Marce europee contro la disoccupazione, il precariato, l'esclusione sociale

TUTTI AD AMSTERDAM IL 14 GIUGNO PER:

Un vastissimo arcipelago di organizzazioni sindacali di base dei lavoratori, collettivi e associazioni di disoccupati e precari, forze politiche e sociali ha convocato per Sabato 14 giugno ad Amsterdam, a conclusione di due mesi di iniziative svoltesi in tutti i paesi europei, una grande manifestazione transnazionale in occasione della Conferenza intergovernativa in cui i potenti del nostro Continente discuteranno la riscrittura del trattato di Maastricht.

Sappiamo bene che cosa possiamo aspettarci da questo vertice: il processo di integrazione economica e politica dell'Europa è oggi in mano alle èlites politico-finanziarie, alle Banche centrali, alle grandi imprese; i parametri fissati per l'adesione di ogni singolo paese alla "moneta unica" definiscono una gabbia d'acciaio di compatibilità che orientano direttamente le politiche economiche e sociali sul terreno del più drastico neoliberismo.

Non di meno, all'interno dei processi di globalizzazione dei mercati, l'Europa è oggi il polo capitalistico sottoposto a maggiori spinte e tensioni. Profonde contraddizioni sociali sono aperte e approfondite dal tentativo delle oligarchie finanziarie e politiche di governare la transizione dal modello produttivo fordista a quello postfordista. Le lotte sociali, quale che ne sia il segno - "resistenziale" o "innovativo" - (dallo sciopero metropolitano del Dicembre '95 in Francia, al conflitto opposto dagli operai Renault di Vilvoorde ai processi di delocalizzazione, dalle lotte dei "sans papier" alle grandi mobilitazioni contro i tagli alla spesa sociale in Germania), impattano immediatamente scelte politiche globali. I conflitti e i movimenti che si affacciano sulla scena continentale, potranno risultare anche parzialmente vincenti, solo nella misura in cui riusciranno a connettere un profondo radicamento nella dimensione "locale" (ovvero nella specifica realtà produttiva e sociale che i processi di differenziazione e gerarchizzazione del "globale" inducono) con la proposta di obbiettivi che assumano le sovradeterminazioni politiche europee come loro orizzonte, entrando in comunicazione con realtà ed esperienze sociali autorganizzate di tutto il Continente. Ecco perché la giornata di Amsterdam, al di là dell'occasione, assume un'ulteriore, particolare significato: perché il prima-durante-dopo di questa scadenza rappresenta il banco di prova, il primo terreno di sperimentazione di un'altra possibile pratica politica, radicale e dal basso, che assuma come proprio il terreno europeo. Su questo punto il dibattito italiano sconta un forte ritardo e alcune preclusioni dal carattere spesso "ideologico"...

"L'asino di Buridano..."

Chi non conosce il celebre paradosso filosofico che suona pressapoco così: "posto tra due balle di fieno eguali, l'asino muore di fame perché non sa quale scegliere e da dove iniziare"?

In Italia il dibattito attuale su questioni strategiche quali reddito-lavoro-occupazione, che coinvolge ampi settori della sinistra, sembra spesso la fiera degli asini di Buridano!

Tutti fanno a gara nel contrapporre tra di loro vari singoli aspetti della contraddizione principale, sviluppo della produttività - diminuzione della forza lavoro occupata, invece di ricercare e sperimentare proposte, progetti, soluzioni complessive della contraddizione in quanto tale.

Così, il "lavoro minimo garantito" viene contrapposto al reddito garantito, la piena occupazione all'occupazione flessibile, il vecchio Stato sociale-nazionale alle nuove possibili forme di cooperazione e solidarietà dal basso, territoriali e transterritoriali; la resistenza delle "nicchie" di operaio-massa di fabbrica descritta come alternativa alle nuove forme del lavoro sociale post-fordista.

Se non si lavora, non è possibile accedere al reddito - ci viene ripetuto fino alla nausea. Per ottenere e giustificare l'erogazione di forme di reddito, sembra che esse debbano essere per forza legate all'invenzione di attività lavorative assolutamente inutili o fittizie ... Se si difendono gli interessi dei "garantiti" bisogna andare contro ai "non garantiti" e viceversa ... Insomma, nel dibattito italiano vengono riproposte coppie di dualismi, di opposizioni speculari l'una all'altra, che si neutralizzano reciprocamente. Unico risultato: niente o quasi! Nessuna forma di conflitto massificato si materializza e rende visibile su terreno del lavoro/non-lavoro/reddito e l'asino muore di fame!

Ma quale sinistra?

È sorprendente come, attorno ad uno dei nodi fondamentali della modernità, arrivato rapidamente alla resa dei conti, ovvero il rapporto tra innovazione tecnologica, aumento della produttività e della ricchezza sociale e corrispondente diminuizione del lavoro necessario per produrla, si stia muovendo molto poco sul piano dei contenuti, dell'azione politica, della riflessione teorica ed iniziativa pratica.

Lo stallo in cui si trova questa problematica nel nostro paese, non è dovuto solo all'assenza o all'attuale pochezza dell'antagonismo radicale e del conflitto di classe. Ci sono radici culturali profonde, nella storia e nella tradizione della sinistra nel suo complesso, difficili da spezzare: l'etica del lavoro, protestante o cattocomunista, la mitologia lavorista, incisa nelle coscienze quasi con la stessa forza di una religione, di una teologia, di una credenza.

Il movimento socialista e/o comunista ufficiale non è mai uscito dall'orizzonte del "Lavoro": questo lavoro, il lavoro nella società del capitale, il lavoro salariato o sfruttato! Il lavoro come valore assoluto, fonte di tutti gli altri valori, sociali, culturali, politici ed umani; l'emancipazione del lavoro (non la liberazione dal lavoro salariato) come condizione di ogni altra emancipazione; il "popolo dei produttori", la "società dei lavoratori", lo "Stato del lavoro" eccetera eccetera.

Socialismo di Stato ed etica protestante del lavoro camminano di pari passo: Lassalle, tra i primi, ne rappresentò la sintesi - Marx, per primo, distrusse con le armi della critica ogni "programma di Gotha" per tutti i tempi a venire!

Solo l' "altro movimento operaio", quello che non ha mai trovato cittadinanza nella storia ufficiale, rimosso per la sua radicalità, emarginato per le istanze di liberazione, di organizzazione autonoma, di fondazione di socialità e comunità alternative, ha espresso in varie fasi e periodi storici, una critica radicale teorico-pratica,al lavoro salariato, alla forma merce, al valore di scambio, al mercato capitalistico, all'ideologia produttivistica. Se vogliamo trovare tracce e spunti interessanti ancor oggi, che prefigurino ed anticipino le problematiche su reddito/lavoro in tutta la loro complessità, dobbiamo forse interrogare il pensiero eretico e le lotte degli anni Sessanta, il '68/'77. Invano cercheremo qualcosa degno di nota nei miti gramsciani, togliattiani, berlingueriani, e tantomeno tra gli eredi dello stalinismo e i nostalgici del "socialismo reale".

Certo è che le incrostazioni e le rigidità che permangono all'interno della cultura di sinistra, genericamente intesa, rappresentano un freno e uno ostacolo oggettivo per affondare, con spirito nuovo e passione rivoluzionaria, le trasformazioni radicali dello stesso concetto di lavoro/del tempo/ della vita.

Dalla società del lavoro, alla società del non lavoro ovvero... un po' meno di nazional-popolare, un po' più di marxismo critico! Con Marx oltre Marx

A ben vedere, la contraddizione strutturale, lo spettro che si aggira inquieto nel mondo, ovvero la crescita irreversibile dell'area del non-lavoro (non inteso come disoccupazione totale, in senso classico, ma come lavoro flessibile, precario, intermittente) sulla base dello stesso sviluppo della macchina produttiva capitalistica, è un processo che già Marx aveva individuato con grande precisione. La stessa dinamica del "plusvalore realtivo", cioè la riduzione del lavoro necessario per aumentare il plusvalore estorto all'interno dei limiti della giornata lavorativa, crea un crescente aumento della produttività: si produce di più in meno tempo, con meno forza-lavoro impiegata.

Oltre che diminuire il valore delle merci, tra cui quello della stessa merce-lavoro, questo processo rende sempre più superflue ampie quote di lavoro operaio.

"Un sistema automatico di macchine", da una parte; dall'altra, un aumento ristretto di "sorveglianti, addetti al controllo e alla manutenzione, non più direttamente inseriti nel processo produttivo ma a fianco di esso...": in questo si risolve, marxianamente, il modo di produzione capitalistico, creando, nello stesso tempo, i presupposti per un'altra società, una fase più alta ed evoluta dello sviluppo umano, storico e sociale. Quanta ingenuità, linearità, ideologia illuministica in questa visione di Marx! Eppure, quanti frammmenti di verità, pur tormentati e contraddittori, nel "Frammento sulle macchine", possiamo trovare ancora oggi!

L'innovazione tecnologica, l'applicazione della scienza (la principale delle forze produttive, secondo Marx) al processo produttivo rendono possibile, per la prima volta nella storia, liberare tempo di vita dalla necessità ed obbligo al lavoro comandato.

Sotto il dominio capitalistico, queste potenzialità di liberazione si traducono in nuova miseria, sofferenza, oppressione, sfruttamento su scala planetaria, per la maggioranza dell'umanità. La liberazione di tempo, la fuoriuscita dai processi produttivi, è posta come penuria, povertà, crisi, catastrofe ... non come possibilità di fondare un mondo nuovo, più giusto e più libero, come presupposto per l'appropriazione collettiva non tanto del "potere" ma della potenza, dello sviluppo di tutti e di ciascuno, della ricchezza e della libertà, della pienezza di vita.

La crisi della società salariale e dei suoi meccanismi di regolazione e rappresentanza politica, è anche crisi culturale...

Dentro i processi delineati, crolla l'identità sociale e politica che sul lavoro operaio e salariato, sull'operaio massa della fabbrica fordista-taylorista e le sue lotte si era andata formando, dalle forme di rappresentanza politica e sindacale allo Stato sociale ... Crollano certezze, abitudini, comportamenti, credenze talmente radicate da sembrare di per sè evidenti, quasi naturali. Per lungo tempo la crisi della società del lavoro così come è venuta storicamente a determinarsi, porta con sè la necessità di una "rivoluzione copernicana" del rapporto lavoro-reddito. In una società dove il lavoro medio socialmente necessario tende a diminuire sempre di più (Il che non significa, si badi bene, dal punto di vista del dominio capitalistico, diminuzione dello sfruttamento; al contrario, sua massima estensione ed estrazione di plusvalore in ogni ambito delle attività sociali, produttive e riproduttive) è evidente che la piena occupazione, il posto di lavoro fisso che dura tutta una vita non possono più rappresentare l'unica ed esclusiva possibilità per ottenere un reddito e una identità sociale e politica. Sempre più, in una nuova costituzione ideale e immaginaria, ma che già da subito puo' e deve vivere nelle lotte, nell'antagonismo, nel conflitto, al primo posto non può più essere messo il diritto al lavoro, bensì il diritto al benessere, all'esistenza, alla vita, alla felicità per tutti! Così come era scritto nelle costituzioni rivoluzionarie all'origine della modernità!

Verso un nuovo "contratto sociale" ed una democrazia radicale, non rappresentativa né delegata!

Già da tempo il compromesso fordista, il patto tra lavoro e capitale che ne stava a fondamento - ovvero il circolo virtuoso tra produttività, salari e redistribuzione dei redditi, consumi di massa, ruolo dello Stato e della spesa pubblica, piene occupazione - è strutturalmente, irreversibilmente in crisi. Sempre di più svanisce dall'orizzonte storico la stessa cornice geo-politica dentro cui questi processi si sono determinati: lo Stato-nazione, strumento ormai inadeguato di fronte ai simultanei processi di globalizzazione economica e nuove localizzazioni produttive. Le stesse difficoltà nel ridisegnare dal punto di vista del potere, il ruolo dello Stato postfordista e post-keynesiano nel governo dei nuovi processi produttivi, sono il segno inequivocabile delle radicali trasformazioni sul terreno del lavoro e della riproduzione sociale.

I vecchi paradigmi sono sostituiti dai nuovi: flessibilità, mobilità, lavoro intermittente, intreccio di tempo di lavoro e non-lavoro all'interno dei medesimi soggetti, part time, lavori servili ... organizzazione modulare della forza-lavoro sociale, in grado di essere piegata, in tempo reale, alle mutevoli esigenze del mercato.

In realtà si tratta di una enorme mobilitazione di energie produttive del lavoro vivo, di un allungamento in senso assoluto del tempo di lavoro sociale, anche se il lavoro salariato in senso classico tende - qui nel Nord del pianeta - ad un drastico ridimensionamento e diminuisce il tempo di lavoro socialmente necessario per produrre. è una contraddizione enorme, un paradosso, un vero e proprio enigma: perchè questa grande potenzialità di liberazione umana dalla schiavitù salariale, una soglia così sottile da varcare per garantire a tutti i membri del consorzio umano di vivere godendo dell'immensa ricchezza prodotta, si trasforma al contrario nella più grande diseguaglianza e ingiustizia, in ricchezza, felicità, garanzie, diritti per pochi; sofferenza, povertà, discriminazioni, sfruttamento bestiale per la maggioranza dell'umanità ?

La mancanza di reddito, di possibilità di vita, la condizione esistenziale e sociale degna dei peggiori gironi infernali, attraversano le megalopoli dell'Asia, le bidonville dell'America Latina, territori sconfinati dell'Africa, ma anche all'interno stesso delle metropoli del Nord o delle città del ricco Occidente, tra cittadelle fortificate e quartieri ghetto... una realtà sempre più segmentata, divisa dalle barriere della discriminazione sociale, di razza, di classe, dove si allarga la forbice tra ricchezza e povertà, tra un nucleo sempre più ristretto di garantiti e una massa enorme di non-garantiti, privi di diritti. In questo scenario, dove regna il caos, i conflitti assumono la figura della "guerra di tutti contro tutti", di razza, etnia, religione, non certo le caratteristiche della liberazione, della costruzione di una nuova società!

Proprio per questi motivi, oggi il problema della redistribuzione del reddito diventa centrale, l'unica condizione possibile per cominciare, se non altro, a riparlare di un nuovo "contratto sociale", per impedire lo scivolamento, l'implosione dell'intera società verso una nuova era di barbarie, un nuovo medioevo post-industriale. L'approccio non puo' dunque che essere "globale", ai livelli più alti della contraddizione: per noi significa, come minimo, partire dalla dimensione europea.

Redistribuzione del reddito e un concetto di reddito sganciato dal lavoro, dunque, come primo atto e presa di coscienza della crisi della "società del lavoro" e della transizione in atto. Il "reddito sociale di cittadinanza", un fondo di ricchezza, non solo in senso monetario, ma come pacchetto di beni, servizi, valori d'uso garantiti ad ogni membro della società, come proprio diritto fondamentale, è oggi una possibilità concreta, materiale, non più utopica. Possibile proprio per lo straordinario incremento della ricchezza dovuto alla crescita della produttività: perchè questo "guadagno di produttività" non dovrebbe essere redistribuito tra tutti coloro che, in forme diverse, concorrono alla cooperazione sociale ? Come già notava Marx, la risultante del lavoro combinato, associato di dieci operai non è identico alla somma aritmetica delle loro singole forze-lavoro, ma è qualcosa in più, qualitativamente superiore, una potenza, una forza sociale derivata dalla cooperazione.

Perchè questo "qualcosa in più", questa potenza della cooperazione non viene riconosciuta per garantire a tutti una migliore qualità della vita ?

Perchè le spese per salute, istruzione, abitazioni, la crescita culturale dovrebbero essere considerate "faux frais de production" e non, al contrario, le condizioni sociali imprescindibili che rendono possibile qualsiasi attività produttiva e qualsiasi ulteriore sviluppo della società nel suo complesso ? Che cosa viene prima, l'interesse dell'economia capitalistica, dello scambio, del mercato o quello della collettività, della politica, della comunità dei cittadini ?

La problematica del reddito, dunque, è estremamente complessa, a più facce e dimensioni: non può essere ridotta e appiattita ad un puro assegno monetario di sussistenza... a molti sembra una bestialità, un'eresia aprire una concezione di sganciamento del reddito dal lavoro: ma come - ci dicono - volete andare contro le sacre e inviolabili leggi dell'economia politica ? Come è possibile violare la legge del valore e il tempo di lavoro come misura di ciò che ad ognuno spetta in termini di quota della ricchezza prodotta ? Insomma, più volgarmente, il ritornello capitalistico, socialista, socialdemocratico che recita: "chi non lavora, non mangia", non ha alcun diritto, non è un uomo, tantomeno un cittadino!

Vorremmo ricordare, solo ricordare, che ci sono stati e continuano ad esserci concreti esempi di reddito sganciato dal lavoro: la cassa integrazione, per esempio, si è trasformata per molti da strumento "temporaneo" in condizione permanente; i vari sussidi di disoccupazione, erogati in varie forme più o meno indirette; ricordiamo inoltre che, quando il conflitto di classe era molto alto e il contropotere operaio forte, il salario era diventato una "variabile indipendente", dunque una forma di reddito sganciato dalla produttività capitalistica. In questo senso la lotta è sempre la forma più produttiva per i lavoratori e più improduttiva per i padroni! Lo stesso smisurato allargamento della "spesa sociale" che altro rappresentava se non una quota di ricchezza maggiore che lo Stato del capitale nella sua versione welfarista è costretto a redistribuire sotto la pressione e le rivendicazioni della lotta di classe; una forma di "reddito sociale" o "salario politico" in cambio della garanzie di "pace sociale" ?

Insomma, noi abbiamo già visto operanti forme di reddito sganciate dal lavoro, in base a dei rapporti di forza e dell'antagonismo radicale: segno che non si tratta di un problema di "razionalità economica" ma eminentemente politico e di potere.

Se analizziamo da vicino molte tra le forme di reddito sganciato dal lavoro che, per svariati motivi, sono state erogate, vediamo con chiarezza un altro punto: esse rimandano comunque, in maniera ipocrita e mistificante, all' "ideologia del lavoro" ed alla legittimazione dello Stato, centralizzato e burocratico, all'insuperabilità dell'orizzonte statalista.

Vediamo come questo doppio legame, Stato-Lavoro, in termini diversi e opposti, sia anche il leit-motiv dell'attuale dibattito / contrapposizione tra neo-liberisti e social-statalisti:

  1. nella logica neo-liberista il "minimo vitale" - anche nella visione del profeta monetarista Milton Friedman dell' imposta negativa - non è altro che una pelosa carità istituzionale. Lo scopo evidente è, da una parte, quello di smantellare il sistema dell'assistenza pubblica e scaricare il più possibile i costi della riproduzione sociale; dall'altra, di incentivare e costringere all'accettazione di lavori e lavoretti, i più schifosi e di merda, dove regnano lo sfruttamento e la deregulation più selvaggia, per arrotondare la miseria dell' "assegno minimo", assolutamente insufficiente a vivere dignitosamente. In questa versione, il reddito separato dal lavoro si presenta come un'ipotesi nettamente regressiva: non fa altro in realtà che mascherare un rapporto con le forme più selvagge di sfruttamento e legittimare la distruzione di qualsiasi responsabilità pubblica e collettiva per la solidarietà sociale. (Assomiglia molto a quanto accadde nella fase dell'accumulazione originaria, con le Poor laws, il loro rapporto con le Enclosures, ovvero la recinzione delle terre comuni, e con la creazione delle Work houses);
  2. nella concezione social-statalista / neo-keynesiana, il legame tra reddito e lavoro viene mantenuto in maniera fittizia: si invocano i "lavori socialmente utili" come riempimento e compensazione per quanti sono stati espulsi dal processo produttivo... ma chi, e come, decide di questa utilità ? Non è forse questa una riedizione della logica "scava la buca e poi riempila" di keynesiana memoria, l'invenzione di attività assolutamente inutili, che servono solo a legittimare l'erogazione di reddito attraverso il lavoro, per quanto fittizio, e la necessità dello Stato, l'insuperabilità dell'orizzonte statalista ? Sia nella logica social-statalista che neoliberista, sia che si parli di reddito in rapporto al lavoro, sia di reddito sganciato dal lavoro, rimangono sostanzialmente inalterati i punti-cardine della società capitalistica: il lavoro mercificato, sfruttato, comandato e uno Stato centralizzato e dispotico, che - nel bene e nel male - è signore e padrone del destino dei suoi sudditi.

Proprio in base a questi spunti di riflessione, ci sembra fondamentale partire da un concetto di "reddito di cittadinanza" come nuovo diritto universale ed orizzonte generale da far vivere, nelle forme e nei modi più appropriati e adeguati, all'interno della molteplicità delle contraddizioni materiali, sociali, territoriali. Per non rimanere vuota astrazione, questa parola d'ordine deve darsi specifiche articolazioni: è possibile, per esempio, agganciare la questione del diritto al reddito non tanto a forme di lavoro salariato o "assistito", assurdo e inutile, quanto ad una completa ridefinizione delle attività utili alla collettività, che indichino una strada oltre il mercato, come produzione di valori d'uso e non di valori di scambio per il profitto, come servizio alle esigenze concrete delle comunità locali, e non come asservimento alle burocrazie centrali dello Stato-provvidenza, come impiego e utilizzo della ricchezza e delle risorse all'interno di un territorio per migliorare la qualità della vita, il rapporto di cooperazione e solidarietà dal basso con i territori e le comunità, le popolazioni più povere.

La costruzione dal basso di un nuovo Welfare può muovere, in sostanza, dall'approfondire e dallo sviluppare il nesso tra reddito garantito di cittadinanza e nuova economia sociale, solidale e cooperante, oltre l'orizzonte statalista e centralistico, nel rapporto solidale e di libera federazione tra comunità territoriali, nell'appropriazione dal basso di beni, servizi, qualità della vita, attività utili al "bene comune" e al benessere della collettività.

Qui il terreno si disloca completamente: non più il primato della "razionalità economica capitalistica", della sua gabbia d'acciaio, del suo dispotismo, del suo Stato centralistico e burocratico, bensì il primato della politica e della democrazia dal basso, come continua ridefinizione del "che cosa, come, quanto produrre e per chi".

Molte sono già le espressioni dell' economia sociale, solidale e cooperante: si tratta ovviamente di forme ancora embrionali, contraddittorie e talvolta mistificate. Non pensiamo che esse siano sufficienti a disegnare i contorni di una "nuova società che nasce dal seno della vecchia" come affermava Marx. Pero' è certo che esse indicano un percorso possibile, un movimento del valore d'uso contrapposto alla logica del profitto e dello scambio capitalistico, una critica radicale alla forma-merce, un progetto di società alternativa dove lo stesso concetto di lavoro sia profondamente trasformato, perda le sue caratteristiche di pena, asservimento, sofferenza, diventi attività libera e creativa in concorso e cooperazione con gli altri membri della collettività, per l'accrscimento e il potenziamento di tutte e tutti.

Infine, è fondamentale stabilire il nesso tra diritto al reddito - attività autogestite, autorganizzate, cooperazione dal basso, economia sociale e comunitaria - riduzione generalizzata ed egualitaria del tempo di lavoro, della giornata lavorativa sociale. Senza quest'ultimo elemento qualsiasi altra ipotesi rischia di riprodurre una società duale, una contrapposizione tra lavoro/non-lavoro, una riedizione magari rovesciata della famigerata teoria delle "due società", la lotta tra corporazioni più che l'inizio di una nuova dinamica sociale, più giusta e libera, complessiva e autorganizzata.

sono tre aspetti inscindibili e concatenati di un unico progetto di liberazione sociale che trova nell'Europa il suo spazio politico di organizzazione e lotta!

Arsenale Sherwood - Associazione Difesa Lavoratori - Melting dei centri sociali Nord-Est
Padova, 30 maggio 1997


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