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NOTE DI DISCUSSIONE

della rete autonoma dell'autorganizzazione sociale del nordest


pratica teorica e
la contraddizione come metodo


Quando, alcuni anni fa, cominciammo a parlare del "postfordismo" come nuovo paradigma attraverso il quale ridefinire ed innovare la ricerca teorica e la pratica politico-organizzativa, molti ci considerarono alla stregua di pazzi eretici (cosa che rivendichiamo!) o, peggio, vecchi militanti in preda a delirio senile, tardivamente innamoratisi delle mode postmoderniste.

Intanto, in quel quadro di elaborazione, per quanto parziale, contraddittorio, appena abbozzato, abbiamo costruito gli embrioni e sperimentato un nuovo percorso della soggettività antagonista.
La rete autonoma dell'autorganizzazione sociale, il radicamento e la riappropriazione della dimensione territoriale, al di là di ogni localismo o sintesi nazionale artificiosa, il concetto di transterritorialità come molteplicità di reti soggettive organizzate che attraversano e ridefiniscono lo spazio oltre i limiti e i confini imposti dalla geografia del potere ...

Queste, e molte altre, conquiste piccole e grandi, esperienze concrete e progetti sociali che hanno enormemente arricchito la nostra soggettività e pratica politica. In questo senso recuperiamo il concetto di pratica teorica: un concetto sintetico e fortemente espressivo, dai più significati, che ricaviamo - aggiungendovi qualche sfumatura nostra - da quel grande marxista e filosofo che è stato Althusser.

  1. pratica teorica significa innanzittutto riportare sempre e comunque dentro la teoria, il punto di vista dell'antagonismo e della lotta di classe. Non vi può essere "pura teoria", slegata dalle dinamiche materiali della lotta, del conflitto, della prassi trasformativa e sovversiva.

  2. lo sviluppo della teoria non è mai univoco nè lineare: solo la pratica, i risultati dell'azione politica, l'efficacia delle forme organizzative sono criterio di validità delle ipotesi teoriche.

  3. se la teoria serve ad illuminare una pratica sociale conseguente, nel contempo essa è costantemente ridefinita, trasformata, rimodellata dagli effetti che la stessa pratica produce.

  4. contro ogni pensiero lineare, monocausale ed onnicomprensivo, ribadiamo l'assunto della contraddizione come metodo: ciò significa non assolutizzare, fossilizzare, codificare alcun assetto, nessuna soglia conquistata. Non si tratta nè di dubbio scettico nè di relativismo, bensì di afferrare con forza, di "far presa", di appropriarci di una realtà in continuo divenire e trasformazione.

Potremmo così riassumere questo concetto:
per uscire dalle difficoltà, i rompicapo, a volte i paradossi, che il mutamento di paradigma impone alla soggettività antagonista, è necessaria una continua produzione teorico-pratica, aperta e sperimentale, sempre rinnovata, che sappia coniugare lo "spirito della frontiera" e dell'innovazione con la forza e le responsabilità della militanza.


i luoghi comuni
del postfordismo


Ormai alcune delle categorie individuate per descrivere le trasformazioni di questo finesecolo sembrano essere diventate quasi delle ovvietà. Cerchiamo di riassumere per punti quelle che ci sembrano più rilevanti.

  1. le trasformazioni del modello produttivo, dell'organizzazione sociale del lavoro, le modalità dello sfruttamento su scala planetaria nel quadro del concetto marxiano di "sussunzione reale" dell'intera società al capitale, la nuova qualità del lavoro vivo, flessibilità e mobilità della forza-lavoro.

  2. la globalizzazione economica e l'intreccio delle reti produttive nel mercato mondiale. Il comando a livello internazionale sui flussi della forza-lavoro e la "nuova divisione internazionale del lavoro: "aree forti e aree deboli", rapporto nord-sud, segmentazione e gerarchizzazione nella produzione e nella distribuzione della ricchezza. Le "gabbie" salariali e sociali. Il rapporto tra globale e locale nell'economia-mondo. La conseguente crisi dello Stato-nazione e la ridefinizione della forma-Stato.

  3. fine del vecchio patto fordista tra capitale e lavoro. Esaurimento del modello di Welfare State fin qui conosciuto, inteso come mediazione capitalistica del conflitto di classe. Crisi dei grandi istituti (partiti e sindacati) della contrattazione collettiva e delle rappresentanza operaia.

  4. perdita di centralità della fabbrica fordista-taylorista che diventa progressivamente una parte sempre meno rilevante, in via d'estinzione, reperto archeologico rispetto allo sviluppo della fabbrica diffusa e della produzione sociale in rete.

Sentiamo già l'"artiglieria pesante" dei rifondaroli di ogni risma puntarsi contro di noi: ma checcazzo dite?! Negate forse l'esistenza della fabbrica e della classe operaia
Non è questo il punto: certo, fabbriche ed operai di fabbrica continuano ad esistere, eccome! Ma qui stiamo parlando di altro: dobbiamo collocarci sul terreno di una tendenza che è già realtà, che modifica strutturalmente il modello produttivo, il lavoro, il suo rapporto con il tempo e lo spazio, la vita e i bisogni sociali.
La perdita di centralità della classe operaia di fabbrica non significa scomparsa della contraddizione tra capitale e lavoro, bensì la sua massima estensione e dislocazione lungo l'intero arco della riproduzione sociale, in ogni ambito della vita collettiva.

Contro l'economicismo da Seconda e Terza Internazionale, un pensiero rivoluzionario all'altezza delle contraddizioni di questa epoca non può che essere bio-politico, poichè deve misurarsi immediatamente con le modalità attraverso cui gli uomini riproducono la propria vita e gestiscono il proprio tempo.

Comprendere la tendenza per invertirne la direzione di marcia, nel senso della liberazione, è questo da sempre il problema che si pone la sovversione sociale ...


rottura della dialettica
materialismo e pessimismo


I punti toccati sono ovviamente da approfondire. Ma ci interessa ora aprire la riflessione su alcuni nodi di grande importanza...

1. la rottura della dialettica:

si tratta di una problematica estremamente complessa, poichè pone quesiti di carattere non solo teorico-politico-pratico, ma anche filosofico in senso più generale.

In primo luogo, parliamo della rottura di una particolare dialettica, storicamente determinata, tra capitale e forza-lavoro, come logica della mediazione, del superamento della contraddizione di classe in una sintesi superiore. In altri termini si tratta della rottura della dialettica tra lotte operaie e sviluppo capitalistico ("La macchina corre là dove c'è lo sciopero" K. Marx), della sequenza lineare lotte-crisi-ristrutturazione, ancora lotte-crisi-eccetera in un "cattivo infinito". Nella sussunzione reale il capitale si pone come sostanza univoca nella trama del mondo, come fondamento assoluto, come unico soggetto, come totalità autoreferenziale. Quale dialettica può esserci, se non vi è il riconoscimento dell'altro termine della contraddizione?

Non è un caso che, sempre di più, gli apologeti del neocapitalismo parlino di fine della storia, di impossibilità di creare qualsiasi alternativa rispetto all'ordine esistente. La rottura della dialettica porta con sè, come rottami delle vecchie ideologie storicistiche, idealiste o anche "socialiste", il crollo dell'idea di "progresso", di sviluppo illimitato delle forze produttive, dell'affermazione inesorabile della Ragione nella Storia. E così crolla anche la concezione del tempo storico come tempo lineare, omogeneo e vuoto.

Al contrario, la stessa complessità sociale ci restituisce un'immagine del tempo come discontinuità, come intreccio di temporalità differenti, come salto e come rottura. Le "regioni" della storia non formano un continente compatto: si aprono su vortici ed abissi, slittamenti e smottamenti, con improvvisi ritorni indietro e/o salti in avanti. Le possibilità di comunismo e liberazione coesistono col massimo di barbarie, distruzione e morte.

2. un problema strategico:

le considerazioni fin qui sviluppate, pongono dei veri e propri rompicapi teorico-pratici di difficile soluzione.

In fasi precedenti ci sono state perlomeno due teorie significative sul rapporto tra lotta di classe, rivoluzione e potere di Stato e capitale.

La prima riguarda la presa del potere politico come condizione per poi, successivamente trasformare i rapporti sociali di produzione. È la formula "giacobina" che tanto successo ha avuto nella Terza Internazionale ed oltre, la teoria degli "stadi", dei "due tempi" della rivoluzione, delle "fasi" di transizione.

La seconda riguarda la teoria del "contropotere", un dualismo che cresce e si sviluppa fino ad esautorare progressivamente e far estinguere le forme del comando capitalistico sul processo della riproduzione sociale.

Ambedue queste figure, per quanto la seconda si collochi sicuramente su di un piano innovativo rispetto alla tradizione del Movimento Operaio, risentono pesantemente dello schema dialettico: i tempi ed i modi dell'organizzazione di classe sono ricalcati, seppur in negativo, sulle forme del dominio. Una logica antitetica, ma speculare, una "prigione dialettica" appunto, un'alternativa che spesso si è rivelata simulazione, perdendo di vista la sua differenza strutturale e qualitativa. Ma tutto questo fa parte della storia...

Nella fase attuale, la rottura della dialettica porta inevitabilmente ad una logica di separazione tra i soggetti della contraddizione. Ma - a parte il carattere tuttora utopico di una cooperazione e costituzione separata, fondata positivamente su se stessa e non speculare alle forma del dominio - possiamo immaginare una separazione senza rottura, senza antagonismo, senza "guerra civile"?

Crediamo di no.

D'altra parte, una rete di contropoteri diffusi - espressione che ci sembra più adeguata di quella di "contropotere" in virtù delle trasformazioni di cui sopra - non si pone forse ancora come relazione, per quanto conflittuale, come figura ancora dialettica, come riconoscimento reciproco delle due parti in lotta?

Anche questo è inevitabile nella concretezza della lotta di classe.

Ma allora, è forse impossibile uscire da questo rompicapo ?
Non abbiamo una soluzione bell'e pronta, ma è già importante aver individuato il problema.

Tra contropoteri diffusi e separatezza costitutiva, qui si innervano i problemi, lo spazio strategico, le tensioni, la possibilità di ragionare di nuovo, con forza e passione, su un progetto radicale di trasformazione dell'esistente. Forse, possiamo tentare di percorrere una strada nuova che riesca a coniugare rete dei contropoteri diffusi e tendenziale separatezza, nella forma di una costituzione altra.

3. materialismo, pessimismo e azione politica:

come sempre, di fronte a grandi trasformazioni epocali, il crollo di certezze e punti di riferimento, il precipitare del vecchio ordine nel caos, nasce il bisogno di una riflessione più alta, quasi filosofica, sul nostro "essere nel mondo". La figura filosofica più adeguata ad esprimere la nostra "visione del mondo" in questa fase è quella del pessimismo: uno sguardo d'insieme sul mondo, dalle metropoli alle periferie, da Nord a Sud, ci rimanda continuamente tragici scenari di barbarie, di distruzione, cumuli di rovine e macerie. Una sorta di bellum omnium contra omnes di hobbesiana memoria, elevato a massima potenza, trasferito sul piano della modernità e della sussunzione reale.

In Marx il passaggio alla "sussunzione reale" era visto in maniera lineare, come passaggio alla prima fase di una società nuova, il comunismo, che da quella base materiale avrebbe costruito positivamente nel tempo la comunità reale, la liberazione e felicità collettiva della società umana. Questo schema lineare è saltato: siamo nel pieno della sussunzione reale, ma non riusciamo ad intravedere, a fronte delle trasformazioni nel modello produttivo, nessuna soggettività di massa che voglia e desideri con forza costruire un nuovo processo di liberazione sociale.

Sia chiaro: questo nostro "pessimismo" è storico e relativo; non significa, nel modo più assoluto, rinuncia, rassegnazione, impotenza! Al contrario: proprio in virtù di questo sfondo materiale che accompagna la nostra vicenda storica, l'azione politica concreta, le piccole trasformazioni che riusciamo a produrre, gli spazi strappati al dominio, per l'autodeterminazione e la libertà collettiva, acquistano valore ancora più grande.
Il pessimismo non toglie nulla, semmai arricchisce il nostro punto di vista, spinge all'azione politica e alla prassi trasformativa, senza più i veli dell'ideologia, con una maggiore consapevolezza della contingenza, finitudine, miseria e dolore della condizione umana. Per fondare un senso etico più profondo di responsabilità e militanza!

Nel materialismo antico e moderno - compreso quello rivoluzionario - è sempre presente una vena pessimistica, più o meno esplicita: non potrebbe essere altrimenti, si parla infatti non del mondo delle idee, ma della condizione degli uomini - le loro passioni, lotte, desideri, egoismi - e del loro rapporto con le forze della natura, le sue leggi, la sua necessità. Da Epicuro e Lucrezio a Spinoza la potenza selvaggia della natura, dell'essere fiorisce in un'infinita varietà di modi, combinazioni, forme di vita. Così in Marx, la potenza creativa e trasformativa del lavoro vivo e della cooperazione sociale.

Ma questo sentimento di potenza e di libertà, quest'ansia di liberazione si fonde sempre con l'angoscia per la condizione umana, con un drammatico pessimismo. Questa ambivalenza presente nel materialismo rappresenta il miglior antidoto ad ogni concezione finalistica della storia, secondo la quale la catena di cause ed effetti, il susseguirsi degli eventi risponderebbe ad un piano prestabilito.

Riassumendo:

  1. la rottura della dialettica e del "meccanismo" lotte-crisi-sviluppo comporta una problematica nuova e di difficile soluzione.

  2. mancano, nello scenario attuale a parte alcune inattese esplosioni, lotte di massa significative che alludano ad un processo di liberazione.

  3. non emerge per il momento, dal punto di vista antagonistico, quell'intelligenza sociale diffusa del lavoro vivo, che potrebbe essere il soggetto costituente di una nuova dimensione societaria (e quando emerge, non è sicuramente dalla nostra parte).

  4. attingendo alle fonti del materialismo e del pessimismo critico, possiamo ridare un senso alla nostra azione politica, senza l'ansia dell'assoluto, della società perfetta, della felicità realizzata: senza illusioni ideologiche e nostalgia per le "grandi narrazioni".


Eppure...


possiamo individuare un passaggio strategico: dalla necessaria resistenza alla rete di contropoteri diffusi che si distendano sulla complessità del sociale. La separazione antagonistica e, nel contempo, i primi meccanismi autonomi di organizzazione comunitaria, di costituzione altra. Non è ancora nulla: ma ci sembra l'unico quadro interessante e possibile nel quale iniziare la ricerca e la sperimentazione pratica.

A questo proposito, crediamo sia importante introdurre ed approfondire un concetto: la nostra forza costituente (per quanto limitata essa sia), la capacità di fondare e produrre nuova società collettiva, deve misurarsi fin da subito nella creazione di organismi sociali complessi


organismi sociali complessi


"Poichè, infatti, poter essere è potenza, ne segue che, quanto maggiore è la realtà che spetta alla natura di una cosa, tanto più forza ha essa per esistere..." SPINOZA

Organismi cioè, concepiti come vere e proprie cellule sociali viventi, che hanno in sè la propria complessità e complessività, senza per questo voler essere o rappresentare il tutto.

"Nel microcosmo si riflette il macrocosmo" come sosteneva N. Cusano; nell'infinitamente piccolo si ritrova la stessa complessità dell'infinitamente grande, come nelle teorie della fisica contemporanea: nelle "cellule sociali", fondate positivamente sulla propria forza, attitudine alla coooperazione, articolazione interna di strutture, sperimentazione di democrazia diretta, costruzione di comunità, si afferma già un principio complessivo.

In questo senso, il punto di vista "generale" non è più una mera sommatoria meccanica di parti, nè astratta sintesi "nazionale", nè tantomeno la riedizione di una qualsivoglia "volontà generale".

Contro qualsiasi trascendenza del momento politico, lo sviluppo degli organismi sociali complessi ci ridona un piano di totale immanenza e orizzontalità, processo costituente sempre riaperto, innervato dalle reti sociali radicate nel territorio, in rapporto di continua comunicazione, sinergia e reciproco potenziamento.


Le note che precedono sono introduttive alla giornata di discussione seminariale della rete autonoma dell'autorganizzazione sociale del nordest.


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