Pierluigi Sullo
D UNQUE FAUSTO Bertinotti fa una proposta. A noi del manifesto. Dice il segretario di Rifondazione comunista, nell'intervista che abbiamo pubblicato giovedì scorso: "La manifestazione del 13 a Venezia per me è un'indicazione importante. Non si potrebbe tentare di fare la stessa cosa sullo stato sociale? Se le forze che sono a Venezia fossero in grado di promuovere una manifestazione nazionale, con una piattaforma o almeno con un'idea sullo stato sociale... Mettere insieme 200 mila persone che ci riprovano, insieme, avendo alle spalle storie diverse...". Domanda il manifesto: "E' una proposta?". Risposta: "Sì". Chiarissimo, e pubblico. Chiaro anche che dobbiamo rispondere in modo altrettanto pubblico. Chiedendoci innanzitutto: cosa ha significato promuovere il 13 settembre?
Intanto, Bertinotti ha ragione nel dire che Venezia è "importante". Lo è per il fatto che nasce da due novità assolute, nei costumi della sinistra italiana. La manifestazione è promossa da "forze" assai diverse, per modelli associativi e per cultura: accanto a partiti, come Rifondazione e i Verdi, ci sono i centri sociali, il cui modello sfugge ad ogni classificazione (società mutue, organizzazioni politiche territoriali?), e poi l'Arci, ovvero la tradizione (in rinnovamento) dell'associazionismo di sinistra, e ancora la rete dell'antirazzismo, associazionismo di tipo nuovo. Scorrendo gli elenchi di adesioni, si vede una confusione - felice - di cooperative e botteghe "eque", gruppi per la cooperazione internazionale, circoli culturali e sindaci, sindacati locali, volontariato e polisportive. Non è, tutto questo, la fotografia di quel che è la sinistra reale? Ovvero, quelli che nella società tentano, ciascuno a modo suo, di mettere rimedio a strappi inaspettati nella trama sociale, a ingiustizie inedite o che il progressismo di sinistra considerava superate (come affronta il sindacato operaio il mercato delle braccia nelle piazze della cintura torinese?). Insomma, sono quelli che si battono sulla frontiera, ancora largamente sconosciuta, che chiamiamo "mondializzazione".Bene, la prima novità è che tutti questi pezzi creano insieme un fatto politico. Il che non è per niente ovvio: quando mai il partito Rifondazione aveva organizzato - con la fatica e i costi che comporta - una manifestazione nazionale accettando di essere una parte dello schieramento? E i centri sociali, da quando hanno questa voglia di intraprendere relazioni e di compromettersi? Una associazione come l'Arci, poi, ha i suoi legami storici - e li rivendica - con la sinistra oggi governativa, e però si è coraggiosamente messa in gioco. E che dire del pulviscolo di gruppi e persone, la loro solitudine, l'impressione di vuotare il mare con un secchiello bucato? Ci vuole del coraggio a mettere in relazione le proprie identità - che la difficoltà del momento tenderebbe a irrigidire - con altre identità.
Il segretario di Rifondazione su questo punto insiste da tempo. Alla conferenza d'organizzazione del suo partito, nel giugno scorso, fece all'incirca questo discorso: nel sud, nel nord-est e nelle periferie delle grandi città la nostra è una presenza socialmente inessenziale, buona al massimo per i voti; mentre il modello neoliberista distrugge la socialità, lo schema produttivo - e quindi delle classi - su cui i comunisti sono nati; ecco perché, concluse, abbiamo molto da imparare dall'associazionismo cattolico e dai centri sociali, se vogliamo rimettere insieme i pezzi sparsi della società e riaprire il conflitto. Sono concetti in cui si può trovare molto più che non il semplice riconoscimento di una inevitabile parzialità del partito (storicamente costruito invece per rappresentare e dirigere una volontà politica popolare imperniata sulla classe operaia).
In quei giudizi si può trovare, anche, la constatazione del fatto che il neoliberismo consiste socialmente appunto della dispersione, sul territorio e a scala planetaria, delle funzioni produttive, quindi dell'accumulazione e della gestione della ricchezza, ma anche del lavoro, perciò delle classi e dei gruppi sociali (la domanda di cui sopra andrebbe precisata: come affronta il sindacato operaio italiano il mercato delle braccia straniere?). E che dunque la forma militante della politica di sinistra deve essere multipla, se vuole avere senso, se cioè vuole ri-creare, nell'ambito dei territori e delle comunità, quella socialità alternativa che nell'antico modello produttivo si costruiva nelle fabbriche. Lo schieramento di Venezia materializza questa pluralità.
E perché ha funzionato? Probabilmente a causa dell'oggetto al quale si applica. E' il secessionismo leghista, che contiene in sé - e schizza attorno come gocce di veleno - le conseguenze più estreme di questa "modernità". Se è vero che la tendenziale frantumazione degli stati nazionali, nella violenza della concorrenza mondiale, è uno degli effetti del neoliberismo, il secessionismo italiano ne è la dimostrazione esasperata. L'etno-nazionalismo padano, il suo stato virtuale para-nazista, l'avversione verso gli stranieri, la fanatica determinazione ad abbandonare ogni socialità alla mercè del mercato, tutto questo è alla fine utile al congelamento di un modello sociale e produttivo, della distribuzione della ricchezza e delle condizioni alle quali si crea.
Il punto è che, a sinistra, la sensazione paralizzante di non avere da opporre, a questo, che simboli declinanti, come l'unità nazionale, o parole inefficaci, come "solidarietà", ha cominciato a sciogliersi prima e attorno all'indizione di Venezia. Perché ad esempio la manifestazione di Amsterdam ha fatto intuire che quella pluralità di "forze", per essere davvero efficace, non può che agire a scala continentale, quella a cui si collocano i poteri reali, e quindi si gioca il destino degli stati sociali, del lavoro e dei sindacati, insomma di quel che lo stesso Bertinotti ha più volte definito la "civilizzazione europea". Il titolo della manifestazione, "L'Europa sociale" - è questa la seconda novità - ha funzionato (quanto, lo verificheremo sabato 13) come un apriti Sesamo. Anche grazie alle elezioni francesi, e ai movimenti della società civile che le hanno provocate, si è visto che a scala europea sarà certo arduo vincere, ma almeno si può combattere, travolgendo lo pseudo-indipendentismo padano con una visione - e un'ideale, sì - che guardano al futuro e hanno ampiezza, ambizione.Si può trasferire questo sulla difesa dello stato sociale? E' da vedere. Ad esempio, i centri sociali, indicendo Venezia, scrivono da parte loro e per la prima volta che sì, si devono difendere lo stato sociale e le "conquiste storiche del movimento dei lavoratori". Ma, aggiungono, questo non può che avvenire appunto a scala europea. Inoltre, spiegano, lo stato sociale del futuro andrà immaginato a partire dalla lotta attorno a questo modello produttivo e del lavoro, non attorno a quello del passato. Questo, naturalmente, allude al problema numero uno: come mettere in coerenza i nuovi levori (e le nuove esclusioni) con l'ancora molto ampio lavoro dipendente di tipo tradizionale? Ecco un problema sia di Rifondazione che, per altri versi, del sindacalismo confederale. E d'altra parte, l'incredibilmente vasto arcipelago di cooperative, commercio alternativo, associazioni mutue e di autodifesa non è uno "stato sociale" in farsi, generato necessariamente dall'aumento dell'esclusione e della povertà? E non allude questo, a sua volta, a una necessità-opportunità di democrazia cittadina, comunitaria, come alternativa sia allo stato centrale che al "federalismo" regionale, cioè micro-statuale? Non sarebbe possibile, come primo passo, promuovere in ogni città "consulte" della società civile, non solo per controllare i pubblici poteri, ma per ri-progettare mezzi e forme della protezione sociale? Cosa pensa di questo Rifondazione?
E' vero, come giustamente ci dice Pietro Ingrao, che dobbiamo studiare, riconoscere i "soggetti", la geografia delle classi. Ma questo si può fare meglio (e forse è il solo modo per farlo) concordando con la risposta che, in quella intervista, Bertinotti dà sull'assenza di movimenti: "Forse se quelli che sono qui, ora, a discutere intorno a questo tavolo ci provassero, e ci provassero insieme...". E del resto del ruolo decisivo della volontà discutevano già molte pagine di Antonio Gramsci, contro il fatalismo determinista dei "marxisti" dell'epoca. Venezia può essere un buon inizio, se le foglioline verdi che spuntano in questi giorni daranno i frutti che promettono. Se così sarà, non v'è dubbio, a mio modesto parere, che il manifesto dovrà allargare, esplicitare meglio il ruolo decisivo (proprio nella frantumazione sociale) che già svolge: di comunicatore intelligente, capace di connettere un pezzo all'altro proponendo problemi e ragionamenti, informazione e formazione. E, in definitiva, dovremo non solo rispondere "sì", ma rilanciare: allora quando, con chi, come ci muoviamo?