Mariano Maugeri
Un fortino assediato. Ecco che cos’è la chimica a Marghera. Non passa giorno
senza che l’area dove il conte Volpi di Misurata creò negli anni 30 il polo
industriale nazionale non finisca in prima pagina: gli operai morti per tumore
nell’impianto Cvm, i magistrati che passano a setaccio gli scarichi in mare,
quelli in aria, gli stoccaggi dei materiali di scarto. Indagini infinite, fino
all’ultima notizia di tre mesi fa: i fosfogessi, cioè i residui della lavorazione
dei fertilizzanti, oltre che inquinanti sono anche radioattivi. Inutile negarlo:
Venezia è stanca della chimica. Troppo stanca e spaventata dagli errori del
passato per apprezzare la rivoluzione tecnologia varata da Enichem negli ultimi
anni: un lavoro costato fino a oggi 130 miliardi e per il quale nei prossimi
tre se ne spenderanno altri 360. Una montagna di miliardi che però non ha seppellito
la diffidenza dei veneziani. Ma loro, gli assediati e soprattutto il comandante
in capo dell’esercito Enichem, come la pensano?
Per capirlo basta salire al 14° piano di un palazzo di vetro e cemento che domina
il panorama della periferia est di Milano: lì, a San Donato, c’è un veneto di
Schio a cui tocca il compito di affrancare la chimica veneziana dai misfatti
del passato: Vittorio Mincato, presidente Enichem, è un decano dell’Eni («insieme
con il presidente Guglielmo Moscato ho il record di anzianità: 41 anni», dice
con orgoglio). Fisico scattante, una passione per il jogging e un modo di fare
tutto veneto che si può riassumere nel motto: «Lavora e tasi». Ma tacere, a
differenza che lavorare, qualche eccezione la contempla. Le ossessioni di Mincato
si chiamano Manfredonia e Cengio. Spiega: «Furono errori capitali: come si fa
a ostinarsi nella difesa di un impianto quando il territorio che ti ospita si
rivolta contro? No, se i cittadini non ti vogliono non ce la farai mai. Anche
se prometti che al posto della chimica imbottiglierai acqua minerale».
Non sa fare a meno della schiettezza, Mincato. Anche se un cruccio ce l’ha:
«C’è un paradosso in tutto quello che accade a Venezia. Io capisco l’indignazione
dei cittadini, ma oggi la situazione è completamente cambiata: abbiamo smesso
da un pezzo di inquinare. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. Se qualcuno
lo provasse chiuderemmo gli impianti senza pensarci due volte. Di più: siamo
pronti a comprare tecnologie ancora più pulite, come quella che consente di
sostituire l’impianto di celle a mercurio con quello a membrane per produrre
clorosoda. Ma se ci impediscono di sfornare il Pvc o il Tdi, cioè le produzioni
a valle del cloro, a che servirebbe? Ecco, io vorrei che i veneziani decidessero.
Qualunque sia il verdetto noi ne prenderemmo atto. Sì, accetteremmo anche di
sbaraccare, di chiudere gli impianti, a patto che ci diano quindici anni di
tempo».
Una provocazione, quella del presidente Enichem? «No — risponde — a me non piacciono
le provocazioni. E neppure i ricatti. Certo, in quel caso dovremmo ridisegnare
la chimica italiana: Marghera attraverso una rete di condotte alimenta gli impianti
di Mantova, Ferrara e Ravenna. Ma ripeto: chiudere non un tabù. Lo dico con
l’amarezza di chi è convinto che ormai i problemi del passato non si risolvono
bloccando le produzioni pulite. E soprattutto lo dico da cittadino italiano
e veneto a cui dispiacerebbe assistere al declino di Marghera. Drammatizzo?
No, perché sono consapevole che il Nord-Est può anche permettersi di rimpiazzare
la ricchezza del petrolchimico».
Bonificare le aree, ripulire i processi produttivi e impegnarsi nell’adozione
di tecnologie innovative sarebbe più che sufficiente in qualsiasi area italiana.
Ma Marghera è a qualche chilometro da quel gioiello chiamato Venezia. E forse
l’Enichem dovrebbe andare più in là, magari trasformandosi da accusata in protagonista
nel risanamento della laguna. Fantaeconomia? Mincato non ama i voli pindarici:
«Mi creda — risponde — non si può fare molto di più di quello che stiamo facendo,
compresa la bonifica dei terreni di nostra proprietà ereditati dalla Montedison.
Per carità, è un preciso obbligo giuridico, e non mi aspetto che mi definiscano
magnanimo. Ma Enichem non ha imbrattato Campalto. E nemmeno Pili».
È un modo di giocare in difesa? «Non mi pare. E poi c’è il conto economico:
l’anno scorso abbiamo realizzato profitti per 240 miliardi. E non dimentichi
che usciamo dalla situazione drammatica del ’93, quando su un fatturato di 10mila
miliardi ce n’erano 8.500 di perdite. Mi parla del costo Venezia: è giusto,
e noi lo sopportiamo già. Però non chiedeteci di ricostruire il teatro la Fenice:
non tocca a noi».
La proposta finale? Il presidente non ha dubbi: «Vogliamo un sì o un no. Spero
che dal negoziato sul contratto di programma per Marghera — si veda l’articolo
in alto — arrivi una decisione definitiva. Le premesse ci sono. E poi un messaggio:
non chiedeteci di fabbricare caramelle o materiali avanzati. Sappiamo fare bene
solo la petrolchimica. Quando ci siamo allontanati dal core business è stato
un bagno di sangue. Sono esperienze che non vogliamo ripetere per niente al
mondo, Venezia compresa».
da il sole 24 ore del 29.5.98