempo stesso dematerializzata (delle reti globali del comando finanziario) e localizzata (delle reti produttive che innervano e sussumono il territorio e le vite), ciò che viene misconosciuto, rimosso, occultato - "da destra e da sinistra" - è il carattere maturo della cooperazione sociale, al di là della frammentazione delle singole figure produttive. In questo senso gli stessi punti dell'"appello dei 35" non sono il risultato di un'arzigogolata alchimia compromissoria tra le diverse tradizioni e percorsi incarnate dai suoi firmatari, quanto l'unico spazio possibile di ricomposizione, qui ed ora in Europa, dei soggetti sociali che sono situati nella trincea della resistenza come nella prospettiva della prefigurazione. Terreno rivendicativo minimo ma tutt'altro che minimalista, di schiacciante minoranza ma nient'affatto minoritario.

Come l'"appello dei 35" anche il convegno veneziano ha scontato tuttavia i limiti di un punto di vista "eurocentrico": che cosa ha da dire questa "sinistra del Nord" (si intenda non solo del Nord Italia, ma del Nord del mondo) a tutti i Sud, vicini e lontani, che con esso convivono nella globalizzazione, come ghetti spesso separati da diaframmi e confini invisibili? La discussione si è rivelata specchio fedele di contraddizioni che non sono solo politiche, ma hanno direttamente a che fare con l'esistenza di ciascuno di noi. Lo stesso si potrebbe affermare a proposito della "schizofrenia" che sembra colpire chi sancisce su un piano astrattamente teorico la fine delle forme organizzative otto-novecentesche del movimento operaio, ma poi continua a militare nei ranghi ipartiti e sindacati. Un'ambiguità che risuonava nelle parole di alcuni intervenuti quando si chiedevano "dov'è la politica?". Siamo qui convinti di non essere destinati, senza via di scampo alcuna, alla "politica del Potere", ma di poter parlare sempre più di una politica dal basso, dal punto di vista dei movimenti presenti e a venire, nell'ottica della ricostruzione di una sfera pubblica caratterizzata da contenuti forti di autonomia e autogoverno sociale.

Su questo fronte non partiamo da zero: davanti agli occhi di tutti c'è la tendenza allo sviluppo di forme, per quanto embrionali, di autorganizzazione sociale. Questo concetto va ora riempito di una valenza non solo negativa (rifiuto della forma-partito e della forma-sindacato in quanto macchine politico-organizzative superate): non tattica quindi, ma allusione attiva a forme nuove di relazione e vita sociale, quelle che definiamo - cercando di connettere il piano del conflitto sull'esistente con quello della prefigurazione - reti di contropoteri.

Una fase costituente

In questa prospettiva non ha futuro chi pensa di passare attraverso queste esperienze per rappresentare o rifondare alcunché. Uno sforzo titanico resta ancora da compiere per rivoluzionare i vecchi paradigmi della sinistra, per sostituire - con Castoriadis - "dall'immaginario costituito un immaginario costituente". A partire dall'affermazione di un antistatalismo che non possiamo assolutamente regalare ai cantori del neoliberismo: ce lo insegna Marcos, non Bossi.

In gioco c'è la possibilità di porre e conquistare collettivamente nuovi diritti universali, che affondino le loro radici proprio in quella singolarizzazione di bisogni e desideri, che abbiamo vissuto fino a questo momento solo come elemento devastante: "la libertà di tutti come condizione del libero sviluppo di ciascuno" e viceversa, ricordate?

Last but not least, ai margini del dibattito una questione nient'affatto marginale: dentro l'"appello dei 35" vivono, trasfigurati ed adeguati all'attuale epoca dello sviluppo capitalistico, i contenuti dei movimenti antagonisti e sovversivi che caratterizzano un altro ciclo storico, quello degli anni Settanta italiani: riduzione dell'orario, salario politico, autovalorizzazione operaia... tematiche e movimenti che furono schiacciati e repressi anche grazie alle scelte di Pci e sindacato. E' forse possibile che, nel momento in cui questi contenuti vengono liberati e trovano finalmente cittadinanza nel dibattito largo della sinistra, centinaia tra i protagonisti di quelle lotte siano ancora incarcerati o costretti all'esilio?

Non si possono liberare le idee, senza liberare anche le donne e gli uomini che le fecero vivere. Questa precisa responsabilità andrebbe fatta propria da quanti stanno intervenendo nel presente dibattito: affinché tutti possano compiutamente riprendere la parola. Nella consapevolezza che, oggi come allora, è solo sul terreno del conflitto che si gioca la possibilità di aprire spazi ulteriori di democrazia e libertà, degne di questo nome.

5 dicembre 1996
Arsenale Sherwood, Padova



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